Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 10 dicembre 2011

La luce vera, quella che illumina ogni uomo


III DOMENICA AVVENTO

     Uno dei trucchi usati dal principe di questo mondo per ingannarci, è mantenere intatto il contenitore esterno di tutto ciò che è stato portato da Gesù Cristo, cercando però di svuotarlo lentamente del suo vero contenuto, così da renderlo inoffensivo.

     Un esempio per tutti riguarda la Chiesa, la quale al maligno non crea alcun problema, purché non sia la dispensatrice della Grazia di Dio attraverso i sacramenti e la Parola, ma una semplice associazione di volontariato, che accudisce i corpi degli uomini, senza preoccuparsi troppo del loro spirito. L’Eucaristia gli va benissimo, purché sia solo una riunione tra persone che desiderano stare insieme; così la confessione, basta che sia un rito superficiale e raro, che non ha niente a che fare con la conversione - egli non ha paura delle confessioni senza pentimento -; ci consente di leggere la parola di Dio, purché serva per diventare più colti, non per essere segnati da essa e cambiare  vita.
     Anche il Natale entra a far parte di questo processo. Giovanni Battista è venuto per “dare testimonianza alla luce … la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,7), eppure dietro la parola Natale, oramai sembra esserci tutt’altro. Chiediamo in giro, sentiremo parlare di regali, di Babbo Natale, di albero di Natale, di pace, di famiglia, forse anche di presepe, ma il Cristo, Dio incarnato per raggiungere e salvare ogni uomo, è atteso?
     Non desidero fare polemica o demonizzare l’aspetto festoso del Natale – ben venga -, ma non posso tacere sul fatto che la vera festa non sta in questo aspetto esteriore. Ciò che mi affascina è sapere che il Signore è venuto per “portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione ai prigionieri” (Is 61,1). Vedete, è questo che fa dire con il profeta: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio” (61,10). Del resto ogni persona di buon senso attende proprio questo. Sappiamo per esperienza, invece, che tutto il resto della festa è come la nube estiva o la rugiada mattutina, dura un attimo, poi passa e va, senza lasciare segno.
     Io come sacerdote, ma anche tutti noi insieme dobbiamo essere quella voce che rende testimonianza alla luce, perché di questo ha bisogno il mondo.
     Giovanni Battista fa un’affermazione molto bella; prima dichiara ai suoi interlocutori di essere solo un mediatore, come quei segnali che troviamo lungo le strade e che ci indicano la via – anche noi sacerdoti, per quanto mediatori del Cristo, dobbiamo dirvi: “Io non sono il Cristo”, guai se vi fermate a noi -, poi afferma: “Colui che viene dopo di me: a lui non sono degno di slegare il laccio del sandalo” (Gv 1,27). Nel popolo eletto nessuno schiavo ebreo poteva essere costretto a sciogliere i legacci dei sandali del proprio padrone, quindi Giovanni Battista con questa parole, riconosce che tra lui e il Cristo c’è un abisso. Egli sa di essere come una lampada, ma Gesù Cristo è il sole.  Forse però dietro queste espressioni c’è qualcosa di più profondo. Non è impossibile infatti che egli si riferisca alla legge del Levirato. In quell’epoca, quando una donna rimaneva vedova del marito senza avere avuto figli, il cognato aveva l’obbligo di dare una discendenza al defunto. Il figlio nato da questa unione avrebbe portato il nome del primo marito. Questo fatto per noi inconcepibile, costituiva una tutela per la donna che così non veniva rimandata alla famiglia di origine, che poteva anche rifiutarla. Se il cognato rinunciava a unirsi a questa donna, colui che nella scala giuridica veniva dopo di lui, procedeva alla cerimonia dello scalzamento. La persona arrivava, scioglieva il legaccio dei sandali del cognato che rifiutava l’unione, prendeva il sandalo lo alzava e ci sputava. In questo modo il diritto passava a lui.
     Giovanni sta dicendo probabilmente: io vi annuncio il vero sposo, colui che renderà feconda la vostra sterilità, che farà fiorire la vostra esistenza.
      Eccoci allora in attesa dello sposo per dirgli: Tu ci conosci uno per uno, perché ci hai disegnati sulle palme delle tue mani, sai che cosa sanguina in noi; soccorrici. Ti presentiamo Signore le nostre piaghe: fasciale!
Tu sai che cosa ci tiene prigionieri e ci impedisce di essere liberi di seguirti: aiutaci a dare un nome a chi ci tiene al laccio e, insieme a noi, combattilo. Siamo stanchi Signore di essere legati a una catena invisibile, ma non per questo meno forte.
Tu conosci Signore la nostra tenebra, quella portata dai peccati che abbiamo scelto di compiere, ma anche quella della paura, della fatica, della solitudine, del disorientamento: vieni e porta la tua Luce. Tu sei il sole che sorge e la tua luce vogliamo.
     Del resto affermava sant’Ambrogio:  Dove c’è la fede, ivi c’è la libertà” (Ep. 65,5: ubi fides ibi libertas).

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