Sono giornalista da vent’anni, ho tre figli ancora piccoli, e dunque il mio intervento è a metà tra queste due posizioni: giornalista, e madre.
Comincio da un esempio concreto: il 12 settembre, il giorno dopo
l’attentato a Manhattan, ho accompagnato a scuola mio figlio di nove
anni e l’ho sentito discorrere coi suoi compagni di quello che aveva
visto. E mi ha ferito nel sentire un’ombra di eccitazione nel
raccontare: – “Hai visto l’aereo cosa ha fatto? L’ha colpita… è
crollata!” – che mi ha turbato molto.
Allora, quando sono tornata a casa, l’ho preso da parte, quasi per la
collottola e gli ho detto: “Guarda che dentro quei grattacieli c’era
gente che si affannava per scappare, c’erano delle madri che non sono
tornate più dai loro figli. Tu hai visto una cosa straordinaria, che
forse sembrava un film, ma non hai visto molte altre cose che la Tv non
ti poteva fare vedere”. Lui mi ha guardata in silenzio, colpito, perché
la televisione, in tempo reale, gli aveva mostrato tutto, non poteva
mostrargli di più, però non gli aveva mostrato i pensieri e
l’angoscia di quelle migliaia di persone che dentro correvano e
scappavano pensando ai loro figli e telefonavano al marito “Ti amo”…
“Non ti vedrò mai più”.
Questo mi ha confermato un limite dei media, soprattutto della televisione, e cioè di farci vedere “tutto”, ma non poter farci vedere quello che non può essere mostrato. È il contrario della tradizione orale.
Mio padre è stato in Russia, è uno di quelli che son tornati
dalla Russia con la Julia e mi ha raccontato pochissimo, però quel poco
era tutto incentrato sul suo vissuto interiore personale: “Volevo
tornare per vedere mia madre… avevo paura… avevo freddo… lottavo per
conquistarmi un posto in un’isba e scampare alla notte…” . Per cui quel
pochissimo che mio padre mi ha detto mi è stato trasmesso in maniera
fortemente interiorizzata. Io non ho mai visto riprese, che non
c’erano, e solo poche foto in bianco e nero della ritirata di Russia,
però quello che me ne è rimasto è estremamente profondo, tanto quanto,
secondo me, è esteriore quello che è rimasto a mio figlio che ha visto
semplicemente, in tempo reale, il crollo delle torri in Tv.
Questo mi fa pensare che una conseguenza possibile sui nostri figli,
esposti a una continua informazione televisiva, sia quella di vedere
“tutto”, ma non necessariamente in maniera partecipe e profonda, vedere
come degli spettatori affacciati al balcone, e non avvertire il dolore, la sofferenza, l’anima vera di chi è coinvolto.
Nei testi universitari di criminologia c’è una categoria di criminali che si chiamano “delinquenti per mancanza di immedesimazione”.
Sono persone che fanno del male in quanto hanno la patologica
incapacità di immedesimarsi nella sofferenza della vittima. Allora,
questa è una categoria criminologica estrema, però mi chiedo se il
continuare a vedere delle cronache, della violenza e del male, solo in
maniera esteriore, senza esserne partecipi, non possa indurre questa
sorta di estraneità per cui vedi il male e puoi anche farlo in quanto
non hai capito che cosa avviene oltre ciò che vedi.
C’è un famoso sociologo americano, Meyrowitz, che ha detto che da trent’anni l’umanità subisce una mutazione antropologica. Mentre
una volta i bambini venivano cresciuti dalle mamme, le ragazzini
crescevano con le sorelle più grandi o con le donne, gli uomini stavano
con gli uomini; ciascuno aveva un ambito di educazione suo, in cui si sviluppava; da trent’anni invece c’è questa “madre globale” che è la Tv, che insegna a tutti le stesse cose, superando ogni barriera.
Meyrowitz parla di una mutazione, non dice che è né buona né cattiva,
però è una mutazione. Per la prima volta l’uomo viene educato in
maniera totalmente diversa. È un po’ una sorta di globalizzazione dell’educazione: non ci sono più aree mirate, ma una cosa omogenea estesa a tutti.
Credo che trent’anni fa, quando Pasolini diceva che la Tv sarebbe stata “un trattore sulle coscienze degli italiani”, forse profeticamente pensasse a questo passaggio di un mezzo pesante che ci allinea tutti.
E non parlo tanto di violenza, né di sesso. Io, lavorando in
un giornale cattolico, mi rammarico quando vedo che le reazioni di molte
famiglie si registrano solo di fronte a qualche spettacolo scandaloso o
scabroso, quasi che quello fosse il male e tutto il resto… pazienza.
Invece quella è la punta di un iceberg. Secondo me, l’eventuale danno
di una superesposizione televisiva non è quello di assistere a una scena
con delle donne nude, è una cosa molto maggiore, molto più profonda, è
un intervenire nel sentire comune della gente. Il nostro sentire comune
viene profondamente modificato, senza che spesso ce ne accorgiamo.
Un esempio: vent’anni fa Miss Italia era un concorso in via di decadenza che le femministe giustamente prendevano in giro,
e nessuna ragazza con un minimo di sale nel cervello avrebbe pensato
seriamente di poter andare a sfilare in costume davanti a dei giudici.
Questo vent’anni fa. Dopodiché, alcuni anni fa, la Rai ha cominciato
[...] a fare ampie trasmissioni sul concorso; ore, ore e ore, le
controfinali, le semifinali, le sottofinali, per cui quel concorso che
era moribondo, che era roba da medioevo, vecchia e ridicola, è diventato
televisione. Con la promessa, adesso, di raddoppiare, di mandare alcune
vincitrici a fare soap operas.
Così è diventato un richiamo colossale e l’ideale di molte ragazzine è
quindi di andare a Miss Italia, cosa che altrimenti non si sarebbero
sognate. Le loro madri sognavano un buon matrimonio e la Cinquecento. Il
cambiamento, la metamorfosi, c’è stato: un recente sondaggio, di cui
hanno scritto i giornali, dice che quasi la metà delle madri
italiane sogna che il proprio figlio abbia successo, più ancora che sia
felice: e identifica il successo con il comparire in Tv, quindi la metamorfosi è già avvenuta.
C’è un famoso studioso della comunicazione, Gianfranco Bettetini, che in
un bel libro, “Quel che resta dei media”, ha posto una domanda
provocatoria e interessante della società: “I media ci raccontano la
realtà, o la alterano? Sono uno specchio fedele, oppure deformante?”.
Ed è una domanda che io, da madre e da giornalista, mi faccio spesso quando guardo la televisione. Penso che la TV abbia effettivamente un potere di alterare molto forte, in parte nemmeno del tutto colpevole negli stessi operatori. Per esempio, la
categoria giornalistica è mediamente più benestante, più liberal, più
consumista, più aperta alla modernità rispetto all’italiano medio, per cui produce una “cultura” a sua immagine e somiglianza .
Però c’è anche a volte un disegno, secondo me, non così
inconscio. Quando vedo certi talk show sulle verità familiari, sui
segreti familiari messi in piazza, mi chiedo se non c’è una volontà di
catechizzare, di liberarci del nostro vecchio, oscuro residuo
di cattolicesimo, se non c’è proprio un intento “pedagogico”, in un
certo tipo di trasmissioni.
Concludo. A fronte di queste cose, come avete capito, io non amo la
televisione, la guardo il meno possibile. La tentazione di difendersi è
forte, la tentazione del giardino dei Finzi Contini, di chiudersi nel
proprio giardino e di dire “arrivederci, noi stiamo qua chiusi e
tranquilli”. Però, nel giardino dei Finzi Contini va a finire molto
male. Il mondo preme ai nostri confini, non siamo un’isola; i
nostri figli se anche non facessimo vedere loro la Tv – cosa
impossibile – avrebbero amici e insegnanti che sono esposti comunque. Quindi il problema è molto più complesso.
Tra l’altro io trovo pericolosissimo proibire la Tv ai bambini perché
vedo i figli di certi miei amici integralisti che non possono vedere la
Tv: arrivano a casa nostra a giocare e si buttano davanti al video come
gli assetati in un’oasi nel deserto. Questa proibizione ha reso ai loro occhi terribilmente attraente questa cosa, che in sé non lo sarebbe tanto.
Anzi io sono tentata da un’ipotesi paradossale: lasciare tanto accesa
la TV, che i bambini si abituino a guardarla come una vecchia zia, che
parla, parla e nessuno sta ad ascoltarla.
Però, secondo me, la vera difesa [...] è una difesa interiore, cioè è un essere presente, guardare e giudicare. Giudicare
non blandamente, non nel modo “politicamente corretto”: giudicare con
durezza e con nettezza, dire anche una parola forte, dire “questa è
un’idiozia, non ci credere, questa è una balla”, arrabbiarsi,
essere netti. Magari sbagliando, però, almeno offri a tuo figlio
qualcosa su cui può confrontarsi. Può dire “sono d’accordo con te”,
oppure no. Ci sei, non sei un fantasma.
L’ultima cosa che voglio dire nasce, anche questa, da un’esperienza
familiare: quest’estate in campagna, la televisione è rimasta sempre
spenta, e non per mio intervento. I miei figli avevano scoperto la
bellezza di costruirsi una casa con dei vecchi mattoni, con delle
vecchie assi. E quando io, siccome pioveva a dirotto e questi
erano bagnati fradici, ho detto “per favore, accendete la televisione,
guardate un cartone”, mi hanno risposto: “Ma, mamma, abbiamo una cosa
importante da fare!”.
Allora m’hanno insegnato una cosa, quando un bambino, un
uomo, ha un impegno serio, qualcosa che gli piace veramente, che lo
appassiona, è meno permeabile alla suggestione della televisione.
Allora rientra in campo il problema di cosa siamo noi, e che idea
abbiamo del tempo e per cosa lo vogliamo spendere. Vi ringrazio.
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