XXX DOMENICA T.O.
“Il
Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita
in riscatto per molti” (Mc 10,45). Servire chi? Servire come?
Abbiamo visto più volte come Gesù è in
cammino verso Gerusalemme dove ha un
progetto da realizzare, che non può tardare a portare a compimento, eppure
sulla strada è costantemente fermato e rallentato da qualcuno (dall’indemoniato
di Gerasa; da Giairo per la figlia morta; dall’emorroissa; da coloro che gli
portavano i malati sulle barelle; dal sordomuto; dal cieco di Betsaida; dal
padre del ragazzo “posseduto”). Quando gli si presenta l’uomo concreto, in
difficoltà, Gesù si ferma. Lui è il Buon Samaritano della parabola, quello che
non trova scuse e si ferma a soccorrere il ferito.
Quelli che stanno con Lui invece,
pieni di zelo inopportuno, vorrebbero che nessuno lo ostacolasse; per questo fanno
da barriera e bloccano i bambini che gli vengono presentati (Mc 10,14) e il
nostro amico cieco di Gerico che incontriamo oggi (10,14).
Il
Signore ha appena detto loro di essere venuto per servire, ma essi non hanno
ancora capito.
Fermarsi è già servire; lasciare
momentaneamente da parte sé e le proprie cose, quando è oggettivamente
possibile e accogliere l’altro, è già dare la propria vita, affinché l’altro
abbia la vita. Non avere nessuno che si fermi, è già morire.
Leggevo in questi giorni sul quotidiano
Avvenire di una giovane Nigeriana, costretta con l’inganno a prostituirsi. Dopo
tante violenze e umiliazioni, ha avuto la possibilità di riscattarsi perché un
anziano prete, don Oreste Benzi, una sera si è fermato e le ha chiesto, non
quanto costi, ma: “Quanto soffri?”.
Gesù ci indica anche chi servire: colui
che incontriamo concretamente sulla nostra strada quotidiana e che ha bisogno
del nostro aiuto. A costoro, Gesù mi insegna a donare me, senza aspettare le
grandi occasioni di dono estremo della vita, che probabilmente non mi sarà mai
richiesto. In ogni caso, se non riesco o non voglio donare la mia vita oggi alle persone concrete che incontro
oggi, difficilmente saprò fare il
dono massimo di me in un ipotetico domani.
Fermandosi, Gesù dice, con i
fatti, a colui che incontra: “Tu esisti; tu sei importante; io sono con te”.
Il cieco grida a Gesù abbi pietà di me, usa il verbo greco eleéo. Lo conosciamo per averlo imparato nella formula
dell’invocazione “Kiyrie eléison”.
Fin dall’antichità questa espressione indica il sentimento della commozione che
suscita la vista di un qualche male che colpisce una persona. Si può rendere
l’espressione con misericordia,
compassione, pietà. Come comprendiamo bene il senso di queste parole,
quando stiamo dalla parte di chi le grida; quando noi siamo nel bisogno.
La misericordia di Gesù non è quella
commozione che ci prende quando alla televisione vediamo gli effetti di un
disastro naturale, di un attentato, di una guerra, della fame ecc …, ma che una
volta cambiato canale abbiamo già dimenticato, ma è una ferita che si apre
nella nostra carne e che ci impedisce di andare tranquillamente oltre. La
misericordia di Dio e quella che insegna a noi, è sentire il peso della
sofferenza dell’altro, tanto da provare l’impellenza di fare qualcosa.
Scrive Madeleine Delbrel: “Il cristiano deve essere al centro
dell’umanità. Il Cristo di cui vive non gli fornisce delle ali perché si libri
verso il cielo, ma un peso che lo trascina verso il più profondo della terra.
Questa … non è che la conseguenza della nostra cattura a opera del Cristo”.
La compassione è molto scomoda, perché
toglie il sonno, non lascia tranquilli, ma è uno splendido segno di un’umanità
maturata e di una fede che non si accontenta più dei ragionamenti, anche se
non rende capaci di risolvere sempre e
comunque i problemi delle persone.
Scriveva D. Bonoheffer: “Dobbiamo abituarci a essere pronti, se Dio
sopraggiunge a interromperci. Dio intralcerà sempre i nostri progetti e il
nostro cammino, e lo farà quotidianamente, indirizzando a noi persone che hanno
qualcosa da chiedere o da ottenere. A quel punto possiamo andare avanti per la
nostra strada, occupandoci di ciò che riteniamo importante … possiamo andare
oltre senza vedere il segno della croce … Ma rientra nella scuola dell’umiltà
il non risparmiarsi dove si può prestare un servizio, il non governare in modo
individualistico il proprio tempo, ma il permettere a Dio di riempirlo” (Vita comune).
Aiutaci, Signore, a non passare oltre
quando un parente, un amico, un conoscente, uno sconosciuto attraversano la
nostra strada e, con le parole, ma anche senza, mostrano di avere bisogno di
noi. Insegnaci a non essere indifferenti al dolore e alla fatica dell’uomo.
Donaci il tuo cuore per amare e le tue mani per toccare; anzi, usa il nostro
cuore per amare e le nostre mani per toccare e sanare.
Nelle prove della vita, poche persone si sono fermate a chiedermi: quanto soffri?... è più facile tirare dritto che soccorrere, che occuparsi di qualcuno. Però, quei pochi che hanno incrociato la mia strada ,li ho percepiti come la carezza del Signore sulla mia anima ferita. Anna
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