Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

lunedì 14 gennaio 2013

PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI «CRISTIANI» , Bendetto Croce



 Testo integrale del saggio di Benedetto Croce
PERCHÉ NON POSSIAMO NON DIRCI «CRISTIANI»
Rivendicare a se stessi il nome di cristiani non va di solito scevro da un certo sospetto di pia
unzione e d'ipocrisia, perché più volte l'adozione di quel nome è servita all'autocompiacenza e a
coprire cose assai diverse dallo spirito cristiano, come si potrebbe comprovare con riferimenti che
qui si tralasciano per non dar campo a giudizi e contestazioni distraenti dall'oggetto di questo
discorso. Nel quale si vuole unicamente affermare, con l'appello della storia, che noi non possiamo
non riconoscerci e non dirci cristiani, e che questa denominazione è semplice osservanza della
verità.
Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l'umanità abbia mai compiuta: così
grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile
nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una
rivelazione dall'alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge
e indirizzo affatto nuovo.
Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana,
non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse
quelle che la Grecia fece della poesia, dell'arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del
diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica,
della medicina, e di quanto altro si deve all'Oriente e all'Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che
seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro
precedenti antiche, ma investirono tutto l'uomo, l'anima stessa dell'uomo, non si possono pensare
senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché
l'impulso originario fu e perdura il suo.
La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell'anima, nella coscienza
morale, e, conferendo risalto all'intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse
una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all'umanità. Gli uomini, i
geni, gli eroi, che furono innanzi al cristianesimo, compierono azioni stupende, opere bellissime, e
ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; ma in tutti essi si desidera
quel proprio accento che noi accomuna e affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita
umana.
E nondimeno codesto non fu un miracolo che irruppe nel corso della storia e vi si inserì
come forza trascendente e straniera; e non fu nemmeno quell'altro e metafisico miracolo che alcuni
filosofi (e sopra tutti lo Hegel) costruirono quando si diedero a pensare la storia come un processo
lungo il quale lo spirito acquisti l'una dopo l'altra le parti costitutive di se stesso, le sue categorie – a
un certo punto il conoscere scientifico o lo stato o la libertà, e, col cristianesimo, l'intimità morale –,
perché lo spirito è sempre la pienezza di se stesso, e la storia sua sono le sue creazioni, continue e
infinite, con le quali celebra l'eterno se stesso. E come né i Greci né i Romani né gli Orientali
introdussero nel mondo quelle forme universali di cui, per enfasi, li si dice creatori, ma in virtù di
cui soltanto produssero le opere e le azioni con le quali toccarono altezze prima non toccate e
segnarono solenni crisi della storia umana; così anche la rivoluzione cristiana fu un processo
storico, che sta nel generale processo storico come la più solenne delle sue crisi. Tentativi,
precorrimenti, preparazioni si sono notati del cristianesimo, come si notano per qualsiasi opera
umana – per un poema o per un'azione politica –; ma la luce che quei fatti sembrano così
tramandare la ricevono di riflesso, dall'opera che si è poi attuata, e non l'avevano in sé, perché
nessun'opera mai nasce per aggregazione o concorso di altre che non sono lei, ma sempre e soltanto
per un atto originale e creativo: nessun'opera preesiste nei suoi antecedenti.
La coscienza morale, all'apparire del cristianesimo, si avvivò, esultò e si travagliò in modi
nuovi, tutt'insieme fervida e fiduciosa, col senso del peccato che sempre insidia e col possesso della
forza che sempre gli si oppone e sempre lo vince, umile ed alta, e nell'umiltà ritrovando la sua
esaltazione e nel servire al Signore la letizia. E si tenne incontaminata e pura, intransigente verso
ogni allettamento che la traesse fuori di sé o la mettesse in contrasto con se stessa, guardinga
persino contro la stima e la lode e il luccicore sociale; e la sua legge attinse unicamente dalla voce
interiore, non da comandi e preconcetti esterni, che tutti si provano insufficienti al nodo che di volta
in volta si deve sciogliere, al fine morale da raggiungere, e tutti, per una via o per un'altra,
risospingono nella bassura sensuale e utilitaria. E il suo affetto fu di amore, amore verso tutti gli
uomini, senza distinzione di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il
mondo, che è opera di Dio e Dio che è Dio d'amore, e non sta distaccato dall'uomo, e verso l'uomo
discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo.
Da siffatta esperienza, che era in un sol atto sentimento, azione e pensiero, una nuova
visione e una nuova interpretazione sorgeva della realtà, non più cercata nell'oggetto, avulso dal
soggetto e posto al luogo del soggetto, ma in questo che è l'eterno creatore delle cose e l'unico
principio di spiegazione; e s'instaurava il concetto dello spirito, e Dio stesso non fu più concepito
come indifferenziata unità astratta, e in quanto tale immobile e inerte, ma uno e distinto insieme,
perché vivente e fonte di ogni vita, uno e trino.
Questo nuovo atteggiamento morale e questo nuovo concetto si presentarono in parte
ravvolti in miti – regno di Dio, resurrezione dei morti, battesimo per prepararvisi, espiazione, e via
dicendo –; passarono laboriosamente da miti più corpulenti ad altri più fini e trasparenti di verità; si
intrigarono in pensieri non sempre portati ad armonia ed urtarono in contraddizioni innanzi a cui si
soffermarono incerti e perplessi; ma non perciò non furono sostanzialmente quelli che abbiamo in
breve enunciati e, che ognuno sente risonare dentro di sé quando pronunzia a se stesso il nome di
«cristiano». Una nuova azione, un nuovo concetto, una nuova creazione di poesia non è e non deve
essere concepita, secondo che si configura nell'astrazione e nella congiunta immaginazione, come
un qualcosa di oggettivamente concluso e circoscritto, ma come una forza che si apre la via tra le
altre forze, e talora s'incaglia, tal'altra si smarrisce, tal'altra ancora avanza lenta e faticosa o perfino
si lascia qua e là soverchiare dalle altre forze che non può attualmente vincere del tutto e a sé
assoggettare e in sé risolvere, e nelle sconfitte si ritempra e dalle sconfitte si rialza pugnace. E chi
voglia intenderla nel suo proprio ed originale carattere deve sceverarla da quei fatti estranei,
sorpassare quegli incidenti, vederla non già nei suoi impacci ed arresti, nelle sue aporie e
contraddizioni, nei suoi erramenti e sviamenti, ma nel suo impeto primo e nella sua tensione
dominante, così come un'opera di poesia vale per ciò che ha in sé di poesia e non per l'impoetico
che vi si frammischia o che si porta seco in compagnia, per le maculae che sono anche in Omero e
in Dante. Si suol opporre, con sentimento di diffidenza e con parola di critica rampogna, che a
questo modo si «idealizzano» le dottrine e i fatti, e non li si rispetta nella loro integra realtà; ma
quell' «idealizzarli» (che non chiude già gli occhi agli elementi estranei e agli incidenti, e punto non
li nega) non è altro, come abbiamo detto, se non l'«intelligenza», che li intende. Si prenda a prova il
cammino contrario, e si pongano sullo stesso piano i loghi e i miti, le coerenze e le incoerenze, le
certezze e le incertezze di un pensatore; e la conclusione sarà necessariamente che quell'opera non
fu realmente un'opera, ma un nulla, contraddittoria, viziata e corrosa da cima a fondo dagli errori: il
che volentieri usano di fare non pochi critici e storici lieti, per quel che sembra, di ritrovare nei fatti
e nei pensieri e nelle opere grandi del passato la stessa dispersione mentale e la stessa inerzia
morale, che è in loro.
Anche naturale e necessario fu che il processo formativo della verità, che il cristianesimo
aveva così straordinariamente intensificato e accelerato, si soffermasse a un certo punto,
provvisoriamente, e che la rivoluzione cristiana avesse un respiro di riposo (respiro che in istoria
può essere cronologicamente di secoli) e si desse un assetto stabile. E anche qui è stata accusata e
lamentata, e ancor oggi si lamenta, la caduta dall'altezza in cui l'entusiasmo cristiano, si moveva, e
il fissamento, il praticizzamento, il politicizzamento del pensiero religioso, l'arresto del suo fluire, la
solidificazione che è morte. Ma la polemica contro la formazione e l'esistenza della chiesa o delle
chiese è tanto poco ragionevole quanto sarebbe quella contro le università e le altre scuole in cui la
scienza, che è continua critica e autocritica, cessa di esser tale e vien fissata in catechismi e manuali
e la si apprende bella e fatta, sia per valersene a fini pratici, sia, negli ingegni ben disposti, come
materia da tener presente per i nuovi progressi scientifici da compiere o da tentare. Non è dato
eliminare dalla vita dello spirito questo momento, nel quale si chiude il processo cogitativo della
ricerca con l'acquistata fede e si apre quello della pratica azione, in cui la fede si trasfonde. E se
questa chiusura per un verso sembra, e in certo senso è, la morte (e sia pure l'eutanasia, la buona
morte) della verità, perché la verità genuina sta unicamente nel processo del suo farsi, è, per un altro
verso, di conservazione della verità per la sua nuova vita e per la ripresa di quel processo, quasi
sempre protetto e nascosto che germoglierà e getterà nuovi rampolli. Così la chiesa cristiana
cattolica foggiò i suoi dogmi, non temendo di formulare a volte il non pensabile perché non a pieno
risoluto nell'unità del pensiero, il suo culto, il suo sistema sacramentale, la gerarchia, la disciplina, il
patrimonio terreno, l'economia, la finanza, il giure e i tribunali suoi e la correlativa casistica legale,
e studiò e attuò accomodamenti e transazioni con bisogni che né poteva estinguere o reprimere né
lasciar liberi e disfrenati; e benefica fu l'azione sua, vincendo il politeismo del paganesimo e i
muovi avversari che le vennero dall'Oriente (dal quale essa stessa proveniva e che aveva
sorpassato), e quelli particolarmente pericolosi perché recavano impressi molti tratti della sua stessa
fisionomia come gli gnostici e i manichei, e provvedendo a costruire su nuove spirituali fondazioni
il cadente e caduto impero di Roma, e di esso, come di tutta l'antica cultura, accogliendo e serbando
la tradizione. Ed ebbe una lunga età di gloria che fu chiamata il medio evo (partizione storica e
denominazione in apparenza nata come per caso, ma in effetti guidata da sicuro intuito del vero),
nella quale non solo portò a termine il cristianizzamento e romanizzamento e incivilimento dei
germani e di altri barbari, non solo impedì le rinnovate insidie e i certi danni di nuove-vecchie
eresie, dualistiche, pessimistiche ed ascetiche, acosmiche e negatrici della vita, non solo animò alla
difesa contro l'Islam, minaccioso alla civiltà europea, ma tenne le parti dell'esigenza morale e
religiosa che sovrasta a quella unilateralmente politica e a sé la piega, e, in quanto tale, a giusto
titolo essa affermò il suo diritto di dominio sul mondo intero, quali che nel fatto fossero sovente le
perversioni o le inversioni di questo diritto.
Neppure sono valide le altre comuni accuse alla chiesa cristiana cattolica per la corruttela
che dentro di sé lasciò penetrare e spesso in modo assai grave allargare; perché ogni istituto reca in
sé il pericolo della corruttela, delle parti che usurpano la vita di tutto, dei motivi privati e utilitari
che si sostituiscono a quelli morali, e ogni istituto soffre nel fatto queste vicende e di continuo si
sforza di sorpassarle e di restituire le condizioni di sanità. Ciò accadde altresì, se pure in modo
meno scandaloso o più meschino, nelle chiese che contro la loro primogenita cattolica, gridandone
la corruttela, si levarono, nelle varie confessioni evangeliche e protestanti. La chiesa cristiana
cattolica, com'è noto, anche nel corso del medio evo, giovandosi degli spiriti cristiani che spontanei
rifiammeggiavano dentro o fuori dei suoi quadri, e contemperandoli al suo fine, si rinsanguò e si
riformò tacitamente più volte; e quando, più tardi, tra per la corruttela dei suoi papi, del suo clero e
dei suoi frati e per la cangiata condizione politica generale, che le aveva tolto il dominio da lei
esercitato nel medio evo e spuntato le sue armi spirituali, e, infine, per il nuovo pensiero critico,
filosofico e scientifico, che rendeva antiquata la sua scolastica, stette a rischio di perdersi, si riformò
ancora una volta con prudenza e con politica, salvando di sé quanto prudenza e politica possono
salvare, e continuando nell'opera sua, che riportò i trionfi migliori nelle terre di recente scoperte del
Nuovo mondo. Un istituto non muore per i suoi errori accidentali e superficiali, ma solo quando non
soddisfa più alcun bisogno, o a misura che scema la quantità e si abbassa la qualità dei bisogni che
esso soddisfa. E quali siano in questo riguardo le presenti condizioni della chiesa cattolica, è
domanda estranea al discorso che qui conduciamo.
Ripigliando questo discorso al punto dal quale ci siamo discostati per fornire gli anzidetti
schiarimenti sulla verità che è propria del cristianesimo e sul suo rapporto con la chiesa o con le
chiese, e riconosciuta la necessità che il processo formativo e progressivo del pensiero cristiano
dovesse provvisoriamente concludersi (come si fa, in fondo, sia lecito tradurre per chiarezza il
grande nel piccolo, quando, scritto che si sia un libro, lo si manda allo stampatore e al pubblico,
resistendo alla follia dell'infinitum perfectionis), resta, d'altra parte, che il processo doveva essere
riaperto, riveduto e portato più oltre e più in alto. Ciò che noi abbiamo pensato, non per questo è
mai terminato di pensare: il fatto non è mai arido fatto, colpito di sterilità, ma è sempre in
gestazione, è sempre, per adoperare un motto del Leibniz, gros de l'avenir. Quei geni della profonda
azione, Gesù, Paolo, l'autore del quarto evangelio, e gli altri che con essi variamente cooperarono
nella prima età cristiana, sembravano col loro stesso esempio, poiché fervido e senza posa era stato
il loro travaglio di pensiero e di vita, chiedere che l'insegnamento da loro fornito fosse non solo una
fonte di acqua zampillante da attingervi in eterno, o simile alla vite i cui palmiti portano frutti, ma
incessante opera, viva e plastica, a dominare il corso della storia e a soddisfare le nuove esigenze e
le nuove domande che essi non sentirono e non si proposero e che si sarebbero generate di poi dal
seno della realtà. E poiché questa prosecuzione, che è insieme trasformazione e accrescimento, non
si può mai eseguire, senza meglio determinare, correggere e modificare i primi concetti e
aggiungerne di nuovi e compiere nuove sistemazioni, e perciò non può essere né ripetizione né
impossibile commento letterale e, insomma, lavoro banausico (come, in generale, salvo sparsi
conati e rare scintille, nell'età medioevale), ma lavoro geniale e congeniale, continuatori effettivi
dell'opera religiosa del cristianesimo sono da tenere quelli che partendo dai suoi concetti e
integrandoli con la critica e con l'ulteriore indagine, produssero sostanziali avanzamenti nel
pensiero e nella vita. Furono dunque, nonostante talune parvenze anticristiane, gli uomini
dell'umanesimo e del Rinascimento, che intesero la virtù della poesia e dell'arte e della politica e
della vita mondana, rivendicandone la piena umanità contro il soprannaturalismo e l'ascetismo
medievali, e, per certi aspetti, in quanto ampliarono a significato universale le dottrine di Paolo,
slegandole dai particolari riferimenti, dalle speranze e dalle aspettazioni del tempo di lui, gli uomini
della Riforma; furono i severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura, coi ritrovati
che suscitarono di mezzi nuovi alla umana civiltà; gli assertori della religione naturale e del diritto
naturale e della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; gl'illuministi della ragione
trionfante, che riformarono la vita sociale e politica, sgombrando quanto restava del medievale
feudalismo e dei medievali privilegi del clero, e fugando fitte tenebre di superstizioni e di
pregiudizi, e accendendo un nuovo ardo e un nuovo entusiasmo pel bene e pel vero e un rinnovato
spirito cristiano e umanitario; e, dietro ad essi, i pratici rivoluzionari che dalla Francia estesero la
loro efficacia nell'Europa tutta; e poi i filosofi, che procurarono di dar forma cristiana e speculativa
all'idea dello Spirito, dal cristianesimo sostituita all'antico oggettivismo, Vico e Kant e Fichte e
Hegel, i quali, per diretto o per indiretto, inaugurarono la concezione della realtà come storia,
concorrendo a superare il radicalismo degli enciclopedisti con l'idea dello svolgimento e l'astratto
libertarismo dei giacobini con l'istituzionale liberalismo, e il loro astratto cosmopolitismo col
rispettare e promuovere l'indipendenza e la libertà di tutte le varie e individuate civiltà dei popoli o,
come furono chiamati, delle nazionalità: – questi, e tutti gli altri come essi, che la chiesa di Roma,
sollecita (come non poteva non essere) di proteggere il suo istituto e l'assetto che aveva dato ai suoi
dommi nel concilio di Trento, doveva di conseguenza sconoscere e perseguitare e, in ultimo,
condannare con tutta quanta l'età moderna in un suo sillabo, senza per altro essere in grado di
contrapporre alla scienza, alla cultura e alla civiltà moderna del laicato un'altra e sua propria e
vigorosa scienza, cultura e civiltà. E doveva e deve respingere con orrore, come blasfemia, il nome
che a quelli bene spetta di cristiani, di operai nella vigna del Signore, che hanno fatto fruttificare
con le loro fatiche, coi loro sacrifici e col loro sangue la verità da Gesù primamente annunciata e dai
primi pensatori cristiani bensì elaborata, ma non diversamente da ogni altra opera di pensiero, che è
sempre un abbozzo a cui in perpetuo sono da aggiungere nuovi tocchi e nuove linee. Né può a niun
patto piegarsi al concetto che vi siano cristiani fuori di ogni chiesa, non meno genuini di quelli che
vi son dentro, e tanto più intensamente cristiani perché liberi. Ma noi, – che scriviamo né per
gradire né per sgradire , agli uomini delle chiese e che comprendiamo, con l'ossequio dovuto alla
verità, la logica della loro posizione intellettuale e morale e la legge del loro comportamento –,
dobbiamo confermare l'uso di quel nome che la storia ci dimostra legittimo e necessario.
Una ben significante riprova porge di questa storica interpretazione il fatto che la continua e
violenta polemica antichiesastica, che percorre i secoli dell'età moderna, si è sempre arrestata e ha
taciuto riverente al ricordo della persona di Gesù, sentendo che l'offesa a lui sarebbe stata offesa a
se medesima, alle ragioni del suo ideale, al cuore del suo cuore. Perfino qualche poeta, il quale, per
la licenza che ai poeti si concede di atteggiare fantasticamente in simboli e metafore gli ideali e i
controideali a seconda dei moti della loro passione, travide di Gesù – in Gesù che amò e volle la
letizia – un negatore della gioia e un diffonditore di tristezza, finì col dare la palinodia del suo
primo detto, come accadde al tedesco Goethe e all'italiano Carducci. Impressioni e fantasie di poeti
furono altresì le nostalgie per il sereno paganesimo antico, di solito contraddette con le opposte
impressioni e fantasie da quelli stessi che le avevano per poco intrattenute3. La spensierata gaiezza e
la celia, che pareva innocente dovunque si rivolgesse e si versasse, su qualsiasi fatto o personaggio
glorioso della storia e della poesia, non è sembrata innocente e non è stata mai permessa intorno alla
figura di Gesù, che anche si è ripugnato costantemente a portare sulle scene dei teatri, salvoché
nella ingenuità delle medievali sacre rappresentazioni e delle loro sopravvivenze popolari, alle quali
la Chiesa stessa è stata indulgente o che essa stessa ha promosse. E un'altra riprova è forse da
vedere negli atteggiamenti e nelle simbologie di colorito cristiano, di cui si sono di frequente
rivestiti i moti politici e sociali dell'età moderna, anche quelli di carattere più spiccatamente
antichiesastico, sicché si è potuto parlare della «città celeste», che i razionalisti settecenteschi, i
volterriani, avevano edificata, del «giardino dell'Eden», da loro trasferito all'antica Roma o alla
felicità arcadica della «Ragione» e della «Natura», che tenevano in loro il posto della Bibbia e della
Chiesa, e simili; e le rivoluzioni dei tempi moderni si richiamano ai loro «rivelatori», inviano i loro
« apostoli» e glorificano i loro «martiri»4.
Gli è che, sebbene tutta la storia passata confluisca in noi e della storia tutta noi siamo figli,
l'etica e la religione antiche furono superale c risolute nell'idea cristiana della coscienza e
dell'ispirazione morale, e della nuova idea del Dio nel quale siamo, viviamo e ci moviamo, e che
non può essere né Zeus né Jahvè, e neppure (nonostante le adulazioni di cui ai nostri giorni si è
voluto farlo oggetto) il Wodan germanico; e perciò specificamente, noi, nella vita morale e nel
pensiero, ci sentiamo direttamente figli del cristianesimo. Nessuno può sapere se un'altra
rivelazione e religione, pari o maggiore di questa che lo Hegel definiva la «religione assoluta»,
accadrà nell'uman genere, in un avvenire di cui non si vede ora il più piccolo barlume; ma ben si
vede che, nel nostro presente, punto non siamo fuori dai termini posti dal cristianesimo, e che noi,
come i primi cristiani, ci travagliamo pur sempre nel comporre i sempre rinascenti ed aspri e feroci
contrasti tra immanenza e trascendenza, tra la morale della coscienza e quella del comando e delle
leggi, tra l'eticità e l'utilità, tra la libertà e l'autorità, tra il celeste e il terrestre che sono nell'uomo, e
dal riuscire a comporli in questa o quella loro forma singola sorge in noi la gioia e la tranquillità
interiore, e dalla consapevolezza di non poterli comporre mai a pieno ed esaurire, il sentimento
virile del perpetuo combattente o del perpetuo lavoratore, al quale, e ai figli dei suoi figli, non verrà
mai meno la materia del lavoro, cioè della vita. E serbare e riaccendere e alimentare il sentiento
cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra
dolore e speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo
Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi; e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è
perché sappiamo che sempre esso sarà mistero all'occhio della logica astratta e intellettualistica,
immeritatamente creduta e dignificata come «logica umana», ma che limpida verità esso è
all'occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi «divina», intendendola nel senso cristiano come
quella alla quale l'uomo di continuo si eleva, e che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa
veramente uomo.
BENEDETTO CROCE

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