Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

venerdì 1 luglio 2011

Madeleine Delbrel

Anche se il gruppo appartiene a Dio, anche se non esiste che per questo, è ciascuno di noi che appartiene unicamente e totalmente solo a Gesù Cristo, Dio e Signore.
Ciò comporta che, se non siamo stati chiamati a una certa solitudine, non saremo al nostro posto qui.
Ci sono molti modi di concepire i consigli evangelici e gli insegnamenti di Cristo, senza per questo essere in disaccordo con la Chiesa.

Ci sono una povertà, un celibato, un’obbedienza, che non portano con sé una solitudine. Si può per esempio, scegliere il celibato per essere più disponibili al prossimo, a un certo prossimo, facendo di questo celibato un dono a Dio.
Al contrario, una religiosa contemplativa sceglierà il celibato a causa di Dio ed ella sa che il suo prossimo visibile, tangibile, sarà ridotto.
Per noi, c’è il rischio dell’equivoco.
Se scegliamo il celibato è per appartenere al Signore; per appartenere, con Lui, per Lui ed in Lui, a coloro che egli ama come noi e che dobbiamo amare come noi stessi.
Qui corriamo il rischio di due errori che un giorno o l’altro ci daranno delle sorprese se non ci sono state svelate: o, avendo scelto il Signore, non avremo compreso che egli ci riservasse un prossimo così grande; oppure, avendo accettato fin dall’inizio il prossimo che egli ci prometteva, saremo stupiti, ad un certo momento, che la terra ci appaia, per così dire, spopolata.
Ora, nell’una o nell’altra ipotesi, il Signore non ci dà alcuna garanzia. Dobbiamo dunque essere preparati ad entrambe. E ciò che dico del celibato potrei dirlo ugualmente di tutte le altre esigenze evangeliche, quando esse saranno accettate o scelte da Cristo, o perché servano a qualcuno dei fini cui egli le ha designate.
L’equivoco per noi aumenta, per il fatto che ci aspettiamo una solitudine quando si tratta di un’altra; per il fatto che non sappiamo fino a qual punto un semplice avvenimento fa sì che quelli che ci circondano rimangano nostro “prossimo” pur diventando estranei e talvolta ostili.
La solitudine di cui si tratta non ci sarà mai risparmiata o, se fosse, sarebbe una grande sventura, perché essa non è scindibile dalla nostra appartenenza al Signore. Non aver conosciuto questa solitudine nella nostra vita sarebbe un segno che tra noi e Dio qualcosa si è spezzato.
E’, innanzitutto in noi che la ritroveremo. Un celibe normale trascina con sé per tutta la vita la coppia di cui era la metà; il suo “complemento” lo segue come un’ombra, anonima per alcuni, con volti via via diversi per altri.
Bisogna prender coscienza della solitudine: essa è utile a condizione che sia assunta volontariamente e, da questo momento, pienamente individuata, portata con gioia da un essere libero, contento di scegliere liberamente ciò che preferisce, anche se fa soffrire. Malgrado ciò, dobbiamo sapere che in certi giorni essa sarà terribile, crudelmente faticosa: sarà quando avremo una grande gioia o una grande stanchezza da condividere.
Accettare la solitudine di qualche momento, avendola preferita di propria volontà, costituirà forse, in punto di morte, la prova d’amore meno falsata che potessimo offrire a Dio.
Ma la solitudine non verrà soltanto in noi. Più una vita diventa apostolica, più essa diventa, in qualche modo, solitaria.
L’amore apostolico, infatti, conosce come si conosce ciò che si ama, e non può non creare legami. I peccatori, o gli indifferenti, gli increduli, gli atei che noi amiamo in tal modo, sono per noi un prossimo sensibilmente vicino. Ma ciò che li rende “apostolicamente” più vicini è ciò in cui essi differiscono da noi e che crea tra noi e loro delle zone di solitudine.
La solitudine sarà tanto più difficile da sopportare, e sembrerà più anormale, quanto più si imporrà al livello delle relazioni più cordiali e delle amicizie più calorose. In quel momento, se non ci si sarà messi in guardia, essa potrà diventare una tentazione pericolosa o creare un clima favorevole alle tentazioni.
Dobbiamo guardare sotto un aspetto positivo la solitudine; sia quella di cui stiamo parlando, sia quella di cui si va in cerca in qualche “deserto”.
Perché se certuni cercano dei deserti, è bene sappiano che la solitudine imposta, trovata in sé stessi è un bene.
Che la solitudine sia un bene è una verità ce richiede tempo per essere appresa; che la solitudine sia inevitabile per l’uomo è una verità che si apprende più alla svelta, e a maggior ragione, da parte del cristiano.
L’uomo tende sempre, anche di fronte a colui che egli ama di più, verso una solitudine inevitabile che racchiude in sé qualcosa di ciascuno. Il cristiano, dall’altra estremità di se stesso, quella medesima che lo separa dagli increduli, va contro ciò che, in Dio, si manifesta alla sua ragione senza che questa faccia appello alla fede. E’ tutto ciò che, per l’uomo lasciato a sé stesso, gli fa apparire Dio come un estraneo. E’ questo primo incontro con la solitudine che il cristiano deve salutare come il vero punto d’incontro col Signore. Dovremo fare di questa solitudine iniziale, accresciuta di ciò che le nostre condizioni di vita vi apporteranno, un luogo prediletto in cui Dio viene a raggiungerci. Molte tristezze umane sono solitudini. Se rendiamo a Dio l’onore della nostra gioia, è perché tutte le nostre solitudini saranno state colmate da lui.
La vita di fraternità con gli altri deve aiutarci a trovare, a conservare, ad amare la nostra solitudine. Se non diamo importanza ai mezzi che essa ci offre, rischiamo di non riconoscerli quando ce li troveremo dinanzi.
Accanto all’idea di unità, al desiderio di realizzarla, c’è tutta una folla di ansie che, una volta espresse, sono per noi i segni della solitudine, una specie di indicatori della solitudine.
Non saremmo donne se, ad un certo momento, non soffrissimo amaramente per non essere comprese da qualche nostra sorella o, il che è lo stesso, da tutte.
Ora, in ognuno, c’è qualcosa che non sarà mai compreso da nessuno. Questo qualcosa è la causa stessa della nostra solitudine, della solitudine che ci è connaturale. E’ questa solitudine rudimentale che dobbiamo accettare in primo luogo.
I modi per non accettarla sono diversi. Per alcuni sarà il ripiegamento su se stessi, il silenzio (ma non quello buono), l’atteggiamento classico dell’”incompreso”. Per altri sarà, al contrario, l’accanimento a spiegare a se stessi o, più spesso, a far comprendere l’ultima delle ultime sfumature del proprio modo di pensare. Nell’uno e nell’altro caso, ciascuno si cristallizzerà, sia nel silenzio, sia nella parola, il che gli darà l’impressione di una discordanza; in realtà, è una nota di noi stessi che nessun orecchio umano potrà mai intendere.
Il giorno in cui comprenderemo che la falla insanabile tra noi e gli altri è – attraverso tutti gli amori, tutte le influenze, tutte le prove – il luogo di ciò che ci fa essere quello che siamo; quando avremo compreso che è in questo stesso luogo che Dio ci parla chiamandoci per nome, avremo operato il grande capovolgimento che fa della cattiva solitudine una solitudine benedetta.  

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