La porticina
del tabernacolo della nostra chiesa vede raffigurato un pellicano. Perché?
Perché il modo con cui quest’uccello nutre i suoi piccoli, puntando il becco
sul petto per poter gettare fuori più comodamente i pesci dalla borsa flessibile
posta sotto la gola – per cui spesso le piume bianche sono arrossate dal sangue
-, ha dato spunto a una favola antichissima, secondo la quale il pellicano si
lacera il petto e dà vita e nutrimento col suo sangue ai propri figli.
Perché siamo
qui oggi, come ogni domenica?
Siamo qui per
partecipare a una cena, nella quale condividere lo stesso cibo simbolico e dove
l’importante è incontrarci tra di noi, per fare comunione? Se fosse per questo, non
avremmo un altare in una parte rialzata della chiesa, ma una bella, grande e
lunga tavola apparecchiata nella navata con una tovaglia a quadri o bianca e vi
saremmo seduti intorno per far festa.
No, non è per
questo che siamo qui; noi partecipiamo all’offerta che Gesù Cristo – divino
“Pellicano” - fa di sé, a nostro favore; siamo qui, non perché al centro di
tutto ci siamo noi, ma Dio stesso che ci viene incontro, facendosi nostro compagno
di viaggio e cibo per chiunque è affamato di verità e di libertà. Così Egli
realizza la promessa fatta ai suoi: “Ed
ecco, io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt
28,20). L’hanno capito bene i discepoli verso Emmaus, quando Gesù entrò per
rimanere con loro, ma poi sparì: “Quando
fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo
diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì
dalla loro vista” (Lc 24,30).
Qui non c’è
niente di simbolico, ma Dio è realmente presente e in diversi modi – nella
Parola appena proclamata; attraverso la nostra comunità, perché “Egli è il capo del corpo che è la Chiesa”;
nel ministro che presiede, il quale opera in persona Christi – ma soprattutto nel tabernacolo sotto le specie
del pane e del vino e, tra breve, anche su quest’altare. Gesù stesso afferma: “questo
è il mio corpo … questo è il mio sangue dell’alleanza” (Mc 14,22s), non
dice, come traducono i Testimoni di Geova: “Questo significa il mio corpo …”. Quel
pane è quel vino sono Cristo.
Sono molto
chiare le parole di san Francesco: “Ecco
… ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende
dal seno del Padre sull'altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi
apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane
consacrato. E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne
di lui, ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era
lo stesso Dio, così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo,
dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è il suo santissimo corpo e
sangue vivo e vero” (Amm I). Questa
consapevolezza spinge Francesco a scrivere nel suo Testamento: “E questi e tutti gli altri voglio temere,
amare e onorare come miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato,
poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio
questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo
corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo
sangue suo che essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri” (Test
113).
Noi allora siamo qui per essere da Lui,
nutriti, educati, rinnovati. Non si può uscire dall’Eucaristia sempre uguali,
perché dove giunge il fuoco, nulla può rimanere immutato. Cristo diventa nostro
cibo, per trasformarci dal di dentro. La comunione eucaristica non è una pia
pratica devozionale, ma è la richiesta di essere trasformati da Cristo, in
Cristo. E’ per questo che non possiamo accostarci alla comunione, se non
abbiamo realmente fatto la scelta di rinunciare all’uomo vecchio per rivestirci
di Cristo. La nostra vita non può essere in disaccordo con la nostra comunione.
La soluzione però non è smettere di fare la comunione – di per sé cosa assurda
e incomprensibile per un cristiano -, ma scegliere di nuovo la strada della
conversione, che si manifesta con concrete scelte di vita e con la confessione
frequente, necessaria per chiunque fa i conti con la propria fragilità.
Ogni partecipazione all’Eucaristia è una
radicale chiamata alla santità, ma è anche la straordinaria parola di Dio per
noi: “Tu non sei solo. Io sono con te”.
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