XIV DOMENICA T.O.
Una delle prime cose che Gesù fece, fu scegliere
dodici uomini - gli Apostoli - tra i suoi discepoli, perché dodici erano le
tribù di Israele e la Chiesa doveva essere in continuità con l’antico popolo –
costituito da dodici tribù -, ma nel contempo “superarlo”. Il discepolo è colui
che segue un maestro, mentre l’Apostolo è colui che segue, ma poi, mandato,
inviato.
Oggi Gesù invia “altri settantadue”, un numero anch’esso simbolico, perché indica
l’universalità. Gesù Cristo e il suo Vangelo non sono per un singolo popolo, ma
per tutti gli esseri umani, di ogni tempo, di ogni luogo e di ogni cultura; il
Vangelo non è fuori posto in nessuna nazione del mondo. Gesù stesso ha detto: «Io sono la luce del mondo; chi segue me,
non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Tutto ciò che esiste ha bisogno che il
sole sorga, scaldi e illumini – senza sole non c’è vita -, così l’essere umano
ha bisogno, che lo sappia o meno, di Cristo. Per questo non viene mai meno il
bisogno di nuovi inviati, di gente, che con passione continui ad annunciare
Cristo luce del mondo. Dove Cristo “manca”, l’uomo soffre.
San Paolo afferma che ciò che conta è “l’essere nuova creatura” (Gal 6,15); gli
inviati devono annunciare questo, ma nel contempo, per essere credibili, essi
stessi devono lasciarsi rinnovare da Dio. Scrive Madeleine Delbrel: “A che cosa servirebbe il nostro sforzo, se
noi per primi resistessimo all’opera devastatrice e trasformatrice di questo
Regno, se chiudessimo il nostro essere all’invasione della grazia di Dio?”.[1]
Papa Paolo VI sosteneva, che “il mondo non ha bisogno di maestri, ma di
testimoni e, se segue i maestri, è perché sono testimoni”, ma “i testimoni sono resi tali da colui che li
inabita”. Spalanchiamo le porte a Cristo ed Egli opererà la nostra
trasformazione. Non accontentiamoci più di essere solo sfiorati da Lui, ma
lasciamo che prenda stabilmente dimora dentro di noi. Potessimo dire un giorno
con san Paolo: “Non son più io che vivo,
ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Scrive Madeleine Delbrel: “La parola di Dio non la si porta in capo al
mondo in una valigetta: la si porta in sé, la si porta su di sé. Non la si
ripone in un angolo si se stessi, nella propria memoria, come ben sistemata sul
ripiano di un armadio. La si lascia
andare sino al fondo di sé, sino a quel cardine su cui fa perno tutto il nostro
essere. Non si può essere missionario senza aver fatto in sé questa accoglienza
franca, larga, cordiale alla Parola di Dio, al Vangelo. … Quando siamo così abitati da lei diventiamo
atti a essere missionari”.[2]
L’annuncio è urgente, per questo Gesù
invita i 72 a non fermarsi di casa in casa, di non salutare per strada; non
sono un invito alla maleducazione, ma a non perdere tempo in convenevoli. Come
non riconoscere che l’uomo d’oggi ha un bisogno spaventoso di persone capaci di
donare la bellezza del Cristo!
Il mondo ha bisogno di speranza, di gente
che come il profeta Isaia, annunci: “Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò …Voi lo vedrete
e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La
mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi” (Is 66, 13s).
Certo, Gesù non ci nasconde che dobbiamo
essere come “agnelli in mezzo ai lupi”,
il Vangelo tocca e combina troppi interessi umani; inevitabilmente dà fastidio
a qualcuno, che farà di tutto per ostacolarlo e metterlo a tacere. Il Signore
faccia di noi dei nuovi profeti, come Geremia, il quale, stanco di patire a
causa della Parola di Dio, gridò: «Non
penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!». Ma nel mio cuore c’era come
un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9).
mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9).
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