Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

lunedì 9 luglio 2012

Dal diario di J. Fesch 2


Sabato 3 agosto 1957.

Gioia, gioia, gioia! E siano rese grazie a Dio. Da tre giorni ho di nuovo la fede. Non che mi abbia mai abbandonato interamente ma, con il tempo e le prove, si era confortevolmente installata in una tiepidezza che, come si dice, nemmeno l'inferno apprezza.
 Per la seconda volta nella mia vita, le squame mi sono cadute dagli occhi, e io conosco di nuovo quanto è dolce il Signore [cf At 9,18; Sal 33,9].
Certo, bisogna che innanzi tutto ti racconti come ho trovato Cristo la prima volta.

 Era una sera, nella mia cella, e da allora saranno fra poco tre anni. Nonostante tutte le catastrofi che da alcuni mesi s'erano abbattute sulla mia testa, io restavo ateo convinto e cercavo perfino, per divertimento, di convertire il mio avvocato alla negazione di ogni vita dello spirito fuori del corpo.
 Mi ricordo ancora dei potenti argomenti intellettuali che avevo racimolato un po' dappertutto e che mi parevano irrefutabili. Anatole France è molto forte al riguardo: Dio, essendo amore assoluto e onnipotente, ha tuttavia creato un mondo imperfetto e degli uomini che l'hanno rinnegato fin dalla loro creazione. Non poteva certo ignorarlo, e senza ciò non sarebbe onnipotente; e se lo sapeva e ugualmente ha creato, vuol dire che non è poi cosi buono.
 Ora, quella sera, ero a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta nella mia vita con una intensità rara, per ciò che mi era stato rivelato riguardo a certe cose di famiglia. Ed è allora che un grido mi scaturì dal petto, un appello al soccorso: "Mio  Dio", e istantaneamente, come un vento violento, che passa senza che si sappia donde viene [Gv 3,8], lo Spirito del Signore mi prese alla gola. Non è un'immagine: ho realmente la sensazione che la gola si restringa e che vi entri uno spirito troppo forte per l'involucro che lo riceve.
 È un'impressione di forza infinita e di dolcezza che non si potrebbe sopportare troppo a lungo. E a partire da quel momento ho creduto con una convinzione incrollabile che da allora non mi ha più abbandonato. Ho cominciato a pregare e a dirigere i miei passi verso il Signore con una volontà sostenuta da grazie onnipotenti. Tutto mi sembrava facilità, calore e luce. Dio era prodigo di consolazioni di ogni specie che, nel mio entusiasmo e nel mio zelo, pensavo meritate dalle mie ripetute invocazioni.
 Quando il Signore s'impadronisce di un'anima, non lo fa in modo gretto ma con profusione da gran Signore. Egli marchia il suo bene in maniera indelebile, affinchè al momento della prova e dell'apparente abbandono, noi possiamo continuare i nostri sforzi sullo slancio che questo primo impulso ci ha dato. Per chi ha ricevuto questa presa di possesso, è impossibile dimenticarla per sempre. E anche se le tentazioni o la debolezza della carne finiscono con trasformare il cristiano ardente in una tiepida pecorella, gli resterà sempre in fondo alla memoria il ricordo di queste ore di pace e di felicità perfetta.
 Durante circa sei mesi ho cercato il Signore imponendomi lunghe preghiere e una meditazione di ogni istante. E più io progredivo, più lo Spirito mi colmava dei suoi doni. Mi ricordo specialmente delle meditazioni che avevo fatto su Il Castello interiore di santa Teresa d'Avila, e sul grado supremo della perfezione: l'unione dell'anima con Dio. Anch'io ho cercato di dar la scalata alle sette dimore, e mi rendo attualmente conto che tutto ciò che m'è stato donato, era sproporzionato con ciò che io allora pensavo di meritare.
 Questa fase di felicità facile è cessata una sera con un'unione breve ma intensa con Dio, che non dimenticherò mai. Poi venne un'aridità relativa, tutto era divenuto duro, oscuro e lontano, con qualche piccolo slancio passeggero come delle oasi nel deserto, e lo sforzo che io compivo mi sembrava vano e inutile. E poi fu il lento crollo delle mie buone risoluzioni, il cedimento del mio zelo, e io finii con marcire in un pantano di fiacchezza e pigra indifferenza, e di disgusto per ogni sforzo, pur restando perfettamente convinto delle verità della fede.
 Detto in altro modo, sapevo dov'era il bene, ma non lo facevo, perché ero stanco e debole, e le prove che dovevo attraversare mi sembravano troppo forti per la mia resistenza. Avevo la fede senza le opere [cf Gc 2,20], e sono rimasto in questo stato fino a questa settimana.
 Ma, adesso, vittoria! I tempi sono corti e il lavoro che devo fare lungo. Allora, coraggio!

Nessun commento:

Posta un commento