Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 29 ottobre 2011

Dicono e non fanno: gli altri o io stesso?


XXXI DOMENICA T.O.

     “Non fatevi chiamare “rabbì” …; non chiamate “padre” nessuno …; non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo …” (Mt 23, 8ss). Il Signore poi dice chiaramente che gli scribi e i farisei, che avevano il ministero di interpretare e insegnare la Parola di Dio, andavano ascoltati e obbediti, ma non imitati, perché ipocriti e incoerenti: “dicono e non fanno” (23,3).

     Queste parole sembrano dare ragione a tutti coloro che, dentro e fuori dalla Chiesa, affermano la non necessità di una mediazione umana tra Dio e l’uomo. Ognuno dovrebbe avere la possibilità di stare in relazione diretta con il Signore, senza “filtro” alcuno. Tra l’altro fatichiamo ad accettare che uno come noi, magari peggio di noi, possa essere un “mezzo”  necessario per giungere a Dio.
     E’ evidente che se le cose stessero così, non avrebbe nessun senso tutta la struttura mediatrice della Chiesa, né il sacerdozio né tantomeno i sacramenti.
     Anche smentendo i luoghi comuni che generalizzano l’inadeguatezza dei pastori, sappiamo bene che qualcosa di vero c’è, perché ovunque vi è un essere umano, è presente la luce e la tenebra. Scriveva papa Gregorio Magno già nel VI secolo (590-604): “Insegnare una disciplina trova il suo legittimo fondamento nel possesso attento e meditato della stessa. Il magistero pastorale non può essere assunto da temerari impreparati, giacché il governo delle anime è l’arte di tutte le arti. Si sa che le ferite dello spirito sono più nascoste e profonde di quelle della carne. E tuttavia, indice di spaventosa leggerezza, gente che non conosce neppure una norma di vita spirituale, osa qualificarsi come medico delle anime. … Molti con il pretesto del ministero pastorale, bramano trovare nella santa Chiesa la gloria degli onori[1]; scriveva ancora: “Nessuno nella Chiesa, è più nocivo di chi, vivendo via perversa, ha il nome e l’ufficio della santità”.[2] Non stiamo quindi a nasconderci dietro un dito. Sappiamo che la stragrande maggioranza dei nostri pastori, a tutti i livelli, sono persone degnissime, ma sappiamo altrettanto bene che qualcuno si è “allontanato dalla retta via” (Mal 2,18). Che fare; a causa di quei pochi rigettare il tutto? Teniamo sempre presente l’insegnamento di Francesco d’Assisi: “il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro.  E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come miei signori.  E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori.  E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri” (FF 112s).
     Possiamo piangere per il peccato di alucni pastori, ma la incoerenza di alcuni non può giustificare la nostra. 
     Noi dobbiamo stare attenti a un serio pericolo: dimenticare che “dietro” il mediatore c’è Gesù Cristo. Tale errore lo si può compiere in due modi: negando al ministro il “potere” di essere mediatore oppure fissando talmente tanto l’attenzione su di lui da dimenticare Cristo. Ci sono quelli che si confessano da sé, che pregano in casa loro, che leggono la Parola di Dio a modo loro, ma ci sono anche quelli che se gli trasferiscono il parroco perdono la fede, dimenticando che il Signore non se n’è andato. Del resto san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, sottolinea proprio quest’ultimo problema, quando scrive: “Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece di Apollo”, “Io invece di Cefa”, “E io di Cristo” (1Cor 1,12). In entrambi i casi noi andiamo contro la volontà del Signore, che ha affidato a degli uomini in carne e ossa - dei quali conosceva bene  limiti e debolezze - il compito di essere suoi mediatori, ma che non possono mai dimenticare di non essere indipendenti da Lui.
     Il pastore ha il compito di ricordare continuamente che il salvatore non è lui, ma Dio; deve insegnare a non avere altri maestri se non il Cristo. Il pastore deve essere pienamente consapevole di essere prima di tutto un discepolo a sua volta.  Quando un pastore porta a sé, non compie mai un buon servizio né a Dio né all’uomo, perché, come troviamo nella preghiera della Colletta “usurpa la gloria di Dio” e rischia di portare gli uomini fuori strada.
     Abbiamo il diritto di chiedere ai nostri pastori di essere guidati dalla loro parola, ma anche dal loro esempio; essi hanno il dovere di darci non le loro idee, ma ciò che il Signore gli ha affidato per noi, altrimenti si sentiranno dire: “Voi vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento” (Mal 2,8).
    Infine vorrei solo ricordare che molti di noi sono “pastori” nella famiglia, sul luogo di lavoro, nei luoghi di svago ecc … e la parola di Gesù vale per tutti; nessuno di noi può sentirsi estraneo al richiamo del Signore; nessuno può sentirsi autorizzato a dire, ma a non fare.


[1] Gregorio Magno, La regola pastorale,  Ed. Paoline p. 93-94
[2] Id. p. 97

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