Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

mercoledì 21 settembre 2011

Il Decalogo secondo Ravasi

Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» (Es 31,18).
È suggestiva questa immagine del dito divino che incide sulla pietra, quasi fosse un’epigrafe perenne, la sua parola. Essa s’incarna per eccellenza nelle ‘dieci parole’ o precetti -tale è appunto il significato del termine di origine greca Decalogo usato per indicarle- che la Bibbia offre in due redazioni segnate da lievi variazioni: una è nel cap.20 del libro dell’Esodo, mentre l’altra è nel cap.5 del Deuteronomio, il quinto libro dell’Antico Testamento.
«Ha spesso infastidito nella sequenza dei comandamenti decalogici il tono imperativo-negativo, da indice minaccioso puntato, e la proibizione incombente in quel continuo "Non fare", interrotto solo per i precetti del sabato e dell'onorare i genitori. In realtà, siamo in presenza di un espediente linguistico di matrice semitica volto a esaltare l'incisività "lapidaria" del comando e la sua totalità che non ammette scusanti, repliche ed eccezioni.
Ma il senso, sotto il gelo dell'imperativo vietante, è certamente anche positivo e creativo, come scopriremo nel nostro viaggio all’interno delle dieci parole.

I) Inizieremo col primo,
che è quasi l’architrave di tutta l’architettura spirituale del Decalogo. Esso si apre con una dichiarazione in cui il Signore si presenta come persona che proclama un ‘io’, ossia un’identità, e che agisce intervenendo nella storia:
«Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù».
Il Dio che entra in scena, parla e si rivela è, perciò, un liberatore ed è a questo primo suo atto, che precede ogni nostra azione, che dobbiamo dare una risposta di adesione.
Ecco, allora, l’impegno del primo comandamento, che nel testo biblico ha una formulazione ben più vasta del sintetico: «Non avrai altro dio fuori di me» usato dalla tradizione.
Tre, infatti sono le descrizioni del nostro impegno di fedeltà al Signore.
Innanzitutto dobbiamo riconoscere la sua unicità assoluta contro ogni tentazione politeistica. È quello che si definisce monoteismo affettivo: non si tratta tanto della dichiarazione di un monoteismo teorico (per altro di ardua espressione nel linguaggio concreto e simbolico orientale), quanto dell’ “avere un Dio a cui il cuore si abbandona totalmente”, come aveva giustamente commentato Lutero. Amare Dio con tutto il cuore, anima e forze.
C’è, poi, un’altra definizione del comandamento di taglio più "pastorale", ossia orientato verso scelte religiose concrete:
«Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù ...».
È il precetto che spazza via gli idoli e le immagini del Signore Dio d'Israele capaci di generare idolatria o magia. Jahweh, diversamente dagli altri dèi che eleggevano statue e simboli a strumenti della propria presenza efficace accanto all'uomo, non è riducibile a nessuna figura, non è imprigionabile in uno spazio, non è manipolabile in un oggetto. Egli è solo voce, parola, presenza personale e vivente ma non oggettivabile e definibile.

Il pensiero corre alla scena del vitello d’oro, che subito dopo è narrata dall’Esodo (cap. 32). In realtà essa rappresentava la tentazione di un popolo nomadico-agricolo di raffigurare la divinità, sorgente della vita, nell’immagine di un toro fecondo. L’appello del Decalogo è chiaro e tagliente: Dio non è riducibile a un oggetto o a un segno magico, la sua è una realtà infinita ed eterna che travalica spazio e tempo e, se proprio si vuole pensare a una sua immagine, c’è una sua creatura particolarmente amata: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Gn 1,27)
Ecco, infine, un’ultima formulazione del primo comandamento, di tipo cultico:
«Non ti prostrerai davanti agli idoli e non li servirai».
I due verbi indicano atti liturgici: in Israele non è ammesso alcun sincretismo religioso. L’atto di culto dev’essere riferito solo al Signore, come replicherà Cristo a Satana, che, mostrandogli il fascino del potere e del possesso, gli aveva suggerito di «prostrarsi e adorarlo» (Mt 4,9-10).
E a questo punto il comandamento ricorda che il Signore è «un Dio geloso», un simbolo vivace per evocare la passione divina nei confronti della sua creatura, libera nel respingerlo ma anche nella scelta di essere legata a lui da un nodo d’amore.
Il primo comandamento, il più ampio, è un forte appello alla purezza della fede nei confronti di un Dio vivo e personale, esigente ma anche amoroso, tant’è vero che, se ricorda il peccato punendolo «fino alla quarta generazione», perdona chi è pentito e svela il suo amore «fino alla millesima generazione», come è scritto nella pagina biblica del primo precetto.
Atto d'accusa contro ogni idolatria, contro ogni degenerazione religiosa e contro ogni superstizione, il primo comandamento è l'affermazione di un legame personale esclusivo d'amore tra Dio e il popolo. I precetti che seguiranno, allora, saranno rispettati non soltanto perché iscritti nella coscienza naturale dell'uomo (anche se questa è una realtà morale affermata da molte culture) ma in quanto volontà rivelata del Signore. Vengono accolti in ragione del vincolo d'alleanza tra il Signore e Israele, per fede e amore e non per ragione e filosofia.

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