Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 28 luglio 2012

Per una cultura cristiana - card. Giacomo Biffi

 

Premessa

1.  La mia riflessione vuole avere un'indole spiccatamente pastorale: si rivolge in primo luogo ai credenti e mira a illuminare e a rinvigorire la nostra vita ecclesiale; ma potrà suscitare qualche interesse per quanti siano persuasi che l'esatta determinazione dei concetti è premessa indispensabile per un fruttuoso dialogo tra uomini che siano, pur se con ideali diversi, liberi, onesti, riflessivi.

2. La natura propriamente pastorale del discorso mi consiglia di limitare la mia attenzione alla questione - preliminare in un certo senso, ma decisiva per le possibili implicazioni - dell'esistenza, della possibilità, della necessità di una “cultura cristiana”. C'è, anche tra i credenti, chi rifugge dal parlare di cultura cristiana nel lodevole proposito, crederei, di non costringere i letterati, i filosofi, i pittori, i musicisti - e in genere gli uomini colti e creativi che professano di aderire al Vangelo - a tagliarsi fuori dalla variopinta complessità del mondo culturale moderno per rinchiudersi nelle angustie della provincia ecclesiastica e confessionale. Sicché si ama parlare al massimo di “cultura dei cristiani”. Per contro Giovanni Paolo II esorta ripetutamente a “non far mancare una forte, seria, operosa presenza culturale cattolica”. “La cultura cattolica - dice - non deve mancare” (1). E non è un pensiero proprio ed esclusivo del papa polacco: Paolo VI si esprimeva nell'identico modo; tanto è vero che (come rileva in uno studio accurato Enzo Giammancheri) “usa senza velatura alcuna l'espressione "cultura cristiana", anzi "cultura cattolica", aggiungendo sovente la precisazione che si tratta della "nostra" cultura, distinta dalle altre e idonea a qualificare in modo originale il pensiero e l'azione dei credenti. In lui non c'è dubbio in proposito”(2).


3. Non mi pare si tratti di una questione puramente verbale. O, se si vuole, è probabilmente uno dei casi dove la diversità di linguaggio è sicuro indizio di opposte visioni sulla natura delle cose; è dunque un problema che chiede di essere seriamente considerato. E’ comunque certo che anche qui, senza una sufficiente determinazione dei concetti e dei termini, s'instaura inevitabilmente il regno dell'approssimazione, dell'equivoco, del malinteso. A questa chiarificazione il mio intervento vuol essere un piccolo contributo, offerto nella persuasione che le idee chiare e distinte sono la premessa inderogabile di ogni auspicata concordia e di ogni accresciuta vitalità ecclesiale; o almeno nella convinzione della necessità che, se proprio si deve discutere e litigare tra cristiani, l'oggetto del contendere sia identicamente compreso da tutti.


I - Significati fondamentali di “cultura”


“Cultura” è oggi parola usatissima e quasi mitica, come in altra epoca la parola “progresso”. La si ritrova ricordata ed esaltata da tutte le parti; e da tutti è citata come indicativa di un “valore”. Ma quale sia questo valore raramente si dice.
E’ anzi evidente che il vocabolo esprime, a seconda dei contesti e a seconda di chi se ne serve, contenuti tra loro molto diversi. Qualche volta appare cangiante di senso perfino nello stesso discorso, nella stessa pagina, nella stessa frase. In molti casi neppure si avverte l'oscillazione semantica, così che il risultato è una bella confusione.
La ragione storica di questa incontrollata e quasi inconsapevole pluralità sta nel fatto che la parola da un paio di secoli ha assunto via via significati nuovi, senza che le accezioni già in uso siano mai cadute dalla coscienza comune.
Decine e decine sono le definizioni di “cultura” che sono state date, ciascuna con qualche particolarità sua e qualche elemento proprio. Una loro sia pur sommaria rassegna non entra per fortuna nell'oggetto del nostro discorso “pastorale”. Ci limiteremo a indicare soltanto alcuni pochi concetti fondamentali, sufficienti a fare un po' d'ordine e a portare il minimo di distinzione indispensabile perché non insorgano ambiguità.
I significati di “cultura” atti a farci raggiungere i nostri intenti ci sembrano fondamentalmente tre; questa distinzione - che apparirà ed è largamente opinabile - è quella che ci sembra più funzionale ai fini della chiarificazione pastorale che ci siamo proposti. Attorno a questi tre concetti si organizza la prima parte della nostra esposizione (3).

1 - La “coltivazione dell'uomo”
a)    Il primo significato - o, se si vuole, il primo gruppo di significati - proviene da una immagine di origine agricola, che viene piegata a esprimere un avvenimento dello spirito: cultura è la “coltivazione dell'uomo nella sua vita interiore” (4).
Nel mondo classico, dove questa idea nasce e si afferma, si è anche universalmente persuasi che tale coltivazione possa e debba attuarsi mediante i “valori assoluti”: coltivazione dell'uomo mediante il vero, il bene, il giusto, il bello.  Solo la verità, la bontà, la giustizia, la bellezza sanno nutrire l'uomo, l'aiutano a crescere, ne fanno sbocciare tutte le virtualità.
Questa coltivazione comprende anche la “paideia”, cioè l'educazione integrale dell'uomo nella sua prima età; ma non si esaurisce in essa: prosegue per tutto l'arco dell'esistenza. Inoltre non esclude, anzi formalmente suppone, la possibilità che l'uomo attenda alla coltivazione di se stesso (5).
b)    Quasi inavvertitamente si passò poi a intendere per “cultura” non solo l'azione in se stessa della “coltivazione dell'uomo”, ma anche il suo risultato. La parola prese perciò a indicare il patrimonio spirituale acquisito di cui è dotata una persona.
E, in conformità con la visione classica, tale patrimonio fu individuato nei valori acquisíti di natura intellettuale, morale ed estetica, onde lo spirito è stato arricchito dalla “coltivazione” (6). Fin verso la metà del secolo XVIII non si conoscono altri contenuti del vocabolo. Esso, come si vede, è sempre fin qui riferito alla vita personale del singolo.
c)    Con l'esaltazione dell'idea di popolo e di nazione, la parola “cultura” acquista una dimensione, per così dire, “sociale”. E si comincia a parlare della cultura di un paese, di una gente, di una comunità umana.
In questo senso, la cultura di una società è data dai mezzi “sociali” di coltivazione dell'uomo e dai suoi risultati “sociali”; e cioè: prima di tutto dalle sue scuole, dai suoi istituti di ricerca, dai suoi mezzi di comunicazione e di diffusione delle idee; poi dalla sua produzione letteraria, artistica, musicale, e, più ampiamente e profondamente, dal possesso “sociale” dei “valori” di verità, di giustizia, di bellezza.

2 - La “elaborazione da parte dell'uomo”
Dalla seconda metà del secolo scorso [1800], a partire dal linguaggio delle discipline antropologiche ed etnologiche, avviene una vera e propria rivoluzione nel significato di “cultura”.
L'uomo entra ancora come elemento determinante del concetto, ma non più come il destinatario e il termine di un'azione, bensì come il soggetto e il principio. I valori assoluti oggettivi, sempre implicitamente presenti nell'antica accezione, perdono di rilevanza e sono alla fine estromessi: per avere attinenza con la “cultura” intesa così, basta l'origine umana.
Il vocabolo comincia dunque a indicare tutto e comporta dunque una “scala di valori” proposta e accettata entro una determinata comunità. E poiché le “scale” spesso vengono líberamente e perfino arbitrariamente stabilite, molte e diverse possono essere le “culture” presenti in una società, ciascuna delle quali è identificabile per i valori che essa ritiene primari.
E’ opportuno qui segnalare la radice di una grave e frequente prevaricazione. Se si identifica la “cultura” nella propria gerarchia di valori, è facile cadere nella tentazione di definire incolto, rozzo, subculturale chi si rifiuta di conformarvisi. Dove è evidente l'uso ambiguo della parola “cultura” e la riassunzione surrettizia della sua accezione classica in funzione di condanna, di squalifica o addirittura di insulto. Allo stesso modo, capita spesso di trovare definito con spregio come “dogmatica” o “integralista” la posizione di chi è coerente coi propri princìpi, quando questi princìpi sono diversi da quelli di chi si arroga il diritto di sentenziare. In realtà, è storicamente rilevabile che le culture dominanti si succedono mediante l'accettazione e il ripudio di “valori primari”, che senza dimostrazione vengono accolti e senza confutazione vengono abbandonati. Così, nella scena italiana di questo secolo [1900]si è potuto ammirare il prevalere via via di una cultura positivista, di una cultura idealista, di una cultura marxista, di una cultura radicale, tutte con la persuasione di esser molto “critiche” e tutte ugualmente asseverative di “certezze iniziali” ritenute indiscutibili e proposte come dogmi di fede, quasi potessero appellarsí a qualche divina rivelazione, della quale noi profani non abbiamo mai avuto notizia.


II - La giusta idea della fede


Anche l'altro termine del binomio che ci sta interessando - la fede - postula qualche piccola analisi chiarificatrice. Qui però non si tratta di cogliere e di distinguere le diverse accezioni, come a proposito della parola “cultura”, per la quale la varietà dei significati trova nell'uso la sua piena legittimità. Qui bisogna cercare di capire che cosa sia oggettivamente la fede entro l'autentica visione cristiana. Ogni divergente concetto, che oggi sia in circolazione tra gli uomini, va giudicato per quello che è: un travisamento, un'alterazione o una mutilazione dell'idea originaria. In realtà, di solito proprio di mutilazioni si tratta. Talvolta la fede è identificata nel complesso delle costumanze rituali, con l'esclusione di ogni partecipazione dello spirito. Oppure è risolta nel sentimento religioso, non illuminato da alcuna plausibile razionalità. Analogamente, è una mutilazione il pensare la fede come fatto meramente conoscitivo, che chiami in causa solo le facoltà intellettuali; ed è una mutilazione ritenerla il risultato di un processo solo volontaristico.

1 - Una risposta totale
La Rivelazione ci dice che la fede è una risposta, e può essere capita soltanto se è riferita all'íntervento salvífico del Creatore nella nostra storia.
Credere è accoglimento del Dio che ci vuole non solo destinatari ma anche interlocutori e in qualche modo consorti; è accoglimento personale di un Dio che entra nella vicenda non con la parzialità della creatura, ma con la totalità che è propria della divinità: Dio, che è tutto, vuole una risposta integrale. Nella fede perciò tutto l'uomo - ragione, volontà, sentimento, mentalità, cultura, vita - si apre a Cristo, il Signore crocifisso e risorto nel quale tutta la divina dinamica della salvezza si compendia.
2 - Una risposta trasformante
Quando accoglie Cristo e diventa interlocutore del Dio che salva, l'uomo si trasforma integralmente. Si trasfigura e si eleva la sua capacità di conoscere, dal momento che credere vuol dire in definitiva vedere Dio, l'uomo, le cose, con gli occhi di Cristo. Nasce nel credente, con la speranza, una nuova capacità di tendere fiduciosamente alla pienezza di vita e di gioia. Gli è dato, secondo la parola del profeta, un “cuore nuovo”, cioè un'altra e ben diversa facoltà di amare: di amare il Padre, di amare i fratelli, di amare ogni creatura. Questa è la virtù teologica della carità, che ci unisce e assimila al Signore Gesù, immagine viva del Padre, archètipo di ogni uomo, somma di ogni bellezza e di ogni valore che nella molteplicità delle cose si dispiega. L'uomo che crede è insomma un “uomo nuovo”, secondo la parola di Paolo: “Se qualcuno è in Cristo, è una creazione nuova”
3 - Una risposta principio di trasformazione del mondo
La fede, creando l' “uomo nuovo”, pone le premesse di un mondo nuovo. L' “uomo nuovo” ovviamente è principio di un comportamento nuovo e diverso in tutti i campi: nuovo si fa il suo modo di esistere, di lavorare, di soffrire, di gioire, di associarsi, di attendere alla umanizzazione della natura.
Già nell'ordine naturale l'uomo non attua pienamente la sua umanità restando racchiuso nell'intimità della sua coscienza; perciò anche la fede, che è atto dell'uomo totale, non può restare confinata nel segreto dei cuori, ma irradia la sua novità in ogni angolo dell'universo.
L'uomo nuovo tende per impulso intrinseco e connaturale a costruire una società nuova, una nuova storia, una nuova cultura.
4 - Una risposta ecclesiale
Non si capirebbe adeguatamente né la fede né l' “uomo nuovo” che ne consegue, se non si ricordasse che la “novità” cristiana è certamente un evento personale, che ogni credente assimila in modo proprio, ma al tempo stesso è principio e ragione di una compaginazione che dà origine a un organismo.
Il credente, connettendosi vitalmente con Cristo, si connette vitalmente anche coi suoi fratelli di fede. Cosi nasce quello che Paolo con immagine audace chiama il “corpo di Cristo”; cosi comincia a vivere e a operare nella storia il mistero della Chiesa.
La risposta adeguata all'intervento salvifico di Dio è una Chiesa, cioè una umanità nuova. Ogni interpretazione puramente individualistica del fatto cristiano lo tradisce in uno dei suoi aspetti essenziali.
5 - Una risposta contrastata
L'iniziativa divina si imbatte da sempre nell'enigma della resistenza e del rifiuto. “E’ venuto in mezzo ai suoi, e i suoi non l'hanno accolto”(10).
La fede convive con l'incredulità; l'uomo vecchio e l'uomo nuovo coesistono anche dentro lo stesso cuore; la “umanità nuova” non è mai tutta l'umanità; la Chiesa e il “mondo” (nel senso negativo che il termine ha negli scrittori neotestamentari il più delle volte) si fronteggiano e si combattono con alterna vicenda.
Il credente sa che Cristo ha già vinto; ma sa anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico. Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere se stesso e accogliere totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova cultura.

III  -  La fede che si fa cultura 

A questo punto, chi voglia accostare l'idea di fede, che molto rapidamente abbiamo voluto richiamare, con le varie nozioni di cultura presenti nell'uso corrente si avvede subito che l'interrogativo circa la possibilità e la necessità di una cultura cristiana ha evidentemente una risposta positiva, quale che sia tra i molti il significato di cultura che si prenda a considerare. E con questa conclusione il discorso sarebbe finito.
Ma gli intenti pastorali che muovono la nostra riflessione ci spingono a ricercare la concretezza degli esempi operativi e delle proposte da offrire all'attenzione della comunità cristiana. Basterà ripercorrere passo passo la rassegna semantica che ha costituito la prima parte della nostra esposizione.
1 - La “coltivazione cristiana dell'uomo”
La fede cristiana, oltre a donarci una “teologia antropologica”, fondata sulla rivelazione di Cristo uomo, immagine perfetta di Dio, ci regala anche una “antropologia teologica”, che ritrova nell' Uomo-Dio l'archètipo di ogni reale umanità. Anzi, solo a questo splendore di verità si illuminano pienamente la nostra condizione e il nostro destino: “Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell'uomo” (11).
Sicché è chiaro che l'autentica e perfetta “coltivazione dell'uomo” è la “coltivazione cristiana dell'uomo”. Dobbiamo tutti ricordare che, secondo la parola di Gesù, il primo e vero e unico coltivatore dell'uomo è il Padre (cfr. Gv 15, 1): ogni altra “cultura” - che non sia almeno oggettivamente e incoativamente espressione e avveramento di quella del Padre - rischia sempre di essere arbitraria e manipolante. Anche la “coltivazione cristiana” si avvarrà, come ha sapientemente intuito la concezione classica di cultura, del vero, del giusto, del bello. Anzi, questi valori potranno e dovranno dal credente essere ricercati e assimilati per se stessi, senza inutili sacralizzazioni, nella certezza che, quando sono autentici, sempre essi di avvicinano e ci conformano a Cristo, che è la verità, la giustizia, la misericordia, la bellezza, misteriosamente divenute figura e realtà d'uomo attingíbile e viva.
2 - Il “patrimonio spirituale cristiano”
Nei duemila anni della nostra storia, molti contributi decisivi dati alla elevazione interiore dell'uomo e molti tra i frutti più nobili e preziosi dello spirito in tutti i campi (letteratura, arti figurative, musica, diritto, folklore ecc.) portano incancellabili in sé i segni della loro origine dalla visione cristiana.
Questo è il nostro “tesoro di famiglia”. Anche se indubbiamente, in quanto opera dell'uomo, è registrato altresì nel patrimonio di tutta l'umanità, è pur vero che ciò che è nato dalla fede appartiene in modo eminente e più intenso a coloro che condividono la stessa concezione del mondo e la stessa esperienza di vita. Il problema per noi è quello di ridivenire consapevoli della nostra ricchezza. I nostri “grandi” devono tornare a essere veri e attuali maestri, e devono tornare a essere “nostri”. 1 nostri capolavori devono costituire per noi il nutrimento inesauribile dell'anima. La comunità cristiana deve riconquistare la coscienza degli altissimi valori che, nel corso della sua lunga storia, sono originati dal suo seno e restano perennemente vivi.
Va poi notato, a prevenire ogni possibile equivoco e ogni tentazione di interiore grettezza, che dobbiamo apprezzare e avvalorare come alimento dell'anima ogni rilevante fatto dello spirito nel quale brilli qualche raggio di verità, di giustizia, di bellezza, dovunque appaia e comunque si manifesti.
Nel pieno rispetto delle concezioni immanenti e delle intenzioni esplicite di tutti gli autori, anche di quelli che sono stranieri alla nostra fede, noi sappiamo e vogliamo sempre ricordare che ogni verità, ogni giustizia, ogni bellezza - in quanto oggettivi riverberi della luce di Cristo, che è la somma di tutti i valori - è sempre anche nostra, e può e deve armoniosamente confluire nell'autentica cultura cristiana.
Nella nostra evasione dall'Egitto del “mondo”, come già fecero gli ebrei nell'ora dell'esodo, possiamo e dobbiamo portare con noi l'argento e l'oro degli egiziani

3 - I mezzi per la “coltivazione cristiana dell'uomo”
La “coltivazione cristiana dell'uomo”, se non vuol restare soltanto un'astratta affermazione di principio, deve avere i mezzi per il raggiungimento dei propri compiti.
Di fronte a uno Stato che sempre più estesamente occupa gli spazi di vita e si impadronisce degli strumenti di comunicazione e di socializzazione (in palese contrasto col “principio di sussidiarietà”, che è uno dei cardini di una concezione sociale che voglia fondarsi sulla libertà e sulla responsabilità della persona), questo argomento è di eccezionale gravità, e andrebbe estesamente trattato.
Ci limitiamo ad alcune poche e semplici osservazioni.
a) Non bisogna stancarsi di affermare il dovere dello Stato di offrire a tutti i raggruppamenti di cittadini (tra i quali c'è la comunità cristiana) la concreta possibilità di educare i figli secondo le proprie fondamentali convinzioni. Chi ha dato la vita, ha il diritto inalienabile di presiedere al suo sviluppo intellettuale e morale. Lo Stato italiano è su questo punto inadempiente da sempre, soprattutto per la sua legislazione scolastica pesantemente statalista.
b) Allo stesso modo, in una società veramente libera che non aspiri a diventare un regime, il potere pubblico non deve tanto imporre una propria cultura, quanto aiutare e favorire in tutte le maniere le culture di tutte le libere aggregazioni. 
c) Le comunità cristiane, pur nella loro estrema povertà, devono darsi da fare per la sussistenza, la crescita, l'affermazione della loro cultura, in tutti i modi che una fantasia stimolata dalla fede è in grado di escogitare. Abbiamo nel mondo di oggi esempi eloquentissimi di quanto possa essere fecondo uno spirito vivace e forte, anche quando è tiranneggiato, umiliato e posto nelle condizioni più sfavorevoli. Valga per tutti il fenomeno stupefacente del “samizdat” russo (12).

4 - Gli “elaborati” della cristianità
Una “cultura” nel senso, per così dire, antropologico-etnologico che s'è visto - e cioè tutto il complesso degli elaborati umani - va riconosciuta a ogni raggruppamento di persone che è individuabile come tale. In essa trovano posto le tradizioni, le costumanze, gli istituti, le forme di lavoro e di vita, il folklore, i prodotti dell'ingegno e dell'abilità manuale, che una determinata gente riconosce come proprio.
Esiste, intesa secondo questo significato, una “cultura cristiana”? Evidentemente la risposta a questa domanda dipende da una questione previa: esiste un popolo cristiano percepibile e identificabile? O, che è lo stesso, esiste una “cristianità”?
Già da più di una trentina d'anni la cristianità è stata proclamata defunta. E’ un fenomeno, si è detto, di origine “costantiniana”, che ha raggiunto il suo culmine nel Medio Evo e che nel nostro secolo si è del tutto esaurito.
Anzi, con l'affermazione della sua estinzione storica si è accompagnata spesso la proclamazione della sua illegittimità o almeno della sua inopportunità di principio. L'idea stessa di “cristianità” sarebbe oggi improponibile e la Chiesa non dovrebbe mai mirare a dare origine, mediante strutture caratteristiche, a una propria e specifica socialità che la renderebbe un corpo estraneo nel mondo; essa deve solo provocare e sostenere un impegno personale, lucidamente cosciente e del tutto libero da condizionamenti esteriori. E si è parlato di “presenza molecolare”, come della sola forma accettabile e augurabile di insediamento dei cristiani nel sociale.
Mi sembra doveroso notare che questa concezione, che ha del vero in ciò che afferma, non è sostenibile in ciò che rifiuta. E vero che occorre formare delle forti personalità cristiane in grado di vivere totalmente immerse nella società che di fatto oggi esiste; ed è vero che vi possono essere dei cristiani che della “presenza molecolare” fanno un programma di vita, purché mantengano acutissimo il senso della propria identità di credenti e irriducibile la propria originalità di testimoni del Vangelo.). Ma non è vero che questo sia l'unico modo augurabile di presenza né che sia condannabile il tentativo di dar vita a una comunità cristiana anche sociologicamente individuabile.
Almeno tre osservazioni - di genere diverso ma tutte cospiranti a difendere l'idea di un popolo di Dio percepibile come popolo, sia pure “sui generis” - sono da opporre ai denigratori cristiani della cristianità.
- La prima è di indole storica. L'aggregazione dei credenti secondo un modulo originale ed esteriormente identificabile di convivenza intensa e operosa è un fatto che si accompagna a tutta la storia ecclesiale fin dai primissimi tempi. La comunità di Gerusalemme, come appare dagli Atti, e le comunità paoline, come si intravedono nelle lettere dell'Apostolo, sono senza dubbio vere e proprie “cristianità”, anche se di minoranza: in esse i discepoli di Gesù vivevano sotto molti aspetti “a parte” rispetto al resto dei loro connazionali e avevano forme associative tipiche e inconfondibili.
Non c'è epoca nella quale la Chiesa non abbia dato origine a una qualche sorta di “comunità” tra i suoi componenti.
- C'è poi un rilievo di carattere psicologico-pastorale. L'uomo, in forza della sua stessa natura, tende necessariamente a un'esistenza “sociale”. Ciò che non è socializzabile e non diventa mai socializzato, a poco a poco perde di rilievo nella coscienza della maggior parte dei singoli e alla fine si estingue.
Ci può essere forse qualche intellettuale che si ritiene capace di una fedeltà ai suoi ideali che sia puramente individuale, interiore, invisibile.
Ma gli uomini comuni per tener deste le loro convinzioni le devono esprimere in qualche attuazione esteriore e comunitaria, che si imponga all'attenzione anche degli altri.
- Infine c'è una ragione teologica decisiva.  La natura stessa dell'avvenimento cristiano esige che la “comunione” - che è personale, trascendente ed eterna - aspiri continuamente e instancabilmente a farsi “comunità”, cioè una realtà collettiva, contingente, storicamente determinata. L'atto di fede chiede - per intrinseco dinamismo - di investire e trasformare tutto l'uomo in tutte le sue dimensioni, personale, familiare, sociale.
In nessun momento della sua vicenda la Chiesa può mancare di dare vita a una “cristianità”, secondo forme che mutano nei tempi e nei luoghi, ma che non possono venire meno in assoluto. Perciò il problema vero diventa quello di rinvenire la forma che meglio conviene al nostro tempo (14).
La nostra “cristianità” potrà anche essere di minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata. E non potrà mai delinearsi come un evento privo di continuità nel tempo, senza premesse e senza radici: essa sarà tanto più vitale ed “energica” quanto più sarà avvalorata e ispirata non solo dai principi eterni del Vangelo ma anche dalla continua memoria del suo passato.
Come si vede, il rilancio di una “cultura cristíana” così intesa è condizionato dalla ravvivata consapevolezza dell'esistenza di un “popolo cristiano”, con la sua storia, le sue consuetudini, le sue feste, le sue opere, le sue multiformi manifestazioni (15).
L'uomo, che non viva del tutto svagato, non può evitare di interrogarsi circa i “valori”; anzi, non può non determinare, almeno nella concretezza delle sue scelte esistenziali, quali siano per lui i “valori” e come vadano gerarchizzati. Quando queste determinazioni sono condivise da tutto un raggruppamento umano che arriva a riconoscere una scala di valori comunemente accettata, sorge e a poco a poco si configura una “cultura”, secondo il significato che s'è visto sempre più largamente diffuso negli ultimi decenni.
Ritengo che, una volta chiarito il termine secondo questa accezione, nessun credente possa contestare l'esistenza e la necessità di una “cultura cristiana”, a meno di ridurre il cristianesimo a pura esteriorità folkloristica o a fatto di coscienza, senza alcuna risonanza oltre la vita segreta dell'individuo.
Piuttosto il discepolo di Gesù dovrà prepararsi in questo campo ai conflitti e agli scontri.
Potrà talvolta rallegrarsi di concordanze inattese con chi non crede, nell'esaltazione di qualche valore. Ma più frequentemente dovrà registrare - senza stupore e senza panico - le più stridenti dissonanze. E’ molto difficile che convergano sulla stessa scala di valori coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all'origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l'esistenza di un mondo invisibile, di là dalla scena variopinta e labile di ciò che appare; coloro che credono e coloro che non credono nel Signore Gesù, crocifisso e risorto, Figlio unico e vero del Dio vivente, Salvatore dell'universo. Le comunità cristiane devono affrontare a occhi aperti, con serenità e con vigore di spirito, le inevitabili tensioni tra le diverse “culture” che di fatto convivono nell'ambito di una società pluralistica.
Noi non dobbiamo e non vogliamo imporre a nessuno né con la forza né con l'astuzia la nostra “cultura”, cioè la nostra gerarchia di valori. Ma non possiamo e non vogliamo tollerare che l'imposizione, con la forza o con l'astuzia, di una “cultura” estranea ci snaturi e ci impedisca di esistere e crescere come popolo di Dio, redento dal sangue di Cristo, secondo la visione della vita che noi liberamente e razionalmente accogliamo nell'atto di fede.

Conclusione

“Cultura” è, come s'è visto, parola dai contenuti molto diversi, tutti ugualmente presenti e attivi nel linguaggio e nella mentalità del nostro tempo. L'esame fin qui compiuto ci porta a concludere che, quale che sia tra questi il significato considerato, è da riconoscere la proprietà concettuale, la legittimità e la necessità di una “cultura cristiana”.
In altre parole: il rapporto fede-cultura non è estrinseco, legato alle circostanze storiche, variabile a seconda dei casi, ma è intrinseco, essenziale, in qualche modo trascendentale.
La fede, restando fede, deve farsi cultura: lo deve a se stessa, alla radícalità e alla totalità del rinnovamento che essa introduce nell'uomo e quindi nell'universo.
Essa non sopprime, non mortifica, non trascura nessuno dei valori autentici che trova al suo dispiegarsi nella storia e nel' mondo; ma tutti li assume, li purifica, li esalta, li trasfigura in una “cultura” che è nuova e diversa, che sempre si rifonda e si arricchisce, mantenendo la sua tipicità e la sua irriducibilità: li assume, li purifica, li esalta, li trasfigura nella “cultura cristiana”.



Note :

(1) GIOVANNI PAOLO II, Ai vescovi lombardi in visita “ad limina apostolorum”, 15 gennaio 1982.Per un commento di questo documento, cfr. I. BIFFI, Cultura cristiana, Milano 1983, pp. 131‑135.
(2) E. GIAMMANCHERI, La “dimensione culturale” del Pontificato di Paolo VI, in: Paolo VI e la cultura, Brescia 1983, p. 23. Sulle stesse posizioni di Paolo VI e Giovanni Paolo Il era l'arcivescovo di Milano G. COLOMBO, Il cristiano di fronte alla cultura, Milano 1979. Si tratta dell'ultimo dei grandi discorsi programmatici pronunciati il giorno di sant'Ambrogio. Sembra invece scostarsi da questa linea il cardinal Martini, quando descrive il rapporto fede-cultura come non organico e pertanto variabile a seconda delle circostanze: C.M. MARTINI, Fede e cultura nell'insegnamento di Paolo VI, in: Paolo VI e la cultura, Brescia 1983, pp. 13‑16.
(3) Per il concetto di cultura e la sua storia, cfr. P. Rossi, Cultura, in: Enciclopedia del Novecento, 1, 1143‑1157. Il Concilio Vaticano Il sembra aver presente soprattutto il primo e il secondo concetto di cultura (Gaudium et spes, 53‑62).
(4) Già Cicerone e Orazio parlavano di una “cultura animi”.
(5) In questa visione “classica” è implicita la convinzione che l'uomo abbia bisogno di una “coltivazione” e che il modo giusto di educare non sia quello di lasciare che il bimbo cresca “come vuole”; ed è implicitamente riconosciuta anche l'esistenza di “valori oggettivi”, necessariamente coinvolti nell'opera educativa. Il limite di questa immagine “agricola” è di non esprimere a sufficienza la “non passività” di colui che è destinatario della “coltivazione”.
(6) Va notato che qui non siamo di fronte a un sinonimo di “erudizione” in quanto il termine “cultura” vuole indicare non solo l'aggregazione di notizie sparse e reciprocamente indipendenti, ma anche ‑ in qualche modo ‑ la loro composizione in una sintesi organica, illuminata sui nessi e sulle cause dei diversi fatti dello spirito. Nell'uomo “colto” si suppone cioè una certa presenza dell'azione unificante dell'intelligenza; il che non è di per sé richiesto per assegnare a un uomo la qualifica di “erudito”.
(7) L'evoluzione semantica avviene fino a questo punto tra concetti, per così dire, contigui, mediante accentuazione dell'uno o dell'altro di quegli elementi che in qualche modo sono dall'inizio tutti implicati. E dunque una variazione che resta nell'ambito di contenuti affini e connessi.
(8) All'interno di questo concetto si danno variazioni importanti in sé e per gli influssi che hanno avuto. Così Spengler riserva il termine “cultura” alle forme di convivenza che sono arrivate alla “esistenza storica”, cioè alle civiltà, e le connette col sorgere della città. Su questo concetto costruisce la sua teoria dei cicli vitali delle civiltà e del loro inevitabile tramonto. Su questa linea si muove anche Toynbee, per il quale la civiltà è la risposta adeguata di un raggruppamento umano alla sfida dell'ambiente.
(9) 2 Cor 5, 17
(10) Gv 1, 1 L
(11) Gaudium et spes, 22. 12 Cfr. Es 12, 35.
La conoscenza della “chiave” esatta di comprensione dell'universo concretamente esistente ci consentirà, di ogni rilevante fatto dello spirito, una lettura più compiuta e più penetrante di quanto non sia stata possibile in chi ne è stato il principio. Possiamo cogliere la “verità” delle opere di Aristotele e di Platone più di Aristotele e di Platone; possiamo percepire la bellezza trascendente dell'Antigone o delle Bucolicke più di Sofocle e di Virgilio; possiamo accedere agli ideali di giustizia e di solidarietà umana espressi nelle varie dichiarazioni costituzionali fino a una profondirà ignota agli stessi estensori.
E in sostanza la valorizzazione della “intentio profundior” degli autori, di cui parlava già Tommaso d'Aquino.
(12) Sul “samizdat”, cfr. j. MAL'CEV, L”altra letteratura” (1957^1976), Milano 1976.
(13) Il Daniélou ha per primo denunciato il carattere astratto e maldestramente aristocratico delle denigrazioni della cristianità, rilevandone soprattutto l'ingenuità psicologica: “A molti cristiani l'idea stessa di cristianità appare definitivamente superata... Ma bisogna pesare le conseguenze di tale opzione. E' troppo evidente che questo è un punto sul quale bisogna insistere: non è possibile agli uomini nel loro insieme - dico a tutti gli uomini - essere cristiani quando si trovano in un ambiente indifferente o ostile al cristianesimo. Ciò deriva da una legge molto semplice della psicologia, radicalmente misconosciuta da un certo numero di teologi contemporanei che sono degli idealisti puri. Essi ragionano come se la libertà non fosse affatto condizionata... Mi angoscia attualmente il fatto che alcuni teologi sostengano piuttosto l'idea di sbarazzarsi del popolo cristiano, perché trovano che esso rappresenti ciò che loro chiamano un "cristianesirno sociologico", che disprezzano; e mi angoscia anche che essi mettano l'accento solo su un cristianesimo personale che non può essere che un cristianesimo di élites. Questa mi pare una concezione assolutamente unilaterale delle cose...” (j. DANIELOU, Cattolicesimo, in: Enciclopedia del Novecento' 1 I, pp. 666 s.).
(14) E’ possibile che nel dibattito circa la “cristianità” si introduca tal volta un equivoco, e il termine non venga sempre usato univocamente.
Se per “cristianità” si intende la perfetta coestensione (che, ovviamente, non vuol dire coincidenza) della Chiesa con la società civile, allora è giusto dire che oggi non esiste più: a differenza di altre epoche, in cui praticamente tutti i cittadini si riconoscevano appartenenti anche all'organismo ecclesiale, oggi solo una parte si attribuisce tale appartenenza.
Se invece il vocabolo designa la traduzione sociale ed esteriormente percepibile del mistero ecclesiale, allora la cristianità è un valore di sempre e va concettualmente difeso, anche se non in ogni epoca e in ogni luogo è un fenomeno “di maggioranza”.
(15) sostenitori della “presenza molecolare” sono soliti citare a conforto della loro tesi il paragone evangelico, del sale (Mt 5, 131 e la Lettera a Diogneto che parla dei cristiani come “anima del mondo”. E' chiaro da questi testi, si dice, che la comunità cristiana non può essere un'aggregazione “a parte”; piuttosto deve essere una presenza dinamica e invisibile, sciolta all'interno della società. In tutti e due i casi, però, siamo di fronte a una lettura che alla luce dei contesti rivela subito la sua parzialità e la sua origine ideologica.
Quanto al “sale”: non si può ricordare l'immagine del “sale” del versetto 13 e passare sotto silenzio quella della “città collocata sopra un monte” del versetto 14; ma soprattutto è evidente che Gesù cita l'immagine del sale per insegnarci non come si debba essere presenti nel mondo, ma quanto sia necessario conservare la propria identità, se si vuol davvero giovare al mondo: il sale che ha perso la sua natura di sale “a null'altro serve che a essere gettato via e calpestato dagli uomini”.
Quanto a Diogneto: è da notare che il paragone dell'anima e del corpo non va letto alla luce dell'antropologia tomista (prevalente nei Teologi del secolo ventesimo), ma entro la prospettiva platonica (propria dell'autore), che vede l'anima come una entità a sé, prigioniera del corpo e in lotta perpetua col suo carceriere (come esplicitamente ricorda il testo, VI 5). Vi si dice senza dubbio che i cristiani in ogni nazione sono in patria (e perciò non hanno una patria geograficamente identificabile, V 5); ma vi si dice anche che presso ogni popolo sono un corpo estraneo (e perciò non perdono l'identità della loro specifica aggregazione). Sono dunque una “politèia” (società) sì “paràdoxos” (insolita, strana, sorprendente), ma sempre “politèia”, inconfondibile e inassimilabile (V, 4).

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