XXIX DOMENICA T.O.
“Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai” (Lc 18,1). Ma come Signore? Non basta che ci facciamo un segno della croce appena alzati oppure che diciamo le orazioni al mattino e a volte la sera? Non ti rendi conto che i tempi sono cambiati e che non siamo più come quelli di una volta? Sai che di tempo ne abbiamo pochissimo per il gran daffare? Non vorrai che recitiamo Rosari tutto il giorno? Tra l’altro dimentichi che tu stesso ci ha detto di “non sprecare parole come i pagani… (che) credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7).
A queste domande/affermazioni, probabilmente, il Signore risponderebbe: “Io non vi ho detto di dire preghiere tutto il giorno, ma di pregare sempre”.
Ma come, non è la stessa cosa?
L’abate copto Matta El Meskin ha detto una volta che “ogni contatto con Dio è preghiera, ma non ogni preghiera è contatto con Dio” e un detto latino recita così: “Si cor non orat, invanum lingua laborat – Se il cuore non prega invano lavora la lingua”.
Potremmo dire che le preghiere sono il mezzo che serve per raggiungere il fine: pregare, e pregare non è altro che cercare un contatto con Dio.
Allora la preghiera nasce innanzitutto da uno stato d’animo, da un consapevolezza di non autosufficienza. Non per niente Gesù sceglie una vedova come protagonista della sua parabola; le vedove infatti erano giuridicamente debolissime, perché non c’era più nessuno che s’occupasse di loro. Anche la prima lettura esprime la stessa cosa, Mosè sa di non poter vincere Amalek senza l’aiuto di Dio, per cui mentre Giosuè guida i suoi uomini, Mosé stende le mani al cielo, cioè prega.
In un Salmo troviamo queste sagge parole: “Chi fa affidamento sui carri, chi sui cavalli: noi invochiamo il nome del Signore, nostro Dio. Quelli si piegano e cadono, ma noi restiamo in piedi e siamo saldi” (20,8s).
La preghiera quindi è una ricerca che nasce da un bisogno vitale e non un dovere da adempiere.
La preghiera prima che richiesta per ottenere qualcosa è apertura; è la scelta consapevole di allargare concretamente uno spazio nella propria vita, affinché possa entrare lo Sposo, l’unico che può pienamente “saziare il desiderio”. Ecco allora che pregare sempre, significa cercare di mantenere sempre aperta la porta al Signore che, non attende altro che essere accolto in casa nostra. Ricordate Zaccheo salito sul sicomoro? A lui Gesù dice: “Scendi subito, perché oggi devo fermarmi in casa tua”.
Per questo non sempre si prega, pur dicendo le preghiere, mentre si può essere indaffarati ed essere in preghiera. Non illudiamoci però che si possa pregare stando sempre in movimento o facendo sempre altro. Due che si amano, se veramente si amano, hanno bisogno di fermarsi, di guardarsi, di dedicarsi un tempo gratuito, di toccarsi, anche solo di stare vicini. Dedicare tempo alla preghiera – un tempo reale che, però, è diverso a seconda delle condizioni di vita - è come dire al Signore: la porta è aperta entra, ho bisogno che ti fermi nella mia casa e che resti ad abitare con me, perché “ha sete di te Signore l’anima mia”.
Dove è cercato, atteso e accolto, il Signore non rifiuta l’invito; se invece gli chiediamo di venire, ma quando giunge, trova la porta chiusa, attende pazientemente. Io credo che noi siamo come quel giudice indifferente, al quale il Signore, come una debole vedova, chiede di essere accolto.
Da cosa possiamo riuscire a capire che la nostra è preghiera e non preghiere? Dal segno che lascia in noi. Quando il Signore entra in una casa, nulla può rimanere come prima. I santi sono la dimostrazione di questa affermazione. Dove giunge il Signore, passa il fuoco e, il fuoco non può lasciare indenni. Se dal contatto con Lui io esco illuminato, consolato, provocato, emozionato, allora è probabile che la porta sia stata veramente aperta.
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