XXVI DOMENICA T.O.
Paolo di Tarso, Francesco di Assisi,
Jacques Fesch, André Frossard, Madeleine Delbrel … Chi sono costoro? Sono
uomini e donne che ho “incontrato” lungo
il cammino della mia esistenza e che mi hanno donato o e danno tanto. Sono figli
di epoche molto lontane tra loro; provengono da contesti socio/economici e
culturali molto diversi, eppure c’è una cosa che li accomuna: a Dio che li
chiamava nella sua vigna, tutti hanno risposto: “Non ne ho voglia”, ma poi si sono pentiti e vi sono andati.
Lodiamo il Signore perché ha concesso alla
sua Chiesa persone luminose come queste, capaci ancora, dopo tanti anni – se
non secoli – dalla morte – di essere profondamente vivi. Lodiamo Dio,
soprattutto, perché ha concesso all’umanità il dono del pentimento e del perdono.
Sono splendide le parole
di un altro Salmo: “(Il Signore) Non
è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i
nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo
è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono;
quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre
colpe. Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso
quelli che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati” (Salmo 103,9ss). Il Signore accoglie sempre il nostro pentimento. Non importa che
sia immediato. Se è vero che non è bene rimandare a domani il cammino di
conversione, perché non conosciamo la
durata dei nostri giorni, è altrettanto vero che per Dio “mille anni sono come il giorno di ieri che è passato”. A chi si
allontana dal peccato che ha commesso e osserva la legge del Signore, Dio
promette vita e non morte.
Il Signore non ci dirà, hai aspettato
troppo, dovevi svegliarti prima, hai
sprecato troppo tempo, ma : “Vi sarà più
gioia in cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove
giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Dio ha voluto
accordare al pentimento il doppio di felicità
e di gioia, in modo che non fossimo scoraggiati o timorosi a tornare in
braccio a Cristo. Chi si pente ha lo straordinario potere di rallegrare “il cuore di Dio”.
Il pentimento è un’esperienza tanto faticosa
quanto risanante; è un dolore profondo e
lancinante che nasce da uno sguardo lucido
su se stessi, sul proprio modo di pensare e di agire, che consente di
riconoscere quei lati oscuri che a volte invadono l’esistenza e la rovinano,
però è nel contempo risanante, perché consente di intervenire, di cambiare strada.
Il pentimento è indispensabile per guarire. Se non ci fosse data la possibilità
di pentirci, saremmo dei dannati già ora, perché ci verrebbe imposto di
portarci dietro in eterno il nostro lato oscuro, senza speranza.
Da cosa nasce il pentimento? Dall’ascolto
di Dio che parla in continuazione, basta avere l’orecchio aperto. La Sua Parola
– consegnataci nella Sacra Scrittura - è un grido costante, che attende solo di
risuonare nel nostro cuore, per lasciare un segno indelebile; parla anche
attraverso la voce gli uomini, che ci
fanno da specchio e ci mostrano, a volte in modo implacabile, quello che siamo. C’è infine la coscienza che
è “il nucleo più segreto e il sacrario
dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità” (GS
16). Isaia l’Anacoreta (370 d.C.) la definisce come “il nostro custode che ci mostra tutto ciò in cui inciampiamo. Se non le
ubbidiamo si ritirerà da noi: abbandonati da questa noi cadiamo nelle mani dei
nostri nemici, che non ci lasceranno più”. Dobbiamo imparare a dare retta
alla coscienza, ma per evitare che anche essa diventi causa del nostro
fallimento, abbiamo il dovere di nutrirla e formarla, essa infatti “quando
l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, … diventa quasi cieca” (GS
16).
“Non
è retto il modo di agire del Signore” (Ez 18,25); sembra un’affermazione assurda,
eppure c’è chi la pensa così.
Perché Dio sbaglia secondo costoro?
Perché, dicono, lascia all’essere umano la
libertà di fallire e si ostina ad accogliere sempre il pentimento. C’è chi
vorrebbe che Dio costringesse gli uomini – gli altri chiaramente – a compiere
il bene e facesse pagare il giusto a chi compie il male. Qualcuno vuole
insegnare a Dio come deve fare Dio.
E’ vero, Dio ci lascia liberi. Il Concilio
ci consegna queste parole straordinarie: “La
vera libertà … è nell'uomo un segno privilegiato dell'immagine divina. Dio
volle, infatti, lasciare l'uomo « in mano al suo consiglio » che cerchi
spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena
e beata perfezione. Perciò la dignità dell'uomo richiede che egli agisca
secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni
personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna. … Ogni
singolo uomo, poi, dovrà rendere conto della propria vita davanti al tribunale
di Dio, per tutto quel che avrà fatto di bene e di male” (GS 17).
Non è il Signore però che sbaglia, ma
siamo noi che abusiamo di tale libertà. Il male sta nel non voler ascoltare la
voce del Signore, continuando a fare di testa nostra, nell’erronea convinzione
di sapere ciò che è giusto. Dobbiamo imparare però ad assumerci la
responsabilità delle conseguenze, a volte negative, e smetterla di accusare
Lui. Se uno beve due litri di vino al giorno, non può poi prendersela con il
cantiniere se il suo fegato si spappola.
Ascoltiamo il grido drammatico del popolo
d’Israele: “O Dio, nella tua eredità sono
entrate le genti: hanno profanato il tuo santo tempio, hanno ridotto
Gerusalemme in macerie. Hanno
abbandonato i cadaveri dei tuoi servi in
pasto agli uccelli del cielo, la carne
dei tuoi fedeli agli animali selvatici … Siamo divenuti il disprezzo dei nostri
vicini … Fino a quando sarai adirato, Signore:
per sempre?” (Salmo 80,1ss); ascoltiamo però anche la risposta del Signore:
“il mio popolo non ha ascoltato la mia
voce, Israele non mi ha obbedito: l’ho
abbandonato alla durezza del suo cuore. Seguano pure i loro progetti! Se il mio
popolo mi ascoltasse! Se … camminasse per le mie vie!” (Salmo 81,12).
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