Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 7 luglio 2012

Quando sono debole, è allora che sono forte


XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

     Quasi quarant’anni fa (1 ottobre 1957)  fu ghigliottinato un giovane francese – Jacques Fesch -, a causa di un omicidio involontario durante una rapina. Jacques, del quale è in corso la causa di beatificazione, incontrò il Signore nella sua cella d’isolamento. Egli stesso racconta quel momento nel suo diario: “Ero nel mio letto, gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta della mia vita con un’intensità rara, a causa di ciò che mi era stato rivelato a proposito di alcune cose di famiglia, e allora un grido è scaturito dal mio petto, una richiesta di aiuto: “Mio Dio” e istantaneamente, come un vento violento che passa senza che sia sappia di dove viene, lo Spirito del Signore mi ha preso alla gola. Non è un’immagine, si ha realmente la sensazione che la gola si chiuda; e che uno spirito entri in sé, troppo forte per il contenitore che lo riceve. E’ un’impressione di forza infinita e di dolcezza che non si potrebbe sopportare a lungo”.[1]   

     Cito questo episodio, al qual e faccio spesso riferimento, perché può aiutarci a comprendere il senso delle parole di Paolo: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor,12,10). Al termine della lettura abbiamo risposto all’acclamazione “Parola di Dio”, dicendo: “Rendiamo grazie a Dio”, ma non so quanti di noi sono realmente d’accordo con le parole dell’apostolo. Credo piuttosto che siamo dell’idea che tutto debba andare bene – nella salute, negli affetti, negli affari – allora si che siamo forti.
     Attenzione non sto facendo una difesa della sofferenza, quasi che essa sia in sé positiva. Troppi pensano che il cristianesimo sia la religione dei sofferenti – “Beati gli afflitti, perché di essi è il regno dei cieli” -; e guai a chi non offre con gioia le proprie sofferenze a Dio.
     Paolo non sta facendo un ragionamento, ma condivide una scoperta che ha fatto personalmente, sulla propria pelle, come Jacques. Egli, come ognuno di noi quando si trova nella prova, ha chiesto di essere liberato, sollevato dalla fatica, eppure il Signore non lo ha accontentato, anzi gli ha dato una risposta strana: “la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza”. Forse Dio ha bisogno di tenere gli uomini sottomessi, con un pesante giogo sulle spalle, così non se ne vanno autonomi? La debolezza è forse l’arma che Dio usa per non consentire alle creature umane di essere libere, senza di Lui; di svilupparsi pienamente?
     I Salmi possono aiutarci a comprendere il senso di queste parole: “L’uomo nella prosperità non dura, è simile alle bestie che muoiono” (Salmo 48,13) e ancora “Ho detto, nella mia sicurezza:
«Mai potrò vacillare!. Nella tua bontà, o Signore, mi avevi posto sul mio monte sicuro;
il tuo volto hai nascosto e lo spavento mi ha preso”
(Salmo 30,7). Quando tutto fila liscio, ci illudiamo di essere signori della nostra storia; rischiamo di pensare di non avere bisogno di niente e di nessuno. Basta però che una difficoltà ci raggiunga e allora facciamo subito l’esperienza della nostra fragilità. Ebbene questo è proprio un momento favorevole, perché ci scontriamo con ciò che è vero: non siamo autosufficienti; non siamo onnipotenti, ma siamo creature bisognose dell’aiuto dei nostri simili e anche di Dio. Chi si accorge di avere bisogno di aiuto, lo chiede e diventa disponibile ad accoglierlo. Per questo Paolo si riconosce forte nella debolezza, perché sente che Dio lo può soccorrere, può comare il suo limite. La forza viene da Dio.
     Anche se non ce ne accorgiamo, spesso frapponiamo delle barriere tra noi e Dio – anche noi credenti e praticanti -. Egli fa una grande fatica a raggiungerci, però, basta che in questa barriera si formi un varco, anche piccolo, perché possa entrare nella nostra vita e risanarla. La fatica della vita, a volte, consente proprio questo; ci si trova indifesi, deboli e, quindi più facilmente raggiungibili.
     Quanto detto non significa che Dio risolve i problemi – Paolo non viene liberato dalla “spina nella carne” -, ma essi perdono la capacità di schiacciarci.
     Tornando al nostro Jacques, che finì in galera a causa di una ricerca di libertà che non riusciva a raggiungere, proprio in carcere, in cella di isolamento, in attesa della morte, ha cominciato a vivere in pienezza. Proprio nell’ultimo giorno prima di morire, scrive ne diario: “Ultimo giorno di lotta, domani a quest’ora  sarò in cielo! Il mio avvocato mi ha appena avvisato che l’esecuzione avrà luogo verso le quattro del mattino. Che la volontà del Signore sia fatta in tutte le cose! Confido nell’amore di Gesù e so che comanderà ai suoi angeli de portarmi sulle loro mani. Che io muoia come il Signore vuole che io muoia, tuttavia sono sicuro che nella sua bontà Gesù mi donerà una morte da cristiano, al fine che fino alla fine possa rendere testimonianza”. Non illudiamoci non è tutta poesia, infatti scrive anche: “La sera scende e mi sento triste, triste … La morte si avvicina e la mia gioia è sparita, anche se non ho paura. Solamente il regno dei cieli se n’è andato e sono solo!”.[2]
      Non siamo chiamati a cercare la sofferenza, non siamo chiamati ad amarla, ma a non fuggirla; essa può diventare l’occasione fondamentale per la nostra storia, quella nella quale il Signore può aprirsi un varco per entrare nel nostro deserto e farlo fiorire.La mia ferita, Signroe, diventi un varco per la tua presenza in me.



[1] J. Fesch, Dans 5 heures je verrai Jesus, Sarment 96
[2] Id. 229-230

1 commento:

  1. A volte ci opponiamo con tutte le forze alla sofferenza e, la rabbia che ci avvolge, non ci permette di aprire un varco, affinchè Dio possa raggiungere il nostro cuore. La sofferenza ci rende, spesso, diffidenti nei confronti di chicessia e ci allontana dalla capacità di affidarci con serenità a Chi ha le braccia giuste per accoglierci. Ciao. Anna

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