Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

martedì 29 novembre 2011

La strada per Dachau dei cattolici tedeschi. Cronaca della persecuzione nazista, di Carlo Cardia [Chiese e nazismo]

Il totalitarismo non è mai neutrale verso le Chiese e la religione. Le blandisce e le controlla, le intimidisce e le perseguita, per ottenerne il sostegno, come ha fatto il nazismo. Oppure cerca di distruggerle come ha fatto il comunismo, ma sempre alternando persecuzioni e concessioni, cercando di corromperle dall’interno. In entrambi i totalitarismi le vittime finiscono per subire gli schizzi di fango dei persecutori. Per compromissioni, vere o presunte, per non aver resistito a sufficienza, per aver cercato di salvare il salvabile. Questo è forse il capitolo più triste che si apre dopo la notte totalitaria, e sembra non finire mai.


La storia dei rapporti tra hiese e nazismo inizia ancor prima dell’ascesa al potere di Hitler ed è fatta di conflitti, di illusioni e accomodamenti, di guerra aperta e di martirio, di una molteplicità di eventi che non si presta ad un giudizio univoco.
Le chiese protestanti sin dall’inizio si dividono di fronte al nazismo, alcune subiscono il tentativo di corruzione del nuovo regime fin sulla soglia dell’antisemitismo, altre reagiscono, come fa la “Chiesa confessante”, altre ancora scelgono una via mediana di silenzio. Oggi può sembrare incredibile, ma si è discusso a un certo momento se l’evento del nazionalsocialismo potesse iscriversi nel piano della salvezza divina e se la chiesa dovesse tener conto, oltre che della Bibbia, anche “dei nuovi atti compiuti da Dio nella rivoluzione nazionalsocialista”. Questo propone una organizzazione protestante, chiamata “Cristiano-tedeschi di Turingia” creata da due pastori nel 1927.

Hitler vuole inizialmente unificare le chiese evangeliche sotto la guida del “vescovo del Reich”, il fanatico filonazista Otto Müller, che le organizza gerarchicamente secondo il Führerprinzip. Dietro i fumi ideologici sta il tentativo di inglobare il nazismo e il germanesimo nella storia cristiana oppure, secondo il punto di vista, di assorbire il cristianesimo nel pangermanesimo paganeggiante. E c’è qualche compromissione più grave, perché nel settembre 1933 il sinodo generale dell’Unione prussiana delle chiese evangeliche delibera che non possono accedere alla carriera ecclesiastica i non ariani, o uomini coniugati con donne di origine non ariana (W. Benz, “Il razzismo antiebraico nel regime nazista”, in “Lager, totalitarismo, modernità”, Milano 2002, p. 16).

Müller non riesce a creare una organizzazione unitaria stabile del protestantesimo, anche perché un forte gruppo di dissidente, guidati da Martin Niemoller e dal giovane Dietrich Bonhoeffer dà vita alla “Chiesa confessante”, e alla fine le chiese evangeliche si dividono in tre gruppi. Quello guidato da Otto Müller, sempre più screditato, la Chiesa confessante nella quale maturano idee e uomini della resistenza al regime, e in mezzo la corrente principale che segue una linea di autonomia e insieme di cooperazione. La Chiesa confessante propone una linea di opposizione religiosa e nella Dichiarazione teologica di Barman del maggio 1934 afferma tra l’altro: “Respingiamo la falsa dottrina secondo cui la Chiesa, accanto e oltre quest’unica parola (di Gesù Cristo), potrebbe e dovrebbe riconoscere, come fonte della sua predicazione, anche altri eventi e forze, figure e verità, in quanto rivelazione di Dio; respingiamo la falsa dottrina secondo cui ci sarebbero settori della nostra vita nei quali noi non apparterremmo a Gesù Cristo ma ad altri signori”.

Neanche la Chiesa confessante riesce a mantenersi unita, a causa delle pressioni naziste sui singoli pastori, e per il consenso che il regime ottiene dopo i primi successi interni e internazionali. Nel 1938 la maggioranza dei suoi pastori firma una dichiarazione di lealtà al Führer. Karl Barth riconosce, dopo la guerra che “un grosso limite della Chiesa confessante fu di non aver saputo solidarizzare come Chiesa con gli ebrei votati allo sterminio, e di non aver denunciato e sconfessato - a esempio nella Dichiarazione di Barman – l’antisemitismo e il razzismo, che di lì a poco avrebbero avuto gli effetti devastanti che tutti conosciamo” (P. Ricca, “Le chiese protestanti”, in “Storia del cristianesimo”, Bari 1997, p. 115).

Ma l’atteggiamento dei protestanti verso il regime non si esaurisce nelle posizioni ufficiali delle chiese. Già prima della guerra si hanno arresti e deportazioni, come quello del pastore Paul Schneider assassinato a Buchenwald. Un caso singolare è quello del pastore Niemöller, arrestato il 1° luglio 1937 per la sua predicazione antinazista ma condannato dal tribunale a pena lieve. Scontata la pena, è arrestato per ordine di Hitler e inviato come “prigioniero personale del Führer” nel campo di concentramento di Sachsenhausen da dove viene liberato miracolosamente nell’aprile del 1945. Più conosciuta la resistenza che, in campo religioso e politico, fa il teologo Dietrich Bonhoeffer. Arrestato il 5 aprile 1943 per disfattismo (in realtà per continua predicazione contro il nazismo), è impiccato l’8 aprile 1945 a Flossenbürg dopo che Hitler ordina di liquidare tutti gli oppositori che si trovano internati. Ma nei campi di concentramento sono deportati centinaia di pastori ed esponenti protestanti per attività contro il regime.
Più complesso, ma con alcune analogie, il rapporto tra cattolicesimo e nazismo, che segue una linea spezzata più drammatica. Verso la Chiesa cattolica, istituzionalmente compatta, non avrebbe senso alcun tentativo di divisione o di scisma. Anzi, nell’agosto del 1932, la Conferenza episcopale tedesca riunita a Fulda dichiara illecita per i cattolici l’appartenenza al partito nazista.

Ma questa linea si sfalda già nel marzo del 1933 quando Hitler sta per vincere le elezioni politiche che porteranno alla liquidazione del regime democratico. E si estingue pochi mesi dopo quando viene concluso il Concordato con il Reich, di cui un Hitler “raggiante” può dare l’annuncio nel Consiglio dei ministri del 14 luglio. Il Concordato del 1933 serve a Hitler per uno scopo fondamentale, far fuori i cattolici dalla vita politica, e rinchiudere il clero in una dimensione soltanto pastorale. La Chiesa ottiene molto poco dal Concordato, tranne la salvaguardia delle proprie organizzazioni. Ma solo in parte, perché il rapporto con il regime diviene presto di conflitto continuo. Si susseguono le condanne dei vescovi tedeschi, e del S. Ufficio, verso la deriva pagana e statocratica del nazismo, alle quali si contrappongono truculente risposte dei dirigente nazisti, in particolare di Alfred Rosenberg che irride alla debolezza e all’umanità del cristianesimo.

Dietro le condanne cattoliche e le dichiarazioni naziste è la realtà di un regime che militarizza la società, che chiude centinaia di scuole confessionali, controlla l’insegnamento religioso e la predicazione di vescovi e preti, rende obbligatoria nel 1936 l’iscrizione dei giovani alla Hitlerjugend con tutte le conseguenze che questa comporta.

Questa è una delle ragioni che limitano l’azione delle chiese tedesche, evangeliche e cattolica. Le quali si trovano pressate dai successi nazionalistici di Hitler, e assistono al dilagare del nazismo in tutti gli spazi sociali, a cominciare dall’educazione dei giovani, che vengono ingabbiati in strutture ed organizzazioni ispirate ai miti della forza e di un fumoso paganesimo. Il limite, se così si può dire, che frena le chiese, è quello di voler lottare soltanto per difendere sé stesse secondo i vecchi schemi dei rapporti istituzionali. Di non guardare oltre i propri confini, di non guardare agli altri.
Però la Chiesa cattolica non ignora gli altri, e sfiora il conflitto totale con il regime quando Pio XI firma il 14 marzo 1937 l’enciclica “Mit Brennender Sorge” con la quale condanna la sostanza più intima del regime nazionalsocialista: “Chi eleva la razza, il popolo o una determinata sua forma, i rappresentanti del potere statale od altri elementi fondamentali della società umana a norma suprema di tutto, anche dei valori religiosi, perverte e falsa l’ordine delle cose create e volute da Dio”. Pio XI usa un tono quasi apocalittico quando denuncia “i nemici di Cristo, di ciò siamo sicuri, che vaneggiano sulla scomparsa della Chiesa”.
E quando prevede che “verrà il giorno in cui invece dei prematuri inni di trionfo dei nemici di Cristo, si eleverà al cielo dai cuori e dalle labbra dei fedeli il Te Deum: un Te Deum di ringraziamento all’Altissimo, un Te Deum di giubilo, perché il popolo tedesco, anche nei suoi membri erranti (…) piegherà di nuovo il ginocchio dinanzi al Re del tempo e dell’eternità”.
La rottura con il nazismo è confermata da Pio XI il quale sceglie di ritirarsi a Castel Gandolfo quando, nel maggio 1938, Hitler quasi all’apogeo della potenza e dell’alleanza con il fascismo italiano, viene in visita a Roma. Il Papa non vuole incontrarsi con lui, anche perché non vuole vedere Roma profanata da “un’altra croce (la svastica) che non è quella di Cristo”. Nell’Osservatore Romano del 2-3 maggio, si può leggere: “il Santo Padre non si è recato a Castel Gandolfo per piccola diplomazia, ma semplicemente perché l’aria di Castel Gandolfo gli fa bene, mentre questa gli fa male”.

Quando si comincia a entrare nel tunnel della guerra, e delle infinite guerre scatenate da Hitler, tutto diventa più difficile per le chiese per ragioni che non sempre sono comprese da chi guarda le cose dall’esterno. Per il fatto che il nazismo (come il fascismo) si presenta come baluardo contro il bolscevismo, e tocca una corda sensibile per protestanti e cattolici. E perché l’ondata patriottica che si scatena, come in tutte le guerre, frena ogni resistenza che verrebbe spazzata via con ogni brutalità.
Anche nella Chiesa cattolica si confrontano due linee, che attraversano trasversalmente l’episcopato. Quella più moderata che fa capo al cardinale Adolf Bertram, presidente della Conferenza episcopale, che segue la strada delle proteste ufficiali soltanto per ciò che riguarda i diritti della Chiesa e la sua indipendenza; e che è sostenuta dal nunzio Cesare Orsenigo, figura non splendida della diplomazia pontificia. E quella più coraggiosa, che fa capo a Konrad von Preysing, vescovo di Berlino, e a Clemens von Galen, vescovo di Münster, che interviene su questioni relative ai diritti umani anche al di là della comunità cattolica.

Nel 1941, con due omelie del 13 luglio e del 7 agosto, Galen condanna apertamente lo sterminio di minorati psichici e fisici, che avviene da tempo in Germania sulla base del programma “eutanasiaco” stabilito da Hitler. L’effetto sull’opinione pubblica è molto forte, e il programma si ferma, per la protesta di Galen e per quella di esponenti protestanti. Sempre nel 1941, Preysing, Galen, e altri vescovi, preparano un documento di condanna di diversi aspetti del nazismo, tra i quali la deportazione senza processo in campi di concentramento di migliaia di uomini e donne, e chiedono che venga approvato e reso pubblico dalla Conferenza episcopale. La richiesta non ottiene il consenso del presidente della Conferenza Bertram.
Anche per i cattolici, come per i protestanti, non si contano i sacerdoti che agiscono come veri resistenti al regime, e finiscono internati e giustiziati. Max Josef Metzger, arrestato nel 1943 è condannato a morte per la sua attività di pacifista e per aver avuto contatti “sediziosi” con il vescovo di Uppsala in Svezia. Il gesuita Hermann Wehrle si sente domandare nel dicembre del 1943 da un ufficiale dello stato maggiore di Stauffenberg se l’essere a conoscenza di un piano per uccidere Hitler costituisca peccato. Wehrle risponde di no, ma dopo l’attentato ad Hitler del 20 luglio 1944 si viene a sapere dell’episodio ed il cappellano è condannato a morte per complicità (G. Lewy, “I nazisti e la Chiesa”, Milano 2002, p. 453-4). I gesuiti Augustinus Rosch e Alfred Delp appartengono al circolo di Kreisau, un gruppo di cospiratori sotto la guida del conte Helmuth von Molte. Dopo l’attentato del 20 luglio Delp viene arrestato e impiccato il 2 febbraio 1945. Poi, ci sono i nomi di grandi santi, tedeschi o no, internati e morti nei lager, Massimiliano Kolbe, Titus Brandsma, Edith Stein, i quali insieme a migliaia di sacerdoti scomparsi nei vari campi di sterminio infoltiscono la schiera dei resistenti cattolici.

In Germania, un posto d’onore spetta al prevosto di Berlino, Bernhard Lichtenberg, perché il giorno dopo la “notte dei cristalli”, mentre tutti tacciono, prega pubblicamente e dice: “Sappiamo quel che è avvenuto ieri, ma non sappiamo che cosa avverrà domani. Siamo testimoni di quanto avviene oggi; fuori (da questa chiesa) brucia la sinagoga, e anche la sinagoga è una casa di Dio”. Arrestato e condannato per abuso dal pulpito, Lichtenberg è nuovamente fermato dalla Gestapo e mandato a Dachau, ma muore nel viaggio prima di giungervi il 5 novembre 1943.
Dentro questo scenario di conflitto e di connivenza tra nazismo e chiese è la tragedia dello sterminio degli ebrei. Che non può essere trattato qui, perché si porta dietro ricerche storiografiche e polemiche infinite. Ma che non può essere nemmeno taciuto perché chiama in causa protestanti e cattolici in egual misura. Non si conoscevano nei dettagli i piani dello sterminio, e nemmeno i suoi effetti che appaiono in tutta la loro mostruosità dopo l’apertura dei campi. Ma nelle linee generali, e in tanti punti di attuazione, il programma nazista e le deportazioni di ebrei da ogni paese erano conosciuti. Su questo non c’è più ombra di dubbio.

Sono noti gli interventi di tante personalità, protestanti e cattoliche, per proteggere ebrei, e non ebrei, un po’ dovunque. È noto l’imponente programma umanitario posto in essere dalla chiesa cattolica, approvato, incoraggiato, spesso guidato personalmente da Pio XII, per salvare ebrei in tutti i paesi d’Europa, e il ruolo svolto da Angelo Roncalli dalla sua postazione di Istanbul. Sono conosciute le condanne di carattere generale espresse dallo stesso Pio XII come quella del radiomessaggio natalizio del 1942 nel quale il Papa ricorda “le centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento”. Questa scelta è riassunta e difesa dallo stesso Pio XII nella Let. Ap.. “Sacro vigente anno” del 7 luglio 1952: “certamente abbiamo riprovato, come si doveva, qualsiasi iniquità e qualsiasi violazione di diritto, ma ciò facemmo in maniera da evitare con ogni diligenza tutto ciò che poteva divenire, sebbene ingiustamente, cagione di maggiori afflizioni per i popoli oppressi”.

Tutto ciò è noto. Però, quale sia la misura del giusto e del sufficiente in ciò che si è fatto non è dato sapere. Oggi è utopia chiedersi: e se cattolici e protestanti si fossero uniti insieme nella denuncia pubblica del martirio ebraico in Europa? Lasciamo, con il pensiero, che l’utopia penetri per un attimo nel passato. Con il pensiero si può forse dire che se Dio ha taciuto è anche perché molti uomini hanno parlato poco.
Ho sempre creduto, però, che dalla tragedia nazista sarebbe maturato almeno un risultato. Mai più il sostegno a un dittatore, o a un regime totalitario, mai più connivenze o complicità, da parte di nessuno. Ci ho creduto, e ci credo ancora. Però, dopo, ho visto che tanti alteri critici delle chiese, nella bufera nazista, di fronte ad altri totalitarismi, come quelli di Stalin o di Pol Pot, di Mao Tse-Tung o di Saddam Hussein, o nel Sudan, e di fronte ai loro stermini – di cui tutti sapevano e sanno tutto – utilizzano sottilissime argomentazioni ideologiche o storicistiche, per giustificare il proprio silenzio o la propria connivenza con il dittatore di turno. Credo ancora a quel “mai più”. Ma ho perso fiducia che si realizzi presto, e sono più attento alle denunce facili.

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