SS. TRINITA’
“Esiste
un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l"ignoranza” (Diogene Laerzio
citando Socrate, Vite dei filosofi).
“Noi
conosciamo la verità, non solamente con la ragione, ma anche con il cuore. … Ed
è … inutile o … ridicolo che la ragione chieda al cuore prove dei suoi
principi, per volervi dare il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il
cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa
dimostra, per volerle accettare”
(Blaise Pascal, Pensieri 479).
Per esperienza personale, sappiamo che, quando si ama qualcuno, si riescono a
vedere delle cose che, agli altri rimangono nascoste. “Al cuor non si comanda”,
afferma la sapienza popolare, ma possiamo anche aggiungere: “al cuor non si nasconde
nulla”. Ricordo come mia madre riuscisse “misteriosamente” a sapere di me delle
cose che apparentemente avrei dovuto
sapere solo io.
C’è anche una conoscenza per intuizione,
dal latino in – dentro e tuitus – guardare , indica la “conoscenza
diretta e immediata di una verità, che si manifesta allo spirito senza bisogno
di ricorrere al ragionamento” (Dizionario etimologico Treccani); è una
sorta di evidenza che si manifesta al nostro spirito, indipendentemente da ogni
nostra azione.
Esiste una conoscenza attraverso la coscienza.
Anche quando i ragionamenti sembrano darci ragione su ciò che abbiamo detto o
fatto, questa voce interiore grida più forte e ci mostra la verità. Dostoevskij
lo mostra in maniera straordinaria in “Delitto
e castigo”: “Raskòlnikov stette a giacere molto tempo nel letto. Di tanto in tanto
gli pareva di svegliarsi, e in quei
momenti si accorgeva che era già notte da un
pezzo, ma non gli veniva in mente di alzarsi. Infine notò che era già
chiaro come di giorno. Egli stava disteso sul divano bocconi , ancora
intormentito dal recente sopore. Giungevano fino a lui nettamente, dalla
strada, urla terribili e disperate che, però, egli sentiva ogni notte sotto le
sue finestre, dopo le due. Esse lo
risvegliarono anche allora: «Ah! Ecco già gli ubriachi che escono dalle bettole
– pensò – sono le due passate», e d’un tratto saltò su, come se qualcuno lo
avesse strappato dal divano. «Come! Già le due passate!» Sedette sul divano – e
allora ricordò tutto! Improvvisamente, in un solo istante ricordò tutto! Nel
primo momento credette d’impazzire. Un terribile freddo lo invase; ma il freddo
proveniva anche dalla febbre che già da un pezzo era cominciata durante il
sonno. Allora fu preso d’un tratto da tali brividi che per poco i suoi denti
non si misero a sbattere e tutto in lui sembrò vacillare”. Il cognome di Raskòlnikov è simbolico, deriva infatti da un verbo russo che
significa “dividere” e sottolinea il conflitto lacerante del protagonista che,
dopo avere architettato un furto nei confronti di una arcigna strozzina, compie
un duplice delitto e vive un drammatico
senso di colpa con la conseguente ansia di espiazione.
Si può conoscere poi per rivelazione, dal latino revelare composto di re- 'indietro' e velum 'velo', da cui togliere il velo, togliere ciò che nasconde. Prima
ancora di pensare a una rivelazione divina, sappiamo che ci sono rivelazioni da
parte di persone e ciò è fonte di
conoscenza quanto più la persona è affidabile. Ci sono alcuni la cui parola è
credibile e altri a cui non diamo peso, perché non credibili.
Vi ho detto tutte queste cose per
mostrare quando è falsa o, quantomeno limitata, la convinzione secondo la quale
sarebbe vero solo ciò che è dimostrato dalla ragione e dall’intelligenza umana.
Questo significa che non possiamo
accostarci alla Trinità - il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, lo stesso Dio
in tre persone -, con la sola intelligenza. Rileggiamo un breve racconto
duecentesco che ha per protagonista s. Agostino: “Un
giorno, sant’Agostino in riva al mare meditava sul mistero della Trinità,
volendolo comprendere con la forza della ragione. S’avvide allora di un bambino
che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito
dall'operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino
chiedendogli: «Che fai?» La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio
travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant'Agostino spiegò
pazientemente l’impossibilità dell’intento ma, il bambino fattosi serio,
replicò: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua
mente l'immensità del Mistero trinitario».
La
Trinità possiamo accoglierla innanzitutto perché ce l’ha rivelata Gesù stesso,
colui che è la Verità e che è fedele. La conosciamo solamente in una relazione
d’amore con Dio e non in un semplice approccio culturale o in una spiritualità
che non crea mai l’incontro con Lui. Solo in questo modo Egli potrà parlare al
nostro cuore e mostrarci con assoluta evidenza il Suo mistero. “L’ultimo
passo della ragione è il riconoscere che vi sono un’infinità di cose che la
sorpassano. Essa è proprio debole, se non giunge fino a conoscere questo”
(Blaise Pascal). Se la ragione umana è posta di fronte a realtà che la
superano, la fede permette di accedervi, ponendosi “al di
sopra, e non contro” la ragione.
La
fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza
verso la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo
il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché,
conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso
(Fide set ratio)
I
sarcofaghi degli inizi del cristianesimo illustrano visivamente questa
concezione – al cospetto della morte, di fronte alla quale la questione circa
il significato della vita si rende inevitabile. La figura di Cristo viene
interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella
del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si
intendeva una difficile disciplina accademica, come essa si presenta oggi. Il
filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l'arte essenziale: l'arte di
essere uomo in modo retto – l'arte di vivere e di morire. Certamente gli uomini
già da tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che andavano in giro
come filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le
loro parole si procuravano denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da
dire. Tanto più si cercava il vero filosofo che sapesse veramente indicare la
via della vita. Verso la fine del terzo secolo incontriamo per la prima volta a
Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro,
la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e
nell'altra il bastone da viandante, proprio del filosofo. Con questo suo
bastone Egli vince la morte; il Vangelo porta la verità che i filosofi
peregrinanti avevano cercato invano. In questa immagine, che poi per un lungo
periodo permaneva nell'arte dei sarcofaghi, si rende evidente ciò che le
persone colte come le semplici trovavano in Cristo: Egli ci dice chi in realtà
è l'uomo e che cosa egli deve fare per essere veramente uomo. Egli ci indica la
via e questa via è la verità.
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