XXXII DOMENICA T.O.
“Costoro
riceveranno una condanna più severa” (Mc 12,40).
Chi sono “costoro”?
Sono i fedeli all’apparenza;
quelli che hanno i bei segni esteriori della fede, ma che da quella stessa fede
non si lasciano scalfire; quelli che amano muoversi sotto gli occhi degli
uomini per piacere a loro. Eppure, come scrive M. Delbrel: “La luce del Vangelo non è una illuminazione che ci rimanga esterna: è
un fuoco che esige di penetrare in noi per operarvi una devastazione e una
trasformazione. Colui che lascia penetrare in sé una sola parola del Signore e
che la lascia compiersi dentro la sua vita, conosce il Vangelo più di quelli il
cui sforzo resterà meditazione astratta o considerazione storica. Il Vangelo
non è fatto per spiriti in cerca di idee. E’ fatto per discepoli che vogliono
obbedire. … Queste parole sono fatte per
colpire in noi radici di corruzione di cui non possiamo sospettare la
profondità … Non dobbiamo quindi meravigliarci dei cammini interminabili e
dolorosi, dei rivolgimenti intimi che ciascuna di quelle parole induce in noi.
Non bisogna arrestare questa sorta di caduta della parola al fondo di noi
stessi. Ci è necessario il coraggio passivo di lasciarla agire in noi” (Noi delle strade).
Quando il profeta Samuele fu inviato in
cerca di Davide, per consacrarlo Re d’Israele, non riusciva a capacitarsi come
fosse stato scelto da Dio per un tale ruolo il più giovane dei figli di Iesse; per
questo, al profeta il Signore disse: «Non
guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. … non conta quel che vede
l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam
16,7).
In questo momento non cadiamo nell’inutile
atteggiamento di chi comincia a pensare a Tizio, Caio o Sempronio; Gesù non parla a me, affinché
guardi e giudichi gli altri, ma parla a me, affinché guardi e giudichi me
stesso. Potrei essere io quel seguace dell’esteriorità.
E’ tipico di noi uomini fermarci a una
lettura esterna, superficiale della storia e delle persone, ma non di Dio. Per
fortuna Lui va in profondità e sa riconoscere in noi i segni di bene, anche
quando gli uomini non capiscono nulla di noi, ma altresì non possiamo
nascondergli le nostre ipocrisie, infatti “non
vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto
agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,13). Egli sa
riconoscere lo splendore dell’amore anche sotto le mentite spoglie di segni
poveri, ma nel contempo, il vuoto, dietro l’abbondanza.
Noi ci muoviamo dentro la categorie del
“molto”, Dio invece in quella del “tutto”. Se non stiamo attenti, rischiamo di
affaticarci e affaticare l’esistenza altrui nella erronea convinzione che Dio
voglia molto da noi: molto tempo, molte forze, molta radicalità, molto amore,
molti doni, molta penitenza ecc … Quando però facciamo l’esperienza del nostro
limite, finiamo per sentirci inadeguati, incoerenti e viviamo male.
Scriveva molti anni fa un noto moralista
che, “pretendere da chi ha ricevuto un
talento, tanto quanto chi ne ha ricevuti cinque, è un peccato del quale dovremo
rendere conto”. Noi a volte siamo così, pretendiamo non solo dagli altri, ma
anche da noi stessi, quello che non siamo in grado di dare. Dio non fa così. Egli sa quanto possiamo
donare di noi, quali sono i nostri limiti e le nostre potenzialità e ci chiede di
donare quello, non vuole niente di meno, ma neanche niente di più.
Per questo dobbiamo entrare in una
relazione sempre più profonda con Dio, in modo da conoscere sempre meglio noi
stessi e di conseguenza vivere il Vangelo “facendo il passo in base alla nostra
gamba”. Per essere più chiaro, faccio un esempio: la povera vedova, non aveva
denaro, se non quelle due inutili monete; avrebbe dovuto sentirsi in colpa per
non aver potuto dare di più? Non ne aveva di più e il Signore non glielo
avrebbe chiesto. Se una persona che ha
una giornata nella quale il lavoro, la gestione della casa e della famiglia
sono decisamente impegnativi e nel contempo sa che pregare è una esigenza
fondamentale per ogni credente, deve sentirsi in peccato davanti a Dio, perché
invece di fermarsi con Lui un’ora può concedersi solo dieci minuti o un quarto
d’ora? Dio non vuole molto, vuole tutto quello che io onestamente posso e sono
capace di dare. Il mio quarto d’ora di preghiera, strappato alla mia fatica
quotidiana, vale come l’ora che i frati, grazie a un diverso ritmo di vita,
possono concedersi.
Aiutami Signore a non trattener nulla di
me; insegnami a donarti tutto ciò che posso e a non dispiacermi quando ciò che
ti posso dare è così poco agli occhi del mondo, ma anche a non nascondermi
dietro facili scuse, quando mi accontento di offrirti i miei scarti. Manda il
tuo Spirito affinché il mio agire, al di là della quantità, sia mosso da un
fuoco d’amore per te.
ti dicevo ieri sera...la logica dell'apparire e non dell'essere. Tutti, chi più, chi meno, siamo preda dell'egoismo, tutti vorremmo essere "visibili" o meglio "visti"e questo lo pretenderemmo , spesso, anche dal Signore. Però, se non siamo in grado ,ci sentiamo inadeguati, frustrati,fragili. Ascoltare quello che hai così bene detto, cioè, riuscire a dare il nostro "tutto", (anche se poco e piccolo), può bastare se, dentro ,c'è tutto il nostro cuore, il nostro essere, allora, questa PAROLA è veramente consolante. Anna
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