XXXI DOMENICA T.O.
“Non
fatevi chiamare “rabbì” …; non chiamate “padre” nessuno …; non fatevi chiamare
“guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo …” (Mt 23, 8ss). Il
Signore poi dice chiaramente che gli scribi e i farisei, che avevano il ministero
di interpretare e insegnare la Parola di Dio, andavano ascoltati e obbediti, ma
non imitati, perché ipocriti e incoerenti: “dicono
e non fanno” (23,3).
Queste parole sembrano dare ragione a
tutti coloro che, dentro e fuori dalla Chiesa, affermano la non necessità di
una mediazione umana tra Dio e l’uomo. Ognuno dovrebbe avere la possibilità di
stare in relazione diretta con il Signore, senza “filtro” alcuno. Tra l’altro
fatichiamo ad accettare che uno come noi, magari peggio di noi, possa essere un
“mezzo” necessario per giungere a Dio.
E’ evidente che se le cose stessero così,
non avrebbe nessun senso tutta la struttura mediatrice della Chiesa, né il
sacerdozio né tantomeno i sacramenti.
Anche smentendo i luoghi comuni che
generalizzano l’inadeguatezza dei pastori, sappiamo bene che qualcosa di vero
c’è, perché ovunque vi è un essere umano, è presente la luce e la tenebra.
Scriveva papa Gregorio Magno già nel VI secolo (590-604): “Insegnare una disciplina trova il suo legittimo fondamento nel possesso
attento e meditato della stessa. Il magistero pastorale non può essere assunto
da temerari impreparati, giacché il governo delle anime è l’arte di tutte le
arti. Si sa che le ferite dello spirito sono più nascoste e profonde di quelle della
carne. E tuttavia, indice di spaventosa leggerezza, gente che non conosce
neppure una norma di vita spirituale, osa qualificarsi come medico delle anime.
… Molti con il pretesto del ministero pastorale, bramano trovare nella santa
Chiesa la gloria degli onori”[1]; scriveva ancora: “Nessuno nella Chiesa, è più nocivo di chi, vivendo via perversa, ha il
nome e l’ufficio della santità”.[2] Non stiamo quindi
a nasconderci dietro un dito. Sappiamo che la stragrande maggioranza dei nostri
pastori, a tutti i livelli, sono persone degnissime, ma sappiamo altrettanto
bene che qualcuno si è “allontanato dalla
retta via” (Mal 2,18). Che fare; a causa di quei pochi rigettare il tutto?
Teniamo sempre presente l’insegnamento di Francesco d’Assisi: “il Signore mi dette e mi dà una così grande
fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se
mi facessero persecuzione, voglio
ricorrere proprio a loro. E se io avessi
tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in
cui dimorano, non voglio predicare
contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e
onorare come miei signori. E non voglio
considerare in loro il peccato, poiché
in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio
questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo
corporalmente, in questo mondo, se
non il santissimo corpo e il santissimo sangue suo che essi ricevono ed essi
soli amministrano agli altri” (FF
112s).
Possiamo piangere per il peccato di alucni pastori, ma la incoerenza di alcuni non può giustificare la nostra.
Noi dobbiamo stare attenti a un serio
pericolo: dimenticare che “dietro” il mediatore c’è Gesù Cristo. Tale errore lo
si può compiere in due modi: negando al ministro il “potere” di essere
mediatore oppure fissando talmente tanto l’attenzione su di lui da dimenticare
Cristo. Ci sono quelli che si confessano da sé, che pregano in casa loro, che
leggono la Parola di Dio a modo loro, ma ci sono anche quelli che se gli
trasferiscono il parroco perdono la fede, dimenticando che il Signore non se
n’è andato. Del resto san Paolo nella prima lettera ai Corinzi, sottolinea
proprio quest’ultimo problema, quando scrive: “Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io
invece di Apollo”, “Io invece di Cefa”, “E io di Cristo” (1Cor 1,12). In
entrambi i casi noi andiamo contro la volontà del Signore, che ha affidato a
degli uomini in carne e ossa - dei quali conosceva bene limiti e debolezze - il compito di essere suoi mediatori, ma che non
possono mai dimenticare di non essere indipendenti da Lui.
Il pastore ha il compito di ricordare
continuamente che il salvatore non è lui, ma Dio; deve insegnare a non avere
altri maestri se non il Cristo. Il pastore deve essere pienamente consapevole di essere prima di tutto un discepolo a sua volta. Quando un pastore porta a sé, non compie mai un
buon servizio né a Dio né all’uomo, perché, come troviamo nella preghiera della
Colletta “usurpa la gloria di Dio” e
rischia di portare gli uomini fuori strada.
Abbiamo il diritto di chiedere ai nostri
pastori di essere guidati dalla loro parola, ma anche dal loro esempio; essi
hanno il dovere di darci non le loro idee, ma ciò che il Signore gli ha
affidato per noi, altrimenti si sentiranno dire: “Voi vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a
molti con il vostro insegnamento” (Mal 2,8).
Infine vorrei solo ricordare che molti di noi
sono “pastori” nella famiglia, sul luogo di lavoro, nei luoghi di svago ecc … e
la parola di Gesù vale per tutti; nessuno di noi può sentirsi estraneo al
richiamo del Signore; nessuno può sentirsi autorizzato a dire, ma a non fare.
Nessun commento:
Posta un commento