Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 16 marzo 2013

Neanche io ti condanno



V DOMENICA QUARESIMA

     In queste ultime domeniche abbiamo sentito riecheggiare la Buona Notizia. Il Signore ci continua a dire: “non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva” (Ez 33,11). Cosa significano, se non questo, le parole di Gesù: “lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime”, a colui che voleva tagliare il fico senza frutti? Che dire poi di quel Padre che, al figlio disgraziato, di ritorno, quando lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” ? E oggi a questa donna adultera: “Neanche io ti condanno. Va’ e non peccare più”?
     Dobbiamo ribadirlo, senza stancarci: nessun peccato esclude definitivamente dalla comunione con Dio, se scegliamo di ritornare, di cambiare vita. Ecco ancora l’invito di Dio: “Su, venite e discutiamo ... Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve.
Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”
(Is 1,18).
     Per questo noi cristiani dobbiamo imparare da Dio a essere accoglienti verso chiunque voglia “ritornare a casa”; siamo chiamati ad aprire la porta, non a sbarrarla.
     Non voglio cadere nell’errore, però, di pensare che siano gli altri a essere lontani. Io per primo devo costantemente chiedermi: “Dove sono? Davvero abito nella casa del Padre?”.
     Per “tornare”, bisogna essere consapevoli di essersi allontanati, per questo c’è bisogno di ascoltare la voce di Dio che chiama e ci dice la verità, perché, purtroppo, molti “malati” non sanno di esserlo, anzi, la maggior parte dei “malati” sostengono di essere sani.
     La conversione, questo ritorno a casa, nasce nel sacrario della coscienza, da cui il pentimento s’irradia capillarmente fino a raggiungere tutto il pensare e l’agire della persona; è necessario interrompere la continua fuga nel mondo esteriore e ritornare a guardarsi dentro e lì, ascoltare Dio che ci parla, allora può ricominciare a germogliare la vita.
     Purtroppo questo è il tempo del rumore, della fretta, del fare, invece abbiamo bisogno di silenzio. Voi direte: “Chi ne ha il tempo? Non siamo mica frati difesi dalle mura del convento”. Sentite cosa scriveva una di voi, una donna che aveva scelto di vivere il Vangelo nelle strade: “La particolarità della vita nel mondo … è che … si tenta di fare silenzio, ma non si può far fare silenzio alle persone e alle cose che ci circondano …. Se aspettiamo il silenzio per pregare, rischieremo di pregare raramente”[1]; per questo “bisogna imparare a essere soli ogni volta che la vita ci riserva una pausa. E la vita è piena di pause, che noi possiamo scoprire o sprecare. … Quale gioia sapere che noi potremo al tuo solo volto levare gli occhi, mentre la farinata diventerà densa, mentre crepita il telefono occupato, mentre, alla fermata, attenderemo l’autobus in ritardo, mentre saliremo le scale, mentre andremo a cercare, in fondo al viale del giardino ciuffi di prezzemolo per condire l’insalata”[2]. “Dio non può fare a meno di arrivare se noi continuiamo ad attenderlo”.[3]
     Mi piace pensare che il figliol prodigo sia rientrato in se stesso, proprio mentre stava pulendo il porcile o mentre faceva la guardia ai porci. E’ bastato un attimo per fargli riconoscere l’assurdità della sua esistenza lontana dal Padre - infatti la sua vita era “dissoluta” cioè asòtos, senza salvezza – per farlo decidere a ritornare.
     Anche oggi contempliamo un ritorno, non tanto della donna adultera – della quale non sappiamo se non peccò più - ma degli accusatori. Essi erano pieni di zelo e preoccupati di estirpare il male fuori di loro – vizio tipico di ogni tempo -, ma Gesù, senza fare troppo chiasso, con due parole, li ha invitati a entrare dentro di sé: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Costoro che avrebbero potuto ribellarsi e reagire in modo violento, invece, “se andarono uno per uno, cominciando dai più anziani” (Gv 8,9); segno evidente che hanno capito. Si sono vergognati di se stessi, perché la voce di Dio li ha raggiunti.
     La storia si divide tra rivoluzionari e riformatori. I rivoluzionari si battono per rinnovare la realtà distruggendo ciò che esiste – lo faranno pure in buona fede, ma alla fine lasciano mucchi di macerie -; i riformatori, invece, prima di tutto si lasciano trasformare personalmente e così contagiano altri e piano piano, tutto si rinnova. Il Regno di Dio ha bisogno di riformatori, non di rivoluzionari. San Francesco è uno di questi, ha cambiato la Chiesa, senza mai accusarla dall’alto della sua santità.


[1] Madeleine Delbre, La gioia di credere, Gribaudi 109
[2] Ib. 101
[3] Ib. 107

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