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In senso stretto, con Padri del deserto si intendono i più celebri anacoreti egiziani della fine del IV secolo che, abbandonate le regioni
fertili e popolate della valle o del delta del Nilo, si addentrarono nel
deserto.
Molto presto alcuni di loro si distinsero per la loro santità e
attrassero molti imitatori e discepoli che li consideravano loro padri. Accanto
a quella dei Vescovi, nei raggruppamenti monastici si farà strada una nuova
paternità spirituale, legata non a una funzione gerarchica nella Chiesa, ma a
doni eccezionali di sapienza e di parola. I nuovi arrivati nel deserto si
mettono alla scuola di un anziano che chiamano “abba”, cioè il loro padre in
Dio.
I Padri del deserto sono questi anziani che dirigono gli altri
anacoreti. Il titolo si trova negli scritti dell’inizio del V secolo.
Nel
secolo successivo, presso i monaci del deserto di Giuda indicherà ugualmente
gli anziani degli ambienti eremitici del Basso Egitto, ben conosciuti allora in
Palestina attraverso le raccolte di apoftegmi (‘detti’). Nell’Alto Egitto
Pacomio, il fondatore del cenobitismo, e i suoi successori saranno anch’essi
chiamati Padri, ma non “Padri del deserto” poiché le loro comunità non erano
situate in pieno deserto, bensì nelle vicinanze dei villaggi della valle del
Nilo.
Questi abba ci hanno lasciato gli apoftegmi. Questo termine è il solo che
esprima il carattere proprio di questi testi. Non sono parole campate in aria
né sentenze scritte né belle storie, ma parole che prima di tutto sono state
pronunciate in circostanze precise, sempre con uno scopo di edificazione, in
relazione alla vita vissuta dagli anacoreti nel deserto. Sono dei frammenti,
degli spaccati di vita o come dei flash sull’esistenza di questi anacoreti.
Ecco perché le raccolte di queste parole spesso sono state intitolate “Vite dei
Padri”. Varie sono le fonti sui Padri del deserto. Tra queste la Vita di
Antonio, scritta da sant’Atanasio (356); la Vita di Paolo di Tebe
e la Vita di Ilarione, scritte da san Girolamo; la Storia lausiaca,
scritta da Palladio; la Storia dei monaci, racconto di un viaggio di
un gruppo di monaci palestinesi; le Istituzioni e le Conferenze
di san Giovanni Cassiano.
È certo che, già durante la loro esistenza, questi eroi dell’ascesi e delle
virtù erano circondati da un alone di meraviglioso. Ma se li collochiamo nel
loro quadro storico e geografico e li guardiamo vivere nella solitudine delle
loro celle o nei loro rapporti con gli altri, scopriamo degli uomini vicini ai
loro simili, di allora e di oggi, più di quando immagineremmo.
La vita interiore dell’anacoreta
L’anacoreta trascorreva tutta la giornata – e la notte – nel lavoro e nella
preghiera, salvo il tempo strettamente necessario dedicato al nutrimento del
corpo e al sonno. Ma tutto questo non è la cosa principale, è solo la punta
dell’iceberg. Anche ciò che gli anziani chiamavano la «meditazione» non era
l’orazione mentale moderna, ma faceva parte, come la preghiera vocale, delle
pratiche corporali, poiché si trattava di ripetere con le labbra, a voce più o
meno alta, le parole della Sacra Scrittura. L’essenziale dell’attività del
monaco del deserto era invisibile e non percepibile all’orecchio, poiché si
svolgeva nell’intimo del suo essere, era ciò che i Padri chiamavano attività
interiore o «attività segreta», e abbracciava l’insieme dei pensieri, dei
desideri, del volere, dei sentimenti, delle parole interiori che occupano lo
spirito e il cuore, vale a dire quel mondo che noi designiamo con l’espressione
«vita interiore». I Padri del deserto sono stati spesso dipinti come esseri
ritornati allo stato selvaggio, alla condizione dell’animale o della pianta,
esecutori meccanici del loro monotono lavoro e continuamente intenti a ripetere
in modo macchinale le loro invocazioni. Non è del tutto impossibile che ci sia
stato nel deserto qualche vegliardo che ha «vegetato» così per lunghi anni, ma
è più probabile che costoro non aspettassero tanto a lungo per ritornarsene nel
mondo. Se i Padri hanno potuto popolare il deserto e renderlo così fecondo, non
è solamente perché vi intrecciavano cesti mentre recitavano dei versetti di
salmi o altre parole della Sacra Scrittura, ma perché nello stesso tempo
avevano una profondità e intensità di vita spirituale che noi fatichiamo a
immaginare. Ciò che possiamo coglierne e dirne è ben poco in rapporto alla
realtà, perché gli anacoreti egiziani erano estremamente preoccupati di non
lasciar trasparire niente di ciò che avrebbe potuto attirare loro anche solo un
pochino di elogio o di fama. Si diceva che abba Poemen aveva l’abitudine di
fare tutto in segreto, ma questo era la pratica normale del deserto. I
Padri nascondevano il più possibile agli sguardi degli altri le loro osservanze
corporali e visibili. A maggior ragione si sforzavano di dissimulare la loro
vita segreta! Per fortuna non ci riuscivano completamente e loro malgrado
qualcosa traspariva attraverso le loro parole – o i loro silenzi – e, grazie
agli apoftegmi che ci sono giunti, possiamo averne qualche conoscenza .
Questa vita interiore non era una vita intellettuale, lo sforzo cioè di un
pensatore o di un filosofo, e neanche di un teologo. Le condizioni però privilegiate
di solitudine e di silenzio di cui beneficiava l’anacoreta nel deserto
favorivano molto l’attenzione, la riflessione e l’attività dello spirito,
cosicché, anche sul piano puramente umano, il pensiero dei Padri del deserto
poteva affinarsi e arricchirsi in modo eccezionale.
Un’opera una e molteplice
Come diceva uno dei Padri, «l’uomo deve necessariamente avere un’attività
nel suo intimo». Il monaco che va nel deserto per essere tutto per Dio, si
sforzerà di consacrare al Signore non solo i suoi atti esteriori, ma anche ogni
attività interiore. Arsenio diceva: «Lotta con tutta la tua forza perché la tua
attività interiore sia secondo Dio… o riguardante Dio», cioè non solamente
conforme alla volontà divina, ma orientata verso Dio, applicata a Dio. In altre
parole, l’uomo deve attendere costantemente all’opera di Dio. «L’ape, dovunque
vada, fa il miele; il monaco, ovunque si trovi, compie l’opera di Dio».
Non che sia riservata al monaco – Antonio parla della «grande attività
dell’uomo» di ogni uomo – il monaco fa di quest’opera tutta la sua vita.
Gli apoftegmi che ci parlano dell’attività interiore sono numerosissimi e anche
molto vari, nel senso che le descrizioni o definizioni che ne danno sono
abbastanza diverse le une dalle altre. L’attività interiore è infatti al tempo
stesso una e molteplice. Giovanni Colobos diceva: «I santi sono come un
giardino i cui alberi producono frutti diversi, anche se innaffiati dalla
stessa acqua. Di fatto, l’attività di un santo è di un tipo, quella di un altro
di un altro tipo, ma è un solo spirito che opera in tutti». Un altro
anziano affermava: «Il cuore della palma è uno, è bianco e racchiude tutta
l’attività della palma. Qualcosa di simile lo si trova anche nei giusti: il
loro cuore è unico e semplice, guarda solamente verso Dio». Ma ciascuno
dei Padri ha la sua personale maniera di considerare questa attività,
mettendone in risalto questo o quell’elemento secondo le proprie disposizioni o
quelle dell’interlocutore al quale si rivolge. Cercheremo quindi di raccogliere
e sintetizzare un po’ tutti questi elementi per farci un’idea esatta e per
quanto possibile completa della vita interiore dei Padri del deserto.
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