Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 10 settembre 2011

Se il mio fratello commette colpe contro di me …


XXIV DOMENICA T.O.

     I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”  (Is 55,8); oggi il Signore ci fa fare l’esperienza dell’abisso tra il Suo modo di “pensare e di agire” e il nostro.

     Se tuo fratello commette una colpa contro di te …” (Mt 18,15); “Se il mio fratello commette colpe contro di me …” (18,21);  siamo nello stesso contesto di Domenica scorsa e il Signore continua a mostrarci come reagire nei confronti di chi compie qualcosa di male nei nostri confronti.
     Domenica ci ha affidato la responsabilità di correggere (etimologicamente significa guidare dirittamente), - atteggiamento legittimo, anzi direi doveroso, che significa tentare in tutti modi di aiutare il fratello a riconoscere il male fatto -. La correzione, a differenza del giudizio che, invece mira a  ferire (“non giudicate e non sarete giudicati”), porta con sé il desiderio di salvezza, non di distruzione dell’altro. Correggere è risanare. La correzione ha a che fare con il voler bene, per questo spera la presa di coscienza e il cambiamento, vuole essere come la cura rispetto alla malattia. La cura non è necessariamente indolore, anzi può fare molto male, ma ha come scopo la guarigione; correggere e perdonare non significano non chiedere conto o non cercare di impedire il ripetersi del comportamento cattivo. 
     Sappiamo bene però che non a ogni correzione corrisponde automaticamente il cambiamento. Riconosciamo la nostra personale difficoltà alla conversione, per meravigliarci troppo di quella altrui.
Che fare allora?
Tagliare i ponti e lasciare andare l’altro alla deriva? Maledire e recriminare? Abbiamo la consapevolezza di non potercelo permettere; quel “settanta volte sette”, annunciato a Pietro, afferma con chiarezza la chiamata a perdonare sempre e comunque. I rabbini insegnavano che Dio perdona solo due volte, alla terza punisce. Pietro va ben oltre l’insegnamento ufficiale, ma Gesù sorpassa ogni pur ottimistica prospettiva umana. Il sette indica la pienezza e i suoi multipli indicano la pienezza di pienezza.
     Che cose grandi ci chiedi, Signore! Ascolto le tue parole, ma faccio mie le parole del profeta Daniele: “il mio colorito si fece smorto e mi venivano meno le forze” (Dn 10,8).
     Ebbene, Gesù ci chiama a non rinunciare alla correzione, accompagnandola però sempre con il perdono. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il buonismo imperante, dove tutto è giustificabile e giustificato e non si chiede conto dei comportamenti peccaminosi. Non dimentichiamo le parole di Gesù: “Io non voglio la morte del peccatore,  ma che si converta e viva”. Gesù vuole la guarigione, quindi non la morte, ma nemmeno la permanenza nella malattia. Egli non consente mai la permanenza nel peccato. Correzione e perdono sono le due facce della stessa medaglia e incarnano concretamente il comandamento dell’amore.
     Per non sentirci obbligati a questo comando del Signore, non possiamo liquidarlo,  dichiarandolo ingiusto o troppo difficile. Altrimenti valgono anche per noi le parole dette da Gesù a Pietro: “Va’ dietro a me, Satana, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.
     Non dimentichiamo che al dovere di perdonare, corrisponde il diritto a essere perdonati. Non possiamo sopravvivere senza il perdono, sia quello divino, ma anche quello degli uomini. Il perdono è indispensabile alla salvezza e al benessere dell’umanità. Senza perdono non c’è vita.
     Sappiamo molto bene però che il perdono non può essere il frutto del semplice sforzo di volontà; e non serve pensare alle grandi sofferenze che ci possono essere inflitte, per riconoscere tale fatica. Il perdono è il frutto dell’amore. Chi non ama non può perdonare, perché non ha nessun interesse alla salvezza dell’altro. Chi non ama o è indifferente alla “guarigione” altrui o addirittura la vuole impedire. Mi ha fatto impressione leggere sul Corriere della Sera che il governo norvegese non intende mutare il suo atteggiamento nemmeno nei confronti dell’attentatore massone e nazifascista che ha ucciso tanti giovani alcune settimane fa; anche a lui è riconosciuto il diritto a essere “salvato” e corretto. Eppure anche costui ha un debito di 10.000 talenti (enorme cifra se consideriamo che il re Erode aveva rendite per 900 talenti annui).
     Parlare di quel caso può però sviarci, perché si comincia subito a pensare ai casi estremi, mentre il Signore ci chiama al perdono a partire dalla quotidianità, fatta di tante ferite subite e inferte.
     E’ assolutamente inutile chiederci come faremmo se fossimo nei panni di chi ha subito i grandi drammi, perché sono solo astrazioni. Possiamo però lasciare illuminare la nostra attuale e ordinaria esistenza da queste parole del Signore e permettergli di provocarci. 

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