Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

mercoledì 10 agosto 2011

Il pentimento (Matta El Meskin) 1

L’umanità si è rallegrata per i primordi della fede ed è stata ravvivata dal martirio come sigillo della fede: adesso attende ancora un’epoca di pentimento che sarà una delle età spirituali più fiorenti e per nulla meno gioiosa e rigogliosa delle epoche precedenti, a condizione che il pentimento sia vissuto autenticamente.

Il pentimento non è altro che una seconda vittoria della fede e una nuova testimonianza. Il ritorno alla fede accolta un tempo è una gioia quasi più grande della prima adesione. Pensate alla gioia della vedova dopo che ha trovato la dracma perduta (Lc 15,8-10); pensate al pastore che si rallegrava più per aver ritrovato la sua pecora smarrita che non per la certezza di avere le altre novantanove nell’ovile (Lc 15,4-7). Il Signore ci insegna che il ritorno in seno a Cristo di un uomo che si pente ha una forza e un onore pari alla gioia di avere un intero ovile, cioè un’intera chiesa.
Dio ha voluto accordare al pentimento il doppio di onore, di felicità, di gaudio e di gioia, in modo che un peccatore non fosse scoraggiato o timoroso di tornare in braccio a Cristo, che la gloria della croce potesse prevalere sull’infamia del peccato e che la mitezza di Dio, sempre pronta a giustificare l’empio, fosse glorificata. Anche se un peccatore che si pente potrà difficilmente essere notato dal mondo, la Bibbia afferma che il cielo intero accoglie con gioia il pentimento di un peccatore e si rallegra quando un uomo viene giustificato. Il pentimento è la più grande delle opere di cui l’umanità può essere fiera, perché chi si pente risponde al potere che Dio ha di perdonare e di giustificare e ottiene, mediante la contrizione, il frutto della croce e la santificazione da parte di Dio. Pensate: un uomo che si pente può, con la sua contrizione, rallegrare i cieli e il cuore di Dio!
Quando i santi percepirono l’onore riservato al pentimento e alla contrizione – onore originariamente spettante ai peccatori, agli adulteri e agli indolenti -, lo carpirono per se stessi e si sottoposero con serietà e avvedutezza alla severa disciplina del pentimento, come se fossero loro gli indolenti. così la gente ha finito col pensare che il pentimento fosse l’opera dei santi e la contrizione quella dei giusti!
Quanto a noi miserabili, pensiamo che sia la nostra giustizia a introdurci presso Dio e che la nostra virtù, l’erudizione, il culto, lo zelo ci garantiscano la comunione con le cose celesti. Non ci capacitiamo che “tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui dobbiamo rendere conto” (Eb 4,13), che non abbiamo nulla di buono per avvicinarci a Dio: “Nessuno è giusto, nemmeno uno” (Rm 3,10), e che “come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia” (Is 64,5).
Se solo avessimo conosciuto che Cristo è venuto per “giustificare l’empio” Rm 4,5) e per chiamare “mia diletta quella che non era la diletta” (Rm 9,25); se solo fossimo sicuri di questo, rinunceremmo immediatamente a tutta la nostra giustizia, a tutta la nostra falsa pietà, a ogni ostentazione forzata, e le deporremmo all’istante come cose empie e non giudicheremmo i nostri peccati come troppo gravi per essere lavati dal sangue di Cristo e la nostra impurità come un carico troppo pesante per il suo amore.
Non è nostro compito giustificare gli empi, non possiamo farlo: questa è un’azione divina, una capacità soprannaturale che resta incomprensibile per noi. È la ricchezza del cielo che è stata versata con il sangue di Cristo nei nostri cuori; è la ricchezza del dono e della generosità totale; è la benevolenza di Dio unita a una compassione e a un amore sovrabbondanti, al punto che è stata sopraffatta dal suo stesso sentimento e non ha avuto pietà di se stessa, ma ha immolato se stessa sulla croce a favore della miseria dei peccatori.
Giustificare l’empio è un mistero divino, uno dei più profondi misteri della salvezza. Ci sarebbe sufficiente credere soltanto che Dio è capace di giustificare l’empio: questa nostra fede sarebbe considerata giustizia di per sé, senza tener conto se ci siamo avvicinati a Dio come persone empie convinte di dover essere giustificate in virtù della potenza di Dio di giustificare e santificare; se questo avvenisse, ci sprofonderebbe immediatamente nell’incomprensibile mistero di salvezza.
Gesù Cristo è venuto nel mondo per salvare i peccatori! Sì, il peccatore! Il peccatore non è altro che un ammasso di immondezza unita a lussuria, malvagità, vanità e alla penosa esperienza della dissolutezza. Proprio il peccatore, ripugnante a se stesso e a gli altri, è la causa della venuta di Cristo nel mondo.
Il peccatore che avverte dentro di sé l’assoluta mancanza, a causa del peccato, di ciò che è santo, puro e grande, il peccatore che appare ai propri occhi nel buio più totale, separato dalla speranza della salvezza, dalla luce della vita e dalla comunione dei santi, proprio lui è l’amico che Gesù ha invitato a tavola e che è andato a cercare lungo le siepi, è lui l’amico al quale è stato chiesto di essere l’invitato alle nozze di Cristo e l’erede di Dio. Dio ha promesso di non ricordare nessuno dei suoi peccati ma di lasciarli cadere nell’oblio, come una nube d’estate è assorbita dallo splendere del sole. Non è forse per lui che Cristo ha crocifisso se stesso e ha sopportato la miseria e l’abbandono?
Il meraviglioso potere di Cristo, quale Dio che redime e ama fino alla morte, non può essere assolutamente percepito o sperimentato se non nella persona del peccatore gettato a terra e ripudiato da tutti. Senza il peccatore non siamo in grado di capire l’amore di Cristo, né di misurarne la profondità, né questo amore divino può manifestarsi in un’azione ne riveli la qualità straordinaria. L’amore divino raggiunge la massima considerazione ai nostri occhi quando perveniamo a conoscerlo nella sua condiscendenza verso di noi proprio mentre noi siamo caduti in una condizione miserevole.
Per amore del peccatore sono stati svelati i misteri dell’amore di Dio ed è stata aperta a noi la ricchezza di Cristo, quella ricchezza che è offerta gratuitamente e che né oro né argento possono acquistare. Quanto è grande la povertà del peccatore! Solo l’estrema miseria del peccatore, infatti, fa sgorgare la ricchezza di Cristo, con una fiducia simile a quella di un bambino affannato che succhia il latte al seno della madre.
Cristo non arricchisce mai chi è ricco, né sfama chi è sazio, né giustifica chi è giusto, né redime chi confida in se stesso, né insegna a un erudito! La sua ricchezza è solo per il povero e il bisognoso, per chi è scartato, per chi è disprezzabile e sciagurato anche ai propri occhi; il cibo abbondante di Cristo è per l’affamato, la sua giustizia per i peccatori, il suo braccio forte per chi è caduto, la sua sapienza per i bambini e per quanti si considerano piccoli. Chiunque è povero, affamato, peccatore, caduto o ignorante è l’ospite di Cristo.
Cristo è disceso dalla gloria del suo regno alla ricerca di coloro che sono nell’abisso profondo, di coloro che hanno raggiunto il massimo grado di miseria, di perdizione e di oscurità abominevole, di coloro che non hanno più speranza in se stessi. In loro si manifesta il suo potere d’azione e la potenza del suo essere Dio, quando il suo amore immolato si precipita a tirar fuori il peccatore dal pantano e dal letamaio e si affretta ad aspergere e lavare con il santo sangue ogni membro contaminato.
In persone di questo tipo è glorificata la giustizia di Dio; in esse egli trova un terreno per la compassione, la misericordia e la tenerezza, e nelle anime di coloro che sono disprezzati e scartati la sua umiltà trovo conforto, poiché nell’essere condiscendente verso di loro egli trova un’opera degna della sua mitezza.
Oh, se soltanto i peccatori sapessero di essere l’opera di Dio e la gioia del suo cuore! “Siamo opera delle sue mani” (Ef 2,10). Se il peccatore fosse sicuro che la sua condizione agli occhi di Dio è sempre stata tra le preoccupazioni dell’Onnipotente ed è stata presa in considerazione fin dall’eternità, e che la mente di Dio di è data pensiero nel corso dei secoli del uso ritorno, e che i cieli e quanto contengono restano in attesa della sua conversione, allora non si vergognerebbe mai di se stesso, non disprezzerebbe la propria possibilità di conversione, non rimanderebbe il suo ritorno.
Se solo il peccatore sapesse che tutte le sue trasgressioni, le sue colpe e le sue infermità non sono altro che il motivo della compassione, della remissione e del perdono di Dio, e che per quanto grandi e atroci possano essere, non potranno mai disgustare il cuore di Dio, né estinguerne la misericordia, né ostacolare – neanche per un solo istante – il suo amore! Se solo il peccatore sapesse questo, allora non si aggrapperebbe mai al suo peccato né cercherebbe nell’isolamento da Dio un velo per impedire alla sua vergogna di vedere il volto di Cristo, quel volto che sta cercando di dimostrargli l’amore che nutre per lui e che lo sta chiamando!

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