Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

domenica 23 ottobre 2011

“Qual è il grande comandamento?”


XXX DOMENICA T.O.

     Uno di loro (dei farisei), un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova” (Mt 22,35).  E’ interessante che l’azione compiuta da quest’uomo di Dio, è la stessa operata da Satana nei confronti di Gesù: “Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1); la traduzione è diversa, ma il termine è lo stesso. In entrambi i casi chi parla al Signore, lo fa nell’illusione di poterlo portare fuori strada.

     Il nostro fariseo sta cercando di coinvolgere Gesù in una fredda questione di scuola di teologia. A quel tempo gli studiosi della Sacra Scrittura l’avevano vivisezionata e avevano riconosciuto in essa ben 613 comandamenti – 248 positivi (“farai”) e 365 negativi (“non farai”) -; un’ulteriore suddivisione era poi tra precetti lievi e gravi.
     Ascoltiamo cosa scrive san Francesco: “Dice l’apostolo: “La lettera uccide, lo spirito invece dà vita”. Sono morti a causa della lettera coloro che unicamente bramano sapere le sole parole, per essere ritenuti più sapienti in mezzo agli altri …”[1]. Satana vuole che la Parola di Dio sia per noi solo un fatto culturale, ma non che penetri nella terra fertile della nostra esistenza per generare frutto, invece, come scrive Madeleine Delbrel: “Il Vangelo … è fatto per diventare il libro della nostra vita. Non è fatto per essere compreso … Non è fatto per essere letto, ma per essere accolto dentro di noi. Ciascuna delle sue parole … sono come il lievito iniziale che attaccherà la nostra pasta e la farà fermentare in uno stile di vita nuovo”.[2]
     Gesù sventa il piano del fariseo; gli risponde, ma non sta al suo “gioco”.
     Qual è il grande comandamento?” (Mt 22,36), gli domanda. In realtà nella sua risposta Gesù fa riferimento a ciò che da secoli gli ebrei sapevano, infatti “amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” lo troviamo già nel Deuteronomio (6,5) e, “ Non ti vendicherai e non serberai rancore contri i figli del tuo popolo, ma amerai il prossimo tuo come te stesso” in Levitico (19,18); la grande novità sta nel fatto che questi due comandamenti, in realtà ne formano uno solo, così come una stessa moneta ha due facce.
     L’evangelista Giovanni nella sua prima lettera, fa una sintesi chiarissima: “ Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4,20s).
     La seconda parte del comandamento, noi cristiani l’abbiamo fatta nostra. Facciamo spesso tanta fatica a metterlo in pratica, ma non c’è dubbio che la comunità cristiana in questi oltre duemila anni ha saputo incarnare l’amore con una radicalità e costanza notevoli. Piuttosto, sembra essere entrato molto – troppo – in crisi, invece, la prima parte del comandamento: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente”, tanto che nel suo ultimissimo documento, papa Benedetto ha affermato che, “capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio”[3]. Sembra quasi che l’amore per Dio, il tempo dedicato a Lui e alle sue cose, sia tempo rubato all’uomo e che, ciò che conta è fare, agire. Non riusciamo più a percepire che, in realtà, più siamo in comunione con Dio e più diventiamo capaci di amare il prossimo, anche quello che non corrisponde ai nostri schemi, anche quello meno piacevole. Scrive una autore francese: “la mia vita interiore è la sorgente delle mie relazioni esteriori” (P. Ricoeur). Potremmo dire che l’amore per Dio e l’amore di Dio stanno all’amore per il prossimo, come una sorgente sta a un pozzo. Se il pozzo non è raggiunto dall’acqua che scaturisce dalla sorgente, è inutile, non dà nulla.
     Al di là del significato biblico dei termini “cuore, anima e mente” che, non corrisponde totalmente al significato che gli attribuiamo oggi, Gesù ci invita a metterci in relazione con Dio con tutto ciò che siamo, non con una parte di noi (la mente, piuttosto che le emozioni). Dio desidera un coinvolgimento totale della nostra persona, deve essere coinvolta l’intelligenza, le emozioni e anche il nostro corpo.
   Da questo rapporto consegue innanzitutto l’amore per se stessi, perché si impara a guadarsi con gli occhi di Dio. Davanti a Lui diventiamo consapevoli di essere un impasto di grandezza e miseria, di luce e di tenebra. Stare con Dio, ci fa riconciliare anche con noi stessi. Chi è riconciliato con se stesso, chi si sente amato e custodito, più facilmente dona ciò che ha ricevuto.
     Insegnami a riconoscere Signore i segni del tuo amore concreto e fedele; non permettermi di lasciarti relegato in cielo, perché se tu non entri nella mia quotidianità, io divento come un deserto, incapace di generare vita.


[1] Ammonizione VII – FF 156
[2] M. Delbrel, La gioia di credere, Gribaudi p. 29
[3] Benedetto XVI, Motu proprio “Porta fidei”, n. 2

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