Consiglio vivamente di leggere con attenzione questo splendido testo. Immersi come siamo in una tenebra dovuta all'assenza di maestri credibili, noi cattolici gioiamo per avere pastori tanto lungimiranti e capaci di leggere la realtà in profondità. Siamo orgogliosi di loro.
Venerati e Cari Confratelli,
veniamo da mesi particolarmente impegnativi e intricati, che
dettagliano una condizione sempre più complessa, per noi italiani come
per l’Europa. Non si è infranto un equilibrio da riaggiustare; è
accaduto qualcosa di più consistente e profondo
che ha portato a galla
di colpo le contraddizioni, le ingenuità, le fughe in avanti, gli
squilibri, i rinvii accumulatisi nei decenni e sui quali evidentemente
ci si illudeva di continuare a lucrare. Bisognerà riflettere per meglio
comprendere le radici profonde – culturali, morali ed economiche – della
crisi, ma nel contempo dobbiamo farci carico del pregresso, anche
quello più rinviato e sgradevole. Non è la prima volta, nell’Italia
moderna, che si debbano affrontare prove dure e inesorabili. Forse, in
altri passaggi, però, s’imponevano convinzione diffusa, coraggio corale,
quasi entusiasmo contagioso. Anche per questo noi Vescovi ci riuniamo:
la vita del nostro popolo ci tocca e le condizioni di essa ci
interrogano. «La Chiesa – diceva di recente il Papa alla Coldiretti (Discorso all'Assemblea nazionale,
22 giugno 2012) – non è mai indifferente alla qualità della vita delle
persone». Come Pastori, ci lasciamo guidare da quello sguardo del
discernimento che, non a caso, taluno considera oggi come la “regola”
principale emersa con il Concilio Vaticano II. Discernimento
sapientemente usato per andare in profondità, come a carpire la traccia
del pensiero di Cristo su questa situazione. ...
1. «L’Italia reagisca alla tentazione dello scoraggiamento», diceva con accoratezza il Papa in visita ad Arezzo (Saluto al Regina Caeli,
13 maggio 2012). Noi, per quel che possiamo, siamo qui per questo.
Vogliamo essere gli araldi del Vangelo, e dunque della speranza. Forse,
talora, anche scomodi, ma certo appassionati del comune destino, e per
questo vedette insonni di un’alba già possibile. Siamo in obbligo però
di constatare che c’è carenza di quella visione capace di tenere insieme
i diversi aspetti dei problemi e coglierne i nessi, abbarbicati come
spesso si è alla propria visione di parte, quando non al proprio
tornaconto personale. Bisogna che si reagisca con un ripensamento
anzitutto spirituale e morale, il quale solo può abilitare a un
realismo crudo ma fiducioso, aperto al superamento non demagogico della
situazione. Il nostro popolo tiene, resiste; naturalmente si interroga e
patisce; ma non si arrende e vuol reagire. Sempre meno si lascia
illudere dalle chiacchiere, ed esige la nuda verità delle cose, pur
senza lasciarsi imprigionare da prospettive solamente negative e
deprimenti. È in questa cappa di sfiducia, infatti, il fattore più
pernicioso e pervasivo. L’Italia, riversa nella contingenza, stenta a
maturare una prospettiva adeguata, un respiro lungo. L’abbiamo già detto
nella prolusione di gennaio, e ci permettiamo di ripeterlo: non ci
stupisce di vedere sui banchi delle chiese persone ieri indifferenti e
distratte, e oggi più pensose e concentrate. Ci sono segnali che
certificano come vi sia, a esempio, un popolo insospettabile e non
residuale fedele alla preghiera del Rosario e alla Messa quotidiana,
magari seguite alla televisione. La cittadinanza è più in avanti di
quanto non si pensi. I colpi della vita inducono, infatti, a essere
meno superficiali, a diventare più riflessivi, a riscoprire i valori
veri. Dobbiamo tenere conto che questo popolo c’è e non è rinunciatario o
passivo, coincidendo in gran parte con la Nazione più responsabile
seppur silenziosa, capace di sacrifici e di rinunce, ma non più a occhi
chiusi e con atteggiamenti fideistici. Auspichiamo che questa
componente del Paese sia meno trascurata o resa pressoché invisibile,
per essere invece più determinante. Solo un sano anticonformismo ci
salva dalla stagnazione e può attrezzarci per cooperare al cambiamento. ...
3. Non ci uniscono però solo le tragedie, ci uniscono di più –
nel senso che ci edificano insieme – gli esempi di quanti ci ricordano
che solamente delle esistenze non mediocri riescono a incidere nel
vissuto ecclesiale e sociale. E che, senza lo spirituale nella persona e
nella società, c’è una povertà strutturale incolmabile, si determina
una perdita per tutti, anche per chi tale dimensione non la coltiva o
non la stima. Siamo inoltre aiutati, e quasi sospinti a stare
costruttivamente insieme, dalla testimonianza d’amore e dalla sapiente
iniziativa di Benedetto XVI: la sua figura sempre emerge nitida e
disarmante. È un’ammissione che è venuta di recente anche da chi lo
serve più da vicino, monsignor Georg Gaenswein: «Il programma del Papa?
Solo il Vangelo» (Avvenire, 8 giugno 2012). Noi ci stringiamo a lui come a roccia solida e nocchiero austero, che conduce con trasparenza e parresia
la barca di Pietro tra scogli ieri ignoti. Dal laccio di tradimenti
impensabili o malevoli interpretazioni, a liberarlo è puntualmente la
sua mitezza e la sua disarmante affabilità, procedendo egli nella
propria missione ancora più amato. Al male occorre semplicemente dire
no, anche quando dovesse indossare quella «cultura della menzogna che si
presenta sotto la veste della verità e dell’informazione, in cui il
moralismo è maschera per confondere e creare confusione e distruzione
[…]. Non conta la verità ma l’effetto, la sensazione. Sotto il pretesto
della verità si distruggono gli uomini e si vuole imporre solo se stessi
come vincitori» (Benedetto XVI, Lectio divina al Convegno ecclesiale della diocesi di Roma,11
giugno 2012). Noi Vescovi vogliamo ancora una volta ringraziare Pietro
per la saldezza della sua fede. Ringraziarlo perché non cessa di
esortarci «a non fermarsi all’orizzonte puramente umano e ad aprirsi
all’orizzonte di Dio, all’orizzonte della fede» appunto (Saluto all’Angelus, 5
agosto 2012), e soprattutto a presentare in ogni occasione ciò in cui
crediamo: «Non si tratta di seguire un’idea, un progetto, ma di
incontrare Gesù come Persona viva, di lasciarsi coinvolgere totalmente
da Lui e dal suo Vangelo» (ib). La Chiesa non è moribonda –
come a volte si vorrebbe e viene rappresentata – lacerata da divisioni,
soffocata da contro-testimonianze, in condizioni di mera sopravvivenza.
La Chiesa è unita e – seppur sotto sforzo – vuole affrontare le
traversie del tempo con umiltà, vigore e lungimiranza. Se nessuno ha
interesse a nascondere la verità, non si può tacere che la Chiesa è
rimasta forse l’unica a lottare per i diritti veri dei bambini, come
degli anziani e degli ammalati, della famiglia, mentre la cultura
dominante vorrebbe isolare e sterilizzare ciò che di umano resta nella
nostra civiltà. Nella Chiesa avviene qualcosa di straordinario: uomini
limitati e miseri possono riscattarsi e compiere opere immense. Questa è
la ragione ultima dell’impossibile irrilevanza della Chiesa, e del
cristianesimo che lei nutre.
4. In queste settimane le nostre comunità sono concentrate nel far ripartire la pastorale ordinaria dopo
il lavoro che sempre di più riempie l’estate delle parrocchie. Lavoro
ordinario, ma non generico o standardizzato. Quest’anno poi, nello
svolgimento delle loro attività, le parrocchie avranno l’orecchio
rivolto verso il Sinodo mondiale dei Vescovi dedicato al tema cruciale
della «Nuova Evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana».
... Insomma, quello che si avvia è un anno pastorale
benedetto da circostanze realmente speciali, che non possono non
rinnovare la generosità apostolica di tutti. Moltissimo del materiale
scaturito dall’ultima Assemblea generale della CEI, a cominciare
dall’attenzione all’iniziazione cristiana e alla formazione degli
adulti, può trovare nelle parrocchie terreno propizio di risonanza e di
rinnovate esperienze. È il legame col territorio quello che ancora una
volta ci interpella, interpella noi Chiesa italiana, giacché non c’è
punto del Paese che non sia assegnato ad una data parrocchia. Non c’è
famiglia, per quanto dislocata, che non abbia un’attribuzione
ecclesiale. Non c’è persona che non debba essere, in un modo o
nell’altro, raggiunta da una proposta. ... Poi, purtroppo,
non tutti risponderanno come vorremmo, ma per quel che sta in noi non
possiamo accettare che vi siano previamente dei buchi nella rete del
Pescatore. Rigorosamente parlando, oggi non può esistere una pastorale
solo stanziale. Le persone e le famiglie si muovono, emigrano più
facilmente, si spostano la domenica, dividono la settimana tra località
diverse, senza dire che non c’è parrocchia in cui non risiedano degli
immigrati, per di più provenienti da diverse parti del mondo, dunque di
culture e religioni differenti. Pensare ad una pastorale statica e
stantia significa di fatto tagliarsi fuori dalla vita e dalle sue
inevitabili articolazioni. Oggi è imprescindibile pensarsi collocati in
un contesto culturale dinamico: nessuna persona, nessuna famiglia vanno
lasciate a se stesse, ignorate, non interpellate. La parrocchia ha un
centro nella chiesa, e soprattutto nell’Eucarestia, ma questo centro è
tale se si irradia e va lontano, se interessa non solo le età ma anche
gli ambienti. Ecco perché nel decennio scorso, a un certo punto, si è
parlato di «pastorale integrata»: si invocava un’integrazione effettiva
tra le potenzialità delle parrocchie e quelle dei gruppi, delle
associazioni, dei movimenti, ciascuno con la disponibilità ad integrarsi
e lasciarsi integrare, a sagomarsi per quanto è possibile sulla base
delle urgenze e delle necessità, non illudendosi che
l’autoreferenzialità assicuri di fatto un futuro. Tutti devono mettersi
all’opera nella grande vigna del Signore, perché di tutti i talenti c’è
urgente bisogno. Ovvio che un’impostazione sì fatta complicherà un po’
l’esistenza, ma non c’è alternativa. « Le sfide di una società
largamente secolarizzata invitano ora a ricercare con coraggio e
ottimismo una risposta, proponendo con audacia e inventiva la novità
permanente del Vangelo» (Benedetto XVI, Discorso ad un gruppo di Vescovi francesi, 21
settembre 2012). Non possiamo aver pace fino a che non arriviamo a
bussare a ogni porta e a offrirci alla libertà di ciascuna famiglia,
meglio se valorizzando le tradizioni da cui provengono, in ogni caso non
lasciandoci da queste inibire.
5. Ecco perché osiamo accostare l’inizio dell’anno pastorale all’immagine posta dal Papa nell’incipit, e dunque nel titolo, del motu proprio di indizione dell’Anno della fede: varchiamo la Porta fidei (cfr At
14,27)! Varchiamola con letizia ed entusiasmo contagiosi. Per farcela,
c’è bisogno di un minimo di organizzazione, che non è tuttavia fine a se
stessa, ma funzionale allo scopo (cfr Benedetto XVI, Discorso ad un gruppo di Vescovi cit.):
la rinnovata conversione al Signore per gustare la gioia profonda della
fede. Il Sinodo sarà l’occasione provvidenziale per mettere a fuoco
l’evangelizzazione nel mondo, e i Padri si potranno confrontare e
istruire con situazioni le più diverse. Non deve stupire che il processo
di secolarizzazione, oltre a sfidare la Chiesa nei Paesi occidentali di
antica conversione, definisca la situazione della fede anche in
contesti assolutamente diversi. Il Papa non da oggi si sofferma sul
carattere del nostro tempo «nel quale Dio è diventato per molti il
grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del
passato» (Discorso all’Assemblea dei Vescovi d’Italia cit.). La quaestio fidei
è per lui la sfida prioritaria. Per i fantasmi antireligiosi che stanno
facendo la loro comparsa anche in Europa, e per una fobia
anti-cattolica irragionevole che qua e là si manifesta, sappiamo che «La
nostra fedeltà al Vangelo ci può costare cara, la verità di Cristo non
ha bisogno solo di essere compresa, articolata e difesa, ma anche di
essere proposta con gioia e fiducia come chiave della realizzazione
umana autentica e del benessere della società nel suo insieme» (Discorso a conclusione della visita ad limina dei Vescovi degli Stati Uniti d’America, 18
maggio 2012). Come non andare con il pensiero e il cuore ai cristiani
perseguitati e straziati in troppe parti del mondo, nella sostanziale
indifferenza della comunità internazionale? Nessuna violenza può essere
accettata, ma sempre deve essere denunciata ad alta voce e
ripetutamente. A loro la nostra ammirazione e per loro la nostra
preghiera, insieme a un rinnovato impegno di fedeltà al Vangelo e al
grido di dolore che invoca per tutti libertà religiosa e vero rispetto
reciproco, sempre e dovunque. ...
6. A proposito di Vaticano II, vorrei almeno di passaggio
mettere a fuoco due profili ecclesiali decisivi: il clero e il laicato.
Noi stessi, in questa sessione del nostro Consiglio, affronteremo un
aspetto della vasta problematica sacerdotale, in particolare quello
decisivo delle vocazioni. Non c’è dubbio infatti che dobbiamo imprimere
una decisa accelerazione alla pastorale vocazionale, attraverso anche
una dedizione specifica di noi Vescovi e una mobilitazione affettiva e
orante del popolo di Dio. Ma il fatto che vi siano diocesi e regioni che
risentono assai meno della crisi dice che vi sono possibilità da
mettere in campo e risorse da esplorare. Anche nei territori più ispidi
si possono avere risultati consolanti. Mentre confermiamo il senso di
attaccamento e di profonda gratitudine per il nostro clero, lo esortiamo
a camminare più speditamente e insieme – loro e noi – sulla via della
santità, memori di quanto il Concilio afferma con tono deciso: «È ai
Vescovi che incombe in primo luogo la grave responsabilità della santità
dei loro Sacerdoti» (P.O. n. 7). La fede – di cui siamo
costituiti maestri – chiede che ne siamo anzitutto discepoli umili e
generosi per poter essere di esempio alle anime. Esse guardano ai loro
Pastori desiderosi di vedere in loro il riflesso del Signore. Credere
non è fare qualcosa o molto per Dio; è anzitutto spalancare il cuore per
accogliere il dono della grazia, per lasciar “entrare” il Dio tre volte
santo; è arrendersi al Signore, stare davanti a Lui, a piedi nudi, per
essere coinvolti nella sua volontà. Le anime cercano preti entusiasti,
con una chiara identità, che li rende presenti nel mondo senza che siano
del mondo; preti «abituati ad ascoltare, soprattutto a metterci nella
disposizione interiore ed esteriore del silenzio per essere attenti a
ciò che Dio vuole dirci.[…] La preghiera costante risveglia in noi il
senso della presenza del Signore nella nostra vita e nella storia, e la
sua è una presenza che ci sostiene, ci guida, ci dona una grande
speranza anche nel buio di certe vicende umane» (Benedetto XVI, Discorso all’Udienza generale, 5
settembre 2012). I nostri preti devono sapere per esperienza personale
come si varca la porta della fede, e devono saperla indicare,
accompagnandovi i fratelli che, incerti, spesso lo desiderano ma non
sanno come fare.
Quanto al laicato, mi pare molto importante la consapevolezza emersa
anche nell’ultima Assemblea episcopale circa i nostri adulti chiamati a
porsi in uno stato di formazione permanente, una formazione non solo
intellettuale ma che parli al cuore e sempre di più vincoli
all’adorabile persona di Gesù Cristo. Una certa mediocrità o relativa
significanza trovano le loro radici in una vita spirituale modesta. Solo
mediante un’esplicita e continua adesione al Signore, e una
compromissione costosa con lui, noi possiamo sperare in una leva di
laici non mediocri, capaci di esporsi anche a prezzo dell’irrisione, e
capaci di lottare per ciò in cui credono. San Paolo non disdegna questo
linguaggio chiaramente figurato, che rende tuttavia l’idea di che cosa
significhi agire in ambienti refrattari e a volte ostili. Da tempo
parliamo di una nuova generazione di politici cristianamente ispirati;
chiediamoci se ci siamo adeguatamente preoccupati di sostenerne la vita
spirituale, affinché sia continuamente irrorata, capace di ispirare la
testimonianza di comportamenti coerenti. Ma capace anche di dire una
parola chiara e coraggiosa in grado di rendere conto, di argomentare
senza complessi così da accompagnare l’agire e illuminarne il
significato. Fuori da questa dinamica non c’è e non ci sarà leadership
in senso credente, e il coinvolgimento nella costruzione della città
terrena rimarrà un simulacro dichiarato, ma vuoto. Non si tratta solo di
saper porgere il buon esempio – e già questo è gran cosa – ma di
provocare le coscienze, di mettere in crisi uno stile di vita quasi
collettivo attraverso scelte personali coerenti e controcorrente. Solo
allora non si mercanteggerà con ciò che non è mercanteggiabile, e lo
stratagemma del compromesso, talora non evitabile, diventa arte nobile e
alta, non resa al ribasso. Non dimentichiamo che i cattolici che hanno
lasciato traccia, e di cui spesso si evoca il nome, erano anzitutto dei
credenti di prim’ordine, con una forte presa soprannaturale: «Con la
vita e con la parola, i pastori con i religiosi e con i fedeli,
dimostrino che la Chiesa, già con la sola sua presenza, con tutti i doni
che contiene, è sorgente inesausta di quelle forze di cui ha assoluto
bisogno il mondo odierno» (G.S., n.43).
7. Il fermento in atto nelle file del nostro laicato – sia
nelle forme legate alla Chiesa sia in quelle contrassegnate da una
giusta autonomia – punta, a quanto abbiamo compreso, proprio ad un
rinnovato protagonismo per il bene di un Paese scosso da vari eventi, in
una transizione fattasi ancora una volta vorticosa. L’edificazione di
una comunità nazionale che prescinda dalle proprie radici cristiane
sarebbe una forzatura antistorica, destinata a rivelarsi dannosa. Noi
siamo stati generati dalla predicazione del Vangelo, e l’Italia per
secoli è stata culla ed esempio di un modello di civiltà decisivo per i
destini del mondo. Di qui anche la nostra preoccupazione di Pastori e
cittadini. È vero, in questa stagione sembriamo capitati in un vicolo
cieco, costretti a subire la supremazia arbitraria della finanza
rispetto alla vitalità civile e culturale o, detto in altro modo,
rispetto ad un umanesimo sociale che è la cifra della nostra cultura.
Per talune componenti di potere, il Vangelo avrebbe addirittura qualche
responsabilità per la situazione in cui si è; e non avrebbe comunque più
nulla da dire alla società odierna. Il cristianesimo, in realtà, sa –
nella vera coscienza di sé – di essere esperienza non di regresso, ma
propulsiva, perché capace di proporre modelli di vita in cui
l’esasperazione del consumismo e del liberalismo è bandita, in vista di
uno sviluppo comunitario più equilibrato e più garantista rispetto alla
dignità di ogni persona. Data la gravità dell’ora, la Chiesa – spinta
dalla sollecitudine per la Nazione – fa appello alla responsabilità
della società nelle sue diverse articolazioni – istituzioni, realtà
politica e della finanza, del lavoro e delle sue rappresentanze – perché
prevalga il bene generale su qualunque altro interesse. È necessario
stringere i ranghi per amore al Paese. La vita della gente è in grave
affanno e sente che il momento è decisivo: dalla sua soluzione dipende
la stessa tenuta sociale. È l’ora di una solidarietà lungimirante, della
concentrazione assoluta – senza distrazioni – sui problemi prioritari
dell’economia e del lavoro, della rifondazione dei partiti, delle
procedure partecipative ed elettive, di una lotta penetrante e
inesorabile alla corruzione: problemi tutti che hanno al centro la
persona e ne sono il necessario sviluppo. Quando – per interessi
economici – sull’uomo prevale il profitto, oppure – per ricerca di
consenso – prevalgono visioni utilitaristiche o distorte, le conseguenze
sono nefaste e la società si sfalda. Dispiace molto che anche dalle
Regioni stia emergendo un reticolo di corruttele e di scandali,
inducendo a pensare che il sospirato decentramento dello Stato in non
pochi casi coincide con una zavorra inaccettabile. Che l’immoralità e il
malaffare siano al centro come in periferia non è una consolazione, ma
un motivo di rafforzata indignazione, che la classe politica continua a
sottovalutare. Ed è motivo di disagio e di rabbia per gli onesti.
Possibile che l’arruolamento nelle file della politica sia ormai così
degradato? Si parla di austerità e di tagli, eppure continuamente si
scopre che ovunque si annidano cespiti di spesa assurdi e incontrollati.
Bisogna certo che gli stessi cittadini, che pure oggi sono così scossi,
insieme al diritto di scelta dei propri governanti esercitino un più
penetrante discernimento, per non cadere in tranelli mortificanti la
stessa democrazia. Ecco perché – superando idiosincrasie ideologiche – è
necessario tenere saldo il legame con quei valori che fanno parte della
nostra storia e ne costituiscono il tessuto profondo; tessuto che a
qualcuno sembra talmente acquisito da non aver bisogno di attenzione e
di presidio alcuno, e da altri è guardato con sospetto o insofferenza.
In una congiuntura particolarmente acuta, la classe politica ha ritenuto
proprio dovere fare un passo indietro rispetto alla conduzione del
governo del Paese. Ora è chiaro interesse di tutti che il governo votato
dal Parlamento adempia ai propri compiti urgenti, e metta il Paese al
riparo definitivo da capitolazioni umilianti e altamente rischiose. Nel
frattempo, la politica deve riempire operosamente la scena arrivando a
riforme tanto importanti quanto attese. Proprio perché la politica è
necessaria e, in sé, è arte nobile, non si può sottovalutare il
sentimento ostile che va covando nella cittadinanza. Non è, a nostro
avviso, un atteggiamento momentaneo e solo umorale, correggibile grazie a
consuete mosse ad effetto: va letto con intelligenza e onestà per
trarne i moniti salutari. La politica – come dedizione fino al
sacrificio per il bene comune – richiede non solo buona volontà, ma
capacità di visione, competenza, e quella coerenza personale che rende
presentabili agli occhi della Nazione e del mondo. Le elezioni non sono
un passaggio taumaturgico, ma vincolo democraticamente insuperabile, e
quindi qualificante e decisivo. Per questo bisogna prepararsi
seriamente, non con operazioni di semplice cosmesi, bensì portando
risultati concreti per il Paese e un rinnovamento reale e intelligente
delle formazioni politiche e il loro irrobustirsi con soggetti non
chiacchierati. Lo spettro dell’astensione circola e rischia di apparire a
troppi come la “lezione” da assestare a chi non vuole capire. In questo
senso la competizione resta aperta, e sarà bene che la politica non
bruci alcun ponte dietro a sé. Presunzione e personalismi, strumentalità
e isterie vanno lasciati da parte. «Utilmente risuona – avvertiva il
Papa sabato scorso – il monito del libro della Sapienza, secondo cui “il
giudizio è severo contro quelli che stanno in alto” (Sap 6,5)» (Discorso all’Internazionale Cristiano-Democratica, 22
settembre 2012). Si pensi all’Italia che non può essere bloccata, che
deve andare avanti e consolidare senza incertezze il proprio posto
d’onore dinanzi al mondo, figurando tra le nazioni che contano grazie
alle potenzialità e all’esperienza.
8. La strada aperta davanti a noi resta in pericolosa
pendenza o in forte salita – a seconda dei punti vista –, in base alle
scelte che vengono fatte e alla volontà popolare di assecondarle o meno.
Ma la vita della gente è già segnata in modo preoccupante. La povertà
cresce e tocca tutti, seppur da punti di partenza molto diversi, e ciò
fa la vera differenza. La crisi non è congiunturale ma di sistema, e la
durata nel tempo, nonché gli scenari internazionali, hanno ormai
dimostrato che riveste una complessità e profondità tali da non poter
essere affrontata con “formule” facili o peggio propagandistiche, né
oggi né domani. E neppure è possibile un affronto puramente nazionale
che prescinda da quel contesto europeo e mondiale che – pur presentando
vischiosità e particolarismi – sarebbe illusorio e suicida
sottovalutare. E nel quale bisogna saper stare con competenza e
autorevolezza riconosciuti. È l’ora della solidarietà lungimirante, ci
vogliono strateghi di ogni operosa convergenza più che guardiani severi
di un’ortoprassi rigida solo nella misura in cui lo si vuole. Bisogna
puntare di più sulle comunità, sui territori, e con loro studiare caso
per caso le soluzioni. Quando un distretto è in allarme per la
minacciata chiusura di un’importante industria è il territorio a dover
essere coinvolto. Sarà allora più ragionevole chiedere ad una comunità
anche dei momentanei sacrifici collettivi attivandone ogni virtuosa
energia. Certo, il clientelismo ha creato nel tempo situazioni oggi
insostenibili, ma non è possibile destrutturare gli ambiti territoriali
in nome della concentrazione. Nessuna comunità oggi può pretendere che
siano gli altri a pagare i propri punti di orgoglio; ma tutto questo non
può avvenire a scapito del lavoro, sostegno vitale dei singoli e delle
famiglie, nonché di quel sudato patrimonio di professionalità
industriale che ha raggiunto livelli di eccellenza mondiale, ed è
guardato talora con avidità da altri Paesi. In questo campo è difficile
credere ai “benefattori”! I giovani sono il nostro maggiore assillo, i
giovani e il loro magro presente. Il precariato indica chiaramente una
fragilità sociale, ma sta diventando una malattia dell’anima: la
disoccupazione o inoccupazione sono gli approdi da una parte più
aborriti, e dall’altra quelli a cui ci si adatta pigramente, con il
rischio di non sperare, di non cercare, di non tentare più. La mancanza
di un reddito affidabile rende impossibile pianificare il futuro con un
margine di tranquillità, e realizzare pur gradualmente nel tempo il
sogno di una vita autonoma e regolare. Sappiamo che questa condizione è
il risultato di tante responsabilità e di decenni di una cultura finta,
che ha seminato illusioni e esaltato l’apparenza; ma sia chiaro che la
Chiesa è vicina a questi giovani, li sente più figli che mai, anche se
alcuni di loro la deridono o non si fidano. Siamo con questi giovani
perché è intollerabile lo sperpero antropologico di cui, loro malgrado,
sono attori. Siamo vicini perché non si spenga la speranza e non venga
meno il coraggio.
9. La gente non perdonerà la poca considerazione verso la
famiglia così come la conosciamo. Specialmente in tempo di crisi seria e
profonda, si finisce per parlare d’altro, per esempio si discute di
unioni civili che sono sostanzialmente un’imposizione simbolica, tanto
poco in genere vi si è fatto ricorso là dove il registro è stato
approvato. Si ha l’impressione, infatti, che non si tratti di dare
risposta a problemi reali – ai quali da sempre si può rispondere
attraverso il codice civile esistente – ma che si voglia affermare ad
ogni costo un principio ideologico, creando dei nuovi istituti giuridici
che vanno automaticamente ad indebolire la famiglia. Com’è noto,
nell’opinione pubblica la questione viene rappresentata come
contrapposizione tra una concezione laica del matrimonio e della
famiglia e una concezione cattolica, con l’accusa che si vuole imporre
allo Stato laico una visione confessionale. Ma non è così: si tratta
invece della dialettica tra diverse visioni “laiche” dei diritti. Si
parla, ad esempio, di “libertà di scelta” a proposito delle unioni di
fatto; ma è paradossale voler regolare pubblicisticamente un rapporto
quando gli interessati si sottraggono in genere allo schema
istituzionale già a disposizione. In realtà, al di là delle parole, ci
si vuol assicurare gli stessi diritti della famiglia fondata sul
matrimonio, senza l’aggravio dei suoi doveri. Inoltre, si dice che certe
discipline giuridiche non impongono niente a nessuno, ma solo
permettono di avvalersi di una norma da parte di chi lo desidera. In
verità, è la situazione complessiva a non essere più la stessa: infatti,
a fronte di determinate leggi, si modifica il significato proprio
dell’istituzione matrimoniale, il pensare sociale ne viene pesantemente
segnato e, di conseguenza, l’educazione dei propri figli. Sarebbe
ingenuo, o peggio, negare che diversi orizzonti normativi influenzano e
modificano inevitabilmente il sentire comune e quindi il costume
generale. Per questa ragione, il riconoscimento di determinate
situazioni o pratiche, non è mai neutrale: pur se non obbliga alcuno, è
fortemente condizionante tutti. Quando si vuole ridefinire la famiglia
esclusivamente come una rete di amore – dove c’è amore c’è famiglia, si
dice –, disancorata dal dato oggettivo della natura umana – un uomo e
una donna – e dalla universale esperienza di essa, la società deve
chiedersi seriamente a che cosa porterebbe tale riduzione, a quali
nuclei plurimi e compositi: non solo sul versante numerico, ma anche su
quello affettivo ed educativo, strutturante cioè la persona. La società,
come già si profila in altri Paesi, andrebbe al collasso. Perché non si
vuole vedere? Non si vuole riconoscere le conseguenze nefaste di queste
apparenti “avanguardie”? In realtà, la famiglia ha un ruolo chiave del
tutto evidente, e riversa centuplicato sull’intera società il suo
benessere complessivo. Ancor più nell’attuale congiuntura, si rivela
come fondamento affidabile della coesione sociale, baluardo di
resistenza rispetto alle tendenze disgregatrici, vincolo di coesione tra
generazioni, non certo “grumo” di relazioni come taluno vorrebbe
definirla per liquidarla. Anche per questo essa merita di essere
rispettata e considerata molto di più sul piano culturale e mediatico, e
quindi sostenuta concretamente con provvedimenti sul fronte politico ed
economico. Se la famiglia fonda la società, la presidia e ne garantisce
il futuro – com’è del tutto evidente – la società a sua volta ha
l’obbligo e la convenienza di presidiare in maniera privilegiata la
famiglia, riconoscendone pubblicamente il valore unico e ponendo in
essere le misure necessarie e urgenti, affinché non sia umiliata e non
deperisca. Un impegno, questo, sacrosanto e insieme laicissimo, come lo
sono gli altri impegni che scaturiscono da principi irrinunciabili, e
per questo non in discussione. Oggi c’è una gran voglia di introdurre
nuovi “diritti”, legati a sensibilità emergenti. Per questo occorre un
acuto discernimento, da esercitare negli ambiti nei quali si affermano
«gli interessi più vitali e delicati della persona, lì dove hanno luogo
le scelte fondamentali inerenti il senso della vita e la ricerca della
felicità. Tali ambiti non sono separati ma profondamente collegati,
sussistendo un evidente continuum costituito dal rispetto della
dignità trascendente della persona umana, radicata nel suo essere
immagine del Creatore e fine ultimo di ogni giustizia sociale
autenticamente umana» (Benedetto XVI, ib). Legittimo chiedersi:
perché si vorrebbero “non negoziabili” proprio questi, mentre quelli
che rappresentano il portato dell’esperienza e la riserva del diritto,
si dovrebbero liquidare e mercanteggiare? Il fatto che alcuni di essi
siano iscritti nel Vangelo, non diminuisce la legittimità civile e lo
spessore di laicità di chi vi si riconosce. Un domani la storia darà
conto di questa proposta ad oltranza che la Chiesa va facendo della
famiglia naturale: non certo per suoi interessi, ma per quelli della
comunità civile. La stessa comunità che oggi attende il varo definitivo,
da parte del Senato, del provvedimento relativo al fine vita (le Dat).
Rimane un ultimo passo da compiere, se non si vuole che un’altra
legislatura si chiuda con un nulla di fatto, nonostante un grande e
proficuo lavoro svolto a difesa della vita umana nella sua inderogabile
dignità: com’è noto, si esclude ogni accanimento, ma anche ogni forma,
palese o larvata, di eutanasia, e si promuove quel “prendersi cura” che
va ben oltre il doveroso “curare”. Sulla salvaguardia della dignità
degli embrioni, come dei migranti che avventurosamente varcano il mare
alla ricerca di una vita migliore, la Chiesa è vigile ed è impegnata,
ricordando a tutti il monito: che ne è di tuo fratello (cfr Gn
4,9)? Affrontare in senso umanitario il fenomeno delle carrette del mare
è un obbligo di civiltà, a cui concorrono l’operosità delle Diocesi e
della Caritas, anche se ulteriori soluzioni recettive dovranno essere
presto assunte, a fronte di nuove disposizioni.
Venerati Padri, so di aver trascurato temi vitali, soprattutto sul
fronte internazionale. Il coraggioso e importantissimo viaggio
apostolico in Libano di Benedetto XVI ha rappresentato una concreta
finestra di speranza in uno scacchiere decisivo del mondo. Con i suoi
messaggi sul fronte della pace, del rispetto delle religioni,
dell’anti-fondamentalismo bisogna che tutti facciano seriamente i conti.
Da parte mia, mi appello alla consueta, generosa integrazione che può
venire ora dal nostro confronto. Vi ringrazio per l’attenzione e la
passione con cui partecipate al nostro lavoro, sul quale invochiamo
l’assistenza di Maria Regina, nostra Madre, e il patrocinio dei Santi
nostri protettori.
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