Premessa
1. La mia riflessione vuole avere un'indole spiccatamente pastorale: si
rivolge in primo luogo ai credenti e mira a illuminare e a rinvigorire la nostra
vita ecclesiale; ma potrà suscitare qualche interesse per quanti siano persuasi
che l'esatta determinazione dei concetti è premessa indispensabile per un
fruttuoso dialogo tra uomini che siano, pur se con ideali diversi, liberi,
onesti, riflessivi.
2. La natura
propriamente pastorale del discorso mi consiglia di limitare la mia attenzione
alla questione - preliminare in un certo senso, ma decisiva per le possibili
implicazioni - dell'esistenza, della possibilità, della necessità di una
“cultura cristiana”. C'è, anche tra i credenti, chi rifugge dal parlare di
cultura cristiana nel lodevole proposito, crederei, di non costringere i
letterati, i filosofi, i pittori, i musicisti - e in genere gli uomini colti e
creativi che professano di aderire al Vangelo - a tagliarsi fuori dalla
variopinta complessità del mondo culturale moderno per rinchiudersi nelle
angustie della provincia ecclesiastica e confessionale. Sicché si ama parlare al
massimo di “cultura dei cristiani”. Per contro Giovanni Paolo II esorta
ripetutamente a “non far mancare una forte, seria, operosa presenza culturale
cattolica”. “La cultura cattolica - dice - non deve mancare” (1). E non è un
pensiero proprio ed esclusivo del papa polacco: Paolo VI si esprimeva
nell'identico modo; tanto è vero che (come rileva in uno studio accurato Enzo
Giammancheri) “usa senza velatura alcuna l'espressione "cultura cristiana", anzi
"cultura cattolica", aggiungendo sovente la precisazione che si tratta della
"nostra" cultura, distinta dalle altre e idonea a qualificare in modo originale
il pensiero e l'azione dei credenti. In lui non c'è dubbio in
proposito”(2).
3. Non mi pare si tratti di una questione
puramente verbale. O, se si vuole, è probabilmente uno dei casi dove la
diversità di linguaggio è sicuro indizio di opposte visioni sulla natura delle
cose; è dunque un problema che chiede di essere seriamente considerato. E’
comunque certo che anche qui, senza una sufficiente determinazione dei concetti
e dei termini, s'instaura inevitabilmente il regno dell'approssimazione,
dell'equivoco, del malinteso. A questa chiarificazione il mio intervento vuol
essere un piccolo contributo, offerto nella persuasione che le idee chiare e
distinte sono la premessa inderogabile di ogni auspicata concordia e di ogni
accresciuta vitalità ecclesiale; o almeno nella convinzione della necessità che,
se proprio si deve discutere e litigare tra cristiani, l'oggetto del contendere
sia identicamente compreso da tutti.
I - Significati fondamentali di “cultura”
“Cultura” è oggi parola
usatissima e quasi mitica, come in altra epoca la parola “progresso”. La si
ritrova ricordata ed esaltata da tutte le parti; e da tutti è citata come
indicativa di un “valore”. Ma quale sia questo valore raramente si
dice.
E’ anzi evidente che il vocabolo esprime, a
seconda dei contesti e a seconda di chi se ne serve, contenuti tra loro molto
diversi. Qualche volta appare cangiante di senso perfino nello stesso discorso,
nella stessa pagina, nella stessa frase. In molti casi neppure si avverte
l'oscillazione semantica, così che il risultato è una bella
confusione.
La ragione storica di questa incontrollata e quasi
inconsapevole pluralità sta nel fatto che la parola da un paio di secoli ha
assunto via via significati nuovi, senza che le accezioni già in uso siano mai
cadute dalla coscienza comune.
Decine e decine sono le definizioni di “cultura”
che sono state date, ciascuna con qualche particolarità sua e qualche elemento
proprio. Una loro sia pur sommaria rassegna non entra per fortuna nell'oggetto
del nostro discorso “pastorale”. Ci limiteremo a indicare soltanto alcuni pochi
concetti fondamentali, sufficienti a fare un po' d'ordine e a portare il minimo
di distinzione indispensabile perché non insorgano ambiguità.
I significati di “cultura” atti a farci
raggiungere i nostri intenti ci sembrano fondamentalmente tre; questa
distinzione - che apparirà ed è largamente opinabile - è quella che ci sembra
più funzionale ai fini della chiarificazione pastorale che ci siamo proposti.
Attorno a questi tre concetti si organizza la prima parte della nostra
esposizione (3).
1
- La “coltivazione dell'uomo”
a)
Il primo significato - o, se si vuole, il primo
gruppo di significati - proviene da una immagine di origine agricola, che viene
piegata a esprimere un avvenimento dello spirito: cultura è la “coltivazione
dell'uomo nella sua vita interiore” (4).
Nel mondo classico, dove questa idea nasce e si
afferma, si è anche universalmente persuasi che tale coltivazione possa e debba
attuarsi mediante i “valori assoluti”: coltivazione dell'uomo mediante il vero,
il bene, il giusto, il bello. Solo la verità, la bontà, la giustizia, la
bellezza sanno nutrire l'uomo, l'aiutano a crescere, ne fanno sbocciare tutte le
virtualità.
Questa coltivazione comprende anche la “paideia”,
cioè l'educazione integrale dell'uomo nella sua prima età; ma non si esaurisce
in essa: prosegue per tutto l'arco dell'esistenza. Inoltre non esclude, anzi
formalmente suppone, la possibilità che l'uomo attenda alla coltivazione di se
stesso (5).
b)
Quasi inavvertitamente si passò poi a intendere
per “cultura” non solo l'azione in se stessa della “coltivazione dell'uomo”, ma
anche il suo risultato. La parola prese perciò a indicare il patrimonio
spirituale acquisito di cui è dotata una persona.
E, in conformità con la visione classica, tale
patrimonio fu individuato nei valori acquisíti di natura intellettuale, morale
ed estetica, onde lo spirito è stato arricchito dalla “coltivazione” (6). Fin
verso la metà del secolo XVIII non si conoscono altri contenuti del
vocabolo. Esso, come si vede, è sempre fin qui riferito alla vita personale
del singolo.
c)
Con l'esaltazione dell'idea di popolo e di
nazione, la parola “cultura” acquista una dimensione, per così dire,
“sociale”. E si comincia a parlare della cultura di un paese, di una gente, di
una comunità umana.
In questo senso, la cultura di una società è data
dai mezzi “sociali” di coltivazione dell'uomo e dai suoi risultati “sociali”; e
cioè: prima di tutto dalle sue scuole, dai suoi istituti di ricerca, dai
suoi mezzi di comunicazione e di diffusione delle idee; poi dalla sua
produzione letteraria, artistica, musicale, e, più ampiamente e
profondamente, dal possesso “sociale” dei “valori” di verità, di giustizia, di
bellezza.
2
- La “elaborazione da parte
dell'uomo”
Dalla seconda
metà del secolo scorso [1800], a partire dal linguaggio delle discipline antropologiche
ed etnologiche, avviene una vera e propria rivoluzione nel significato di
“cultura”.
L'uomo entra ancora come elemento
determinante del concetto, ma non più come il destinatario e il
termine di un'azione, bensì come il soggetto e il principio. I valori assoluti
oggettivi, sempre implicitamente presenti nell'antica accezione, perdono di
rilevanza e sono alla fine estromessi: per avere attinenza con la “cultura”
intesa così, basta l'origine umana.
Il vocabolo comincia dunque a
indicare tutto e comporta dunque una “scala di valori” proposta e accettata
entro una determinata comunità. E poiché le “scale” spesso vengono líberamente e
perfino arbitrariamente stabilite, molte e diverse possono essere le “culture”
presenti in una società, ciascuna delle quali è identificabile per i valori che
essa ritiene primari.
E’ opportuno qui segnalare la radice di una grave
e frequente prevaricazione. Se si identifica la “cultura” nella propria
gerarchia di valori, è facile cadere nella tentazione di definire incolto,
rozzo, subculturale chi si rifiuta di conformarvisi. Dove è evidente l'uso
ambiguo della parola “cultura” e la riassunzione surrettizia della sua accezione
classica in funzione di condanna, di squalifica o addirittura di insulto. Allo
stesso modo, capita spesso di trovare definito con spregio come “dogmatica” o
“integralista” la posizione di chi è coerente coi propri princìpi, quando questi
princìpi sono diversi da quelli di chi si arroga il diritto di sentenziare. In
realtà, è storicamente rilevabile che le culture dominanti si succedono mediante
l'accettazione e il ripudio di “valori primari”, che senza dimostrazione vengono
accolti e senza confutazione vengono abbandonati. Così, nella scena italiana di
questo secolo [1900]si è potuto ammirare il prevalere via via di una cultura
positivista, di una cultura idealista, di una cultura marxista, di una cultura
radicale, tutte con la persuasione di esser molto “critiche” e tutte ugualmente
asseverative di “certezze iniziali” ritenute indiscutibili e proposte come dogmi
di fede, quasi potessero appellarsí a qualche divina rivelazione, della quale
noi profani non abbiamo mai avuto notizia.
II - La giusta idea della fede
Anche l'altro
termine del binomio che ci sta interessando - la fede - postula qualche piccola
analisi chiarificatrice. Qui però non si tratta di cogliere e di distinguere le
diverse accezioni, come a proposito della parola “cultura”, per la quale la
varietà dei significati trova nell'uso la sua piena legittimità. Qui bisogna
cercare di capire che cosa sia oggettivamente la fede entro l'autentica visione
cristiana. Ogni divergente concetto, che oggi sia in circolazione tra gli
uomini, va giudicato per quello che è: un travisamento, un'alterazione o una
mutilazione dell'idea originaria. In realtà, di solito proprio di mutilazioni si
tratta. Talvolta la fede è identificata nel complesso delle costumanze rituali,
con l'esclusione di ogni partecipazione dello spirito. Oppure è risolta nel
sentimento religioso, non illuminato da alcuna plausibile razionalità.
Analogamente, è una mutilazione il pensare la fede come fatto meramente
conoscitivo, che chiami in causa solo le facoltà intellettuali; ed è una
mutilazione ritenerla il risultato di un processo solo volontaristico.
1
- Una risposta
totale
La Rivelazione ci dice che la fede è una risposta,
e può essere capita soltanto se è riferita all'íntervento salvífico del Creatore
nella nostra storia.
Credere è accoglimento del Dio che ci vuole non
solo destinatari ma anche interlocutori e in qualche modo consorti; è
accoglimento personale di un Dio che entra nella vicenda non con la parzialità
della creatura, ma con la totalità che è propria della divinità: Dio, che è
tutto, vuole una risposta integrale. Nella fede perciò tutto l'uomo - ragione,
volontà, sentimento, mentalità, cultura, vita - si apre a Cristo, il Signore
crocifisso e risorto nel quale tutta la divina dinamica della salvezza si
compendia.
2
- Una risposta
trasformante
Quando accoglie Cristo e diventa interlocutore del
Dio che salva, l'uomo si trasforma integralmente. Si trasfigura e si eleva la
sua capacità di conoscere, dal momento che credere vuol dire in definitiva
vedere Dio, l'uomo, le cose, con gli occhi di Cristo. Nasce nel credente, con la
speranza, una nuova capacità di tendere fiduciosamente alla pienezza di vita e
di gioia. Gli è dato, secondo la parola del profeta, un “cuore nuovo”, cioè
un'altra e ben diversa facoltà di amare: di amare il Padre, di amare i fratelli,
di amare ogni creatura. Questa è la virtù teologica della carità, che ci unisce
e assimila al Signore Gesù, immagine viva del Padre, archètipo di ogni uomo,
somma di ogni bellezza e di ogni valore che nella molteplicità delle cose si
dispiega. L'uomo che crede è insomma un “uomo nuovo”, secondo la parola di
Paolo: “Se qualcuno è in Cristo, è una creazione nuova”
3
- Una risposta principio di trasformazione del
mondo
La fede, creando l' “uomo nuovo”, pone le premesse
di un mondo nuovo. L' “uomo nuovo” ovviamente è principio di un comportamento
nuovo e diverso in tutti i campi: nuovo si fa il suo modo di esistere, di
lavorare, di soffrire, di gioire, di associarsi, di attendere alla umanizzazione
della natura.
Già nell'ordine naturale l'uomo non attua
pienamente la sua umanità restando racchiuso nell'intimità della sua coscienza;
perciò anche la fede, che è atto dell'uomo totale, non può restare confinata nel
segreto dei cuori, ma irradia la sua novità in ogni angolo
dell'universo.
L'uomo nuovo tende per impulso intrinseco e
connaturale a costruire una società nuova, una nuova storia, una nuova
cultura.
4
- Una risposta
ecclesiale
Non si capirebbe adeguatamente né la fede né l' “uomo nuovo” che ne consegue, se non si ricordasse che la “novità” cristiana è
certamente un evento personale, che ogni credente assimila in modo proprio, ma
al tempo stesso è principio e ragione di una compaginazione che dà origine a un
organismo.
Il credente, connettendosi vitalmente con Cristo,
si connette vitalmente anche coi suoi fratelli di fede. Cosi nasce quello che Paolo con immagine audace
chiama il “corpo di Cristo”; cosi comincia a vivere e a operare nella storia il
mistero della Chiesa.
La risposta adeguata all'intervento salvifico di
Dio è una Chiesa, cioè una umanità nuova. Ogni interpretazione puramente
individualistica del fatto cristiano lo tradisce in uno dei suoi aspetti
essenziali.
L'iniziativa divina si imbatte da sempre
nell'enigma della resistenza e del rifiuto. “E’ venuto in mezzo ai suoi, e i
suoi non l'hanno accolto”(10).
La fede convive con l'incredulità; l'uomo vecchio
e l'uomo nuovo coesistono anche dentro lo stesso cuore; la “umanità nuova” non è
mai tutta l'umanità; la Chiesa e il “mondo” (nel senso negativo che il termine
ha negli scrittori neotestamentari il più delle volte) si fronteggiano e si
combattono con alterna vicenda.
Il credente sa che Cristo ha già vinto; ma sa
anche che la piena manifestazione di questa vittoria sarà un dono escatologico.
Questo non lo scoraggia né lo disarma: per essere se stesso e accogliere
totalmente nella verità la salvezza di Dio, egli instancabilmente si adopera a
dar vita alla nuova società, alla nuova storia, alla nuova
cultura.
III - La fede che si fa cultura
A questo punto,
chi voglia accostare l'idea di fede, che molto rapidamente abbiamo voluto
richiamare, con le varie nozioni di cultura presenti nell'uso corrente si avvede
subito che l'interrogativo circa la possibilità e la necessità di una cultura
cristiana ha evidentemente una risposta positiva, quale che sia tra i molti il
significato di cultura che si prenda a considerare. E con questa conclusione il
discorso sarebbe finito.
Ma gli intenti pastorali che muovono la nostra
riflessione ci spingono a ricercare la concretezza degli esempi operativi e
delle proposte da offrire all'attenzione della comunità cristiana. Basterà
ripercorrere passo passo la rassegna semantica che ha costituito la prima parte
della nostra esposizione.
1
- La “coltivazione cristiana
dell'uomo”
La fede cristiana, oltre a donarci una “teologia
antropologica”, fondata sulla rivelazione di Cristo uomo, immagine perfetta di
Dio, ci regala anche una “antropologia teologica”, che ritrova
nell' Uomo-Dio
l'archètipo di ogni reale umanità. Anzi, solo a questo splendore di verità si
illuminano pienamente la nostra condizione e il nostro destino: “Solamente nel
mistero del Verbo incarnato trova luce il mistero dell'uomo”
(11).
Sicché è chiaro che l'autentica e perfetta
“coltivazione dell'uomo” è la “coltivazione cristiana dell'uomo”. Dobbiamo tutti
ricordare che, secondo la parola di Gesù, il primo e vero e unico coltivatore
dell'uomo è il Padre (cfr. Gv 15, 1): ogni altra “cultura” - che non sia almeno
oggettivamente e incoativamente espressione e avveramento di quella del Padre -
rischia sempre di essere arbitraria e manipolante. Anche la “coltivazione
cristiana” si avvarrà, come ha sapientemente intuito la concezione classica di
cultura, del vero, del giusto, del bello. Anzi, questi valori potranno e
dovranno dal credente essere ricercati e assimilati per se stessi, senza inutili
sacralizzazioni, nella certezza che, quando sono autentici, sempre essi di
avvicinano e ci conformano a Cristo, che è la verità, la giustizia, la
misericordia, la bellezza, misteriosamente divenute figura e realtà d'uomo
attingíbile e viva.
2
- Il “patrimonio spirituale
cristiano”
Nei duemila anni della nostra storia, molti
contributi decisivi dati alla elevazione interiore dell'uomo e molti tra i
frutti più nobili e preziosi dello spirito in tutti i campi (letteratura, arti
figurative, musica, diritto, folklore ecc.) portano incancellabili in sé i segni
della loro origine dalla visione cristiana.
Questo è il nostro “tesoro di famiglia”. Anche se
indubbiamente, in quanto opera dell'uomo, è registrato altresì nel patrimonio di
tutta l'umanità, è pur vero che ciò che è nato dalla fede appartiene in modo
eminente e più intenso a coloro che condividono la stessa concezione del mondo e
la stessa esperienza di vita. Il problema per noi è quello di ridivenire
consapevoli della nostra ricchezza. I nostri “grandi” devono tornare a essere
veri e attuali maestri, e devono tornare a essere “nostri”. 1 nostri capolavori
devono costituire per noi il nutrimento inesauribile dell'anima. La comunità
cristiana deve riconquistare la coscienza degli altissimi valori che, nel corso
della sua lunga storia, sono originati dal suo seno e restano perennemente
vivi.
Va poi notato, a prevenire ogni possibile equivoco
e ogni tentazione di interiore grettezza, che dobbiamo apprezzare e avvalorare
come alimento dell'anima ogni rilevante fatto dello spirito nel quale brilli
qualche raggio di verità, di giustizia, di bellezza, dovunque appaia e comunque
si manifesti.
Nel pieno rispetto delle concezioni immanenti e
delle intenzioni esplicite di tutti gli autori, anche di quelli che sono
stranieri alla nostra fede, noi sappiamo e vogliamo sempre ricordare che ogni
verità, ogni giustizia, ogni bellezza - in quanto oggettivi riverberi della luce
di Cristo, che è la somma di tutti i valori - è sempre anche nostra, e può e
deve armoniosamente confluire nell'autentica cultura
cristiana.
Nella nostra evasione dall'Egitto del “mondo”,
come già fecero gli ebrei nell'ora dell'esodo, possiamo e dobbiamo portare con
noi l'argento e l'oro degli egiziani
3
- I mezzi per la “coltivazione cristiana
dell'uomo”
La “coltivazione cristiana dell'uomo”, se non vuol
restare soltanto un'astratta affermazione di principio, deve avere i mezzi per
il raggiungimento dei propri compiti.
Di fronte a uno Stato che sempre più estesamente
occupa gli spazi di vita e si impadronisce degli strumenti di comunicazione e di
socializzazione (in palese contrasto col “principio di sussidiarietà”, che è uno
dei cardini di una concezione sociale che voglia fondarsi sulla libertà e sulla
responsabilità della persona), questo argomento è di eccezionale gravità, e
andrebbe estesamente trattato.
Ci limitiamo ad alcune poche e semplici
osservazioni.
a) Non bisogna stancarsi di affermare il dovere dello
Stato di offrire a tutti i raggruppamenti di cittadini (tra i quali c'è la
comunità cristiana) la concreta possibilità di educare i figli secondo le
proprie fondamentali convinzioni. Chi ha dato la vita, ha il diritto
inalienabile di presiedere al suo sviluppo intellettuale e morale. Lo Stato
italiano è su questo punto inadempiente da sempre, soprattutto per la sua
legislazione scolastica pesantemente statalista.
b)
Allo stesso modo, in una società veramente libera che non aspiri a diventare un
regime, il potere pubblico non deve tanto imporre una propria cultura, quanto
aiutare e favorire in tutte le maniere le culture di tutte le libere
aggregazioni.
c)
Le comunità cristiane, pur nella loro estrema povertà, devono darsi da fare per
la sussistenza, la crescita, l'affermazione della loro cultura, in tutti i modi
che una fantasia stimolata dalla fede è in grado di escogitare. Abbiamo nel
mondo di oggi esempi eloquentissimi di quanto possa essere fecondo uno spirito
vivace e forte, anche quando è tiranneggiato, umiliato e posto nelle condizioni
più sfavorevoli. Valga per tutti il fenomeno stupefacente del “samizdat” russo
(12).
4
- Gli “elaborati” della
cristianità
Una “cultura”
nel senso, per così dire, antropologico-etnologico che s'è visto - e cioè tutto
il complesso degli elaborati umani - va riconosciuta a ogni raggruppamento di
persone che è individuabile come tale. In essa trovano posto le tradizioni, le
costumanze, gli istituti, le forme di lavoro e di vita, il folklore, i prodotti
dell'ingegno e dell'abilità manuale, che una determinata gente riconosce come
proprio.
Esiste, intesa secondo questo significato, una
“cultura cristiana”? Evidentemente la risposta a questa domanda dipende da una
questione previa: esiste un popolo cristiano percepibile e identificabile? O,
che è lo stesso, esiste una “cristianità”?
Già da più di una trentina d'anni la cristianità è
stata proclamata defunta. E’ un fenomeno, si è detto, di origine
“costantiniana”, che ha raggiunto il suo culmine nel Medio Evo e che nel nostro
secolo si è del tutto esaurito.
Anzi, con l'affermazione della sua estinzione
storica si è accompagnata spesso la proclamazione della sua illegittimità o
almeno della sua inopportunità di principio. L'idea stessa di “cristianità”
sarebbe oggi improponibile e la Chiesa non dovrebbe mai mirare a dare origine,
mediante strutture caratteristiche, a una propria e specifica socialità che la
renderebbe un corpo estraneo nel mondo; essa deve solo provocare e sostenere un
impegno personale, lucidamente cosciente e del tutto libero da condizionamenti
esteriori. E si è parlato di “presenza molecolare”, come della sola forma
accettabile e augurabile di insediamento dei cristiani nel
sociale.
Mi sembra doveroso notare che questa concezione,
che ha del vero in ciò che afferma, non è sostenibile in ciò che rifiuta. E vero
che occorre formare delle forti personalità cristiane in grado di vivere
totalmente immerse nella società che di fatto oggi esiste; ed è vero che vi
possono essere dei cristiani che della “presenza molecolare” fanno un programma
di vita, purché mantengano acutissimo il senso della propria identità di
credenti e irriducibile la propria originalità di testimoni del Vangelo.). Ma non
è vero che questo sia l'unico modo augurabile di presenza né che sia
condannabile il tentativo di dar vita a una comunità cristiana anche
sociologicamente individuabile.
Almeno tre osservazioni - di genere diverso ma
tutte cospiranti a difendere l'idea di un popolo di Dio percepibile come popolo,
sia pure “sui generis” - sono da opporre ai denigratori cristiani della
cristianità.
- La prima è di indole storica. L'aggregazione dei
credenti secondo un modulo originale ed esteriormente identificabile di
convivenza intensa e operosa è un fatto che si accompagna a tutta la storia
ecclesiale fin dai primissimi tempi. La comunità di Gerusalemme, come appare
dagli Atti, e le comunità paoline, come si intravedono nelle lettere
dell'Apostolo, sono senza dubbio vere e proprie “cristianità”, anche se di
minoranza: in esse i discepoli di Gesù vivevano sotto molti aspetti “a parte”
rispetto al resto dei loro connazionali e avevano forme associative tipiche e
inconfondibili.
Non c'è epoca nella quale la Chiesa non abbia dato
origine a una qualche sorta di “comunità” tra i suoi
componenti.
- C'è poi un rilievo di carattere
psicologico-pastorale. L'uomo, in forza della sua stessa natura, tende
necessariamente a un'esistenza “sociale”. Ciò che non è socializzabile e non
diventa mai socializzato, a poco a poco perde di rilievo nella coscienza della
maggior parte dei singoli e alla fine si estingue.
Ci può essere forse qualche intellettuale che si
ritiene capace di una fedeltà ai suoi ideali che sia puramente individuale,
interiore, invisibile.
Ma gli uomini comuni per tener deste le loro
convinzioni le devono esprimere in qualche attuazione esteriore e comunitaria,
che si imponga all'attenzione anche degli altri.
- Infine c'è una ragione teologica decisiva.
La
natura stessa dell'avvenimento cristiano esige che la “comunione” - che è
personale, trascendente ed eterna - aspiri continuamente e instancabilmente a
farsi “comunità”, cioè una realtà collettiva, contingente, storicamente
determinata. L'atto di fede chiede - per intrinseco dinamismo - di investire e
trasformare tutto l'uomo in tutte le sue dimensioni, personale, familiare,
sociale.
In nessun momento della sua vicenda la Chiesa può
mancare di dare vita a una “cristianità”, secondo forme che mutano nei tempi e
nei luoghi, ma che non possono venire meno in assoluto. Perciò il problema vero
diventa quello di rinvenire la forma che meglio conviene al nostro tempo (14).
La nostra “cristianità” potrà anche essere di
minoranza, diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve
essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata. E non potrà mai delinearsi
come un evento privo di continuità nel tempo, senza premesse e senza radici:
essa sarà tanto più vitale ed “energica” quanto più sarà avvalorata e ispirata
non solo dai principi eterni del Vangelo ma anche dalla continua memoria del suo
passato.
Come si vede, il rilancio di una “cultura
cristíana” così intesa è condizionato dalla ravvivata consapevolezza
dell'esistenza di un “popolo cristiano”, con la sua storia, le sue
consuetudini, le sue feste, le sue opere, le sue multiformi
manifestazioni (15).
L'uomo, che non
viva del tutto svagato, non può evitare di interrogarsi circa i “valori”; anzi,
non può non determinare, almeno nella concretezza delle sue scelte esistenziali,
quali siano per lui i “valori” e come vadano gerarchizzati. Quando queste
determinazioni sono condivise da tutto un raggruppamento umano che arriva a
riconoscere una scala di valori comunemente accettata, sorge e a poco a poco si
configura una “cultura”, secondo il significato che s'è visto sempre più
largamente diffuso negli ultimi decenni.
Ritengo che, una volta chiarito il termine secondo
questa accezione, nessun credente possa contestare l'esistenza e la necessità di
una “cultura cristiana”, a meno di ridurre il cristianesimo a pura esteriorità
folkloristica o a fatto di coscienza, senza alcuna risonanza oltre la vita
segreta dell'individuo.
Piuttosto il discepolo di Gesù dovrà prepararsi in
questo campo ai conflitti e agli scontri.
Potrà talvolta rallegrarsi di concordanze inattese
con chi non crede, nell'esaltazione di qualche valore. Ma più frequentemente
dovrà registrare - senza stupore e senza panico - le più stridenti dissonanze.
E’ molto difficile che convergano sulla stessa scala di valori coloro che
affermano e coloro che negano un disegno divino all'origine delle cose; coloro
che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte;
coloro che affermano e coloro che negano l'esistenza di un mondo invisibile, di
là dalla scena variopinta e labile di ciò che appare; coloro che credono e
coloro che non credono nel Signore Gesù, crocifisso e risorto, Figlio unico e
vero del Dio vivente, Salvatore dell'universo. Le comunità cristiane devono
affrontare a occhi aperti, con serenità e con vigore di spirito, le inevitabili
tensioni tra le diverse “culture” che di fatto convivono nell'ambito di una
società pluralistica.
Noi non dobbiamo e non vogliamo imporre a nessuno
né con la forza né con l'astuzia la nostra “cultura”, cioè la nostra gerarchia
di valori. Ma non possiamo e non vogliamo tollerare che l'imposizione, con la
forza o con l'astuzia, di una “cultura” estranea ci snaturi e ci impedisca di
esistere e crescere come popolo di Dio, redento dal sangue di Cristo, secondo la
visione della vita che noi liberamente e razionalmente accogliamo nell'atto di
fede.
Conclusione
“Cultura” è,
come s'è visto, parola dai contenuti molto diversi, tutti ugualmente presenti e
attivi nel linguaggio e nella mentalità del nostro tempo. L'esame fin qui
compiuto ci porta a concludere che, quale che sia tra questi il significato
considerato, è da riconoscere la proprietà concettuale, la legittimità e la
necessità di una “cultura cristiana”.
In altre parole: il rapporto fede-cultura non è
estrinseco, legato alle circostanze storiche, variabile a seconda dei casi, ma è
intrinseco, essenziale, in qualche modo trascendentale.
La fede, restando fede, deve farsi cultura: lo
deve a se stessa, alla radícalità e alla totalità del rinnovamento che essa
introduce nell'uomo e quindi nell'universo.
Essa non sopprime, non mortifica, non trascura
nessuno dei valori autentici che trova al suo dispiegarsi nella storia e nel'
mondo; ma tutti li assume, li purifica, li esalta, li trasfigura in una “cultura”
che è nuova e diversa, che sempre si rifonda e si arricchisce, mantenendo la sua
tipicità e la sua irriducibilità: li assume, li purifica, li esalta, li
trasfigura nella “cultura cristiana”.
Note :
(1)
GIOVANNI PAOLO II, Ai vescovi lombardi in
visita “ad limina apostolorum”, 15 gennaio 1982.Per un commento di questo documento,
cfr. I.
BIFFI, Cultura cristiana, Milano 1983, pp. 131‑135.
(2) E.
GIAMMANCHERI, La
“dimensione culturale” del Pontificato di Paolo VI, in: Paolo VI e la
cultura, Brescia 1983, p. 23. Sulle stesse posizioni di Paolo VI e Giovanni
Paolo Il era l'arcivescovo di Milano G. COLOMBO, Il cristiano di fronte alla
cultura, Milano 1979. Si tratta dell'ultimo dei grandi discorsi programmatici
pronunciati il giorno di sant'Ambrogio. Sembra invece scostarsi da questa linea
il cardinal Martini, quando descrive il rapporto fede-cultura come non organico
e pertanto variabile a seconda delle circostanze: C.M. MARTINI, Fede e
cultura nell'insegnamento di Paolo VI, in: Paolo VI e la cultura, Brescia
1983, pp. 13‑16.
(3) Per il concetto di cultura e
la sua storia, cfr. P. Rossi, Cultura, in: Enciclopedia del Novecento,
1, 1143‑1157. Il Concilio Vaticano Il sembra aver presente soprattutto il
primo e il secondo concetto di cultura (Gaudium et spes,
53‑62).
(4)
Già Cicerone e Orazio
parlavano di una “cultura animi”.
(5)
In questa visione “classica”
è implicita la convinzione che l'uomo abbia bisogno di una “coltivazione” e che
il modo giusto di educare non sia quello di lasciare che il bimbo cresca “come
vuole”; ed è implicitamente riconosciuta anche l'esistenza di “valori
oggettivi”, necessariamente coinvolti nell'opera educativa. Il limite di questa
immagine “agricola” è di non esprimere a sufficienza la “non passività” di colui
che è destinatario della “coltivazione”.
(6)
Va notato che qui non siamo
di fronte a un sinonimo di “erudizione” in quanto il termine “cultura” vuole
indicare non solo l'aggregazione di notizie sparse e reciprocamente
indipendenti, ma anche ‑ in qualche modo ‑ la loro composizione in una sintesi
organica, illuminata sui nessi e sulle cause dei diversi fatti dello spirito.
Nell'uomo “colto” si suppone cioè una certa presenza dell'azione unificante
dell'intelligenza; il che non è di per sé richiesto per assegnare a un uomo la
qualifica di “erudito”.
(7)
L'evoluzione semantica
avviene fino a questo punto tra concetti, per così dire, contigui, mediante
accentuazione dell'uno o dell'altro di quegli elementi che in qualche modo sono
dall'inizio tutti implicati. E dunque una variazione che resta nell'ambito di
contenuti affini e connessi.
(8) All'interno di questo
concetto si danno variazioni importanti in sé e per gli influssi che hanno
avuto. Così Spengler riserva il termine “cultura” alle forme di convivenza che
sono arrivate alla “esistenza storica”, cioè alle civiltà, e le connette col
sorgere della città. Su questo concetto costruisce la sua teoria dei cicli
vitali delle civiltà e del loro inevitabile tramonto. Su questa linea si muove
anche Toynbee, per il quale la civiltà è la risposta adeguata di un
raggruppamento umano alla sfida dell'ambiente.
(10)
Gv 1, 1
L
(11)
Gaudium
et spes, 22. 12
Cfr. Es 12,
35.
La conoscenza della “chiave” esatta di
comprensione dell'universo concretamente esistente ci consentirà, di ogni
rilevante fatto dello spirito, una lettura più compiuta e più penetrante di
quanto non sia stata possibile in chi ne è stato il principio. Possiamo cogliere
la “verità” delle opere di Aristotele e di Platone più di Aristotele e di
Platone; possiamo percepire la bellezza trascendente dell'Antigone o delle
Bucolicke più di Sofocle e di Virgilio; possiamo accedere agli ideali di
giustizia e di solidarietà umana espressi nelle varie dichiarazioni
costituzionali fino a una profondirà ignota agli stessi
estensori.
E in sostanza la valorizzazione della “intentio
profundior” degli autori, di cui parlava già Tommaso d'Aquino.
(12) Sul “samizdat”,
cfr. j. MAL'CEV, L”altra letteratura” (1957^1976), Milano 1976.
(13)
Il Daniélou ha per primo
denunciato il carattere astratto e maldestramente aristocratico delle
denigrazioni della cristianità, rilevandone soprattutto l'ingenuità
psicologica:
“A molti cristiani l'idea stessa di cristianità appare definitivamente
superata... Ma bisogna pesare le conseguenze di tale opzione. E' troppo
evidente
che questo è un punto sul quale bisogna insistere: non è possibile agli
uomini
nel loro insieme - dico a tutti gli uomini - essere cristiani quando si
trovano
in un ambiente indifferente o ostile al cristianesimo. Ciò deriva da una
legge
molto semplice della psicologia, radicalmente misconosciuta da un certo
numero
di teologi contemporanei che sono degli idealisti puri. Essi ragionano
come se
la libertà non fosse affatto condizionata... Mi angoscia attualmente il
fatto
che alcuni teologi sostengano piuttosto l'idea di sbarazzarsi del popolo
cristiano, perché trovano che esso rappresenti ciò che loro chiamano un
"cristianesirno sociologico", che disprezzano; e mi angoscia anche che
essi
mettano l'accento solo su un cristianesimo personale che non può essere
che un
cristianesimo di élites. Questa mi pare una concezione assolutamente
unilaterale delle cose...” (j. DANIELOU, Cattolicesimo, in:
Enciclopedia del Novecento' 1 I,
pp. 666 s.).
(14)
E’ possibile che nel dibattito circa la
“cristianità” si introduca tal volta un equivoco, e il termine non venga sempre
usato univocamente.
Se per “cristianità” si intende la perfetta
coestensione (che, ovviamente, non vuol dire coincidenza) della Chiesa con la
società civile, allora è giusto dire che oggi non esiste più: a differenza di
altre epoche, in cui praticamente tutti i cittadini si riconoscevano
appartenenti anche all'organismo ecclesiale, oggi solo una parte si attribuisce
tale appartenenza.
Se invece il vocabolo designa la traduzione
sociale ed esteriormente percepibile del mistero ecclesiale, allora la
cristianità è un valore di sempre e va concettualmente difeso, anche se non in
ogni epoca e in ogni luogo è un fenomeno “di maggioranza”.
(15)
sostenitori della “presenza
molecolare” sono soliti citare a conforto della loro tesi il paragone
evangelico, del sale (Mt 5, 131 e la Lettera a Diogneto che parla dei
cristiani come “anima del mondo”. E' chiaro da questi testi, si dice, che la
comunità cristiana non può essere un'aggregazione “a parte”; piuttosto deve
essere una presenza dinamica e invisibile, sciolta all'interno della società. In
tutti e due i casi, però, siamo di fronte a una lettura che alla luce dei
contesti rivela subito la sua parzialità e la sua origine
ideologica.
Quanto al “sale”: non si può ricordare l'immagine
del “sale” del versetto 13 e passare sotto silenzio quella della “città
collocata sopra un monte” del versetto 14; ma soprattutto è evidente che Gesù
cita l'immagine del sale per insegnarci non come si debba essere presenti nel
mondo, ma quanto sia necessario conservare la propria identità, se si vuol
davvero giovare al mondo: il sale che ha perso la sua natura di sale “a
null'altro serve che a essere gettato via e calpestato dagli
uomini”.
Quanto a
Diogneto: è da notare che il paragone dell'anima e del corpo non va letto alla
luce dell'antropologia tomista (prevalente nei Teologi del secolo ventesimo), ma
entro la prospettiva platonica (propria dell'autore), che vede l'anima come una
entità a sé, prigioniera del corpo e in lotta perpetua col suo carceriere (come
esplicitamente ricorda il testo, VI 5). Vi si dice senza dubbio che i cristiani
in ogni nazione sono in patria (e perciò non hanno una patria geograficamente
identificabile, V 5); ma vi si dice anche che presso ogni popolo sono un corpo
estraneo (e perciò non perdono l'identità della loro specifica aggregazione).
Sono dunque una “politèia” (società) sì “paràdoxos” (insolita, strana,
sorprendente), ma sempre “politèia”, inconfondibile e inassimilabile (V,
4).
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