L'unico quotidiano che ha dato risalto a questa notizia è Avvenire
Dopo cinquanta giorni di sciopero della fame è morto ieri a Santiago di Cuba il dissidente Willar Vilma, membro del gruppo Unión Patriótica Cubana,
arrestato lo scorso novembre e condannato a quattro anni di reclusione
per il rifiuto di rinnegare il movimento. La sua è una storia di
ordinaria disperazione, quella di un povero diavolo (un «delinquente
comune», secondo il regime) costretto dalla povertà più che
dall’ideologia a entrare nel movimento di protesta dalla porta di
servizio, lontano dai pur pochi riflettori concessi ai dissidenti di
maggiore notorietà e del calibro di Guillermo Farinas od Orlando Zapata
Tamajo, morto dopo 85 giorni di digiuno due anni fa, e tuttavia a essi
legato dalla medesima sorte. Ma la triste fine del trentunenne
Vilma – ultimo anello di una catena che tante volte (ma non tutte,
purtroppo) la mediazione della Chiesa cattolica è riuscita a rendere
meno spietata – non rappresenta altro che l’ennesimo atto di accusa nei
confronti del regime cubano, delle sue ripugnanti cosmesi sociali, del
sanguinario teatro d’ombre che costruisce attorno a simulacri di
libertà, di liberalizzazioni, di modernità allo scopo di sfuggire alla
propria fine inesorabile.Il tempo sembra essersi fermato a Cuba
da quel 1° agosto 2006, quando Fidel Castro – la cui malattia pareva
doverlo condurre di lì a poco alla morte – cedette i poteri al fratello
Raúl. Un tempo immobile, sinistramente profetizzato quasi quarant’anni
fa da Gabriel García Márquez nel romanzo L’autunno del patriarca,
in cui il ritratto della corrotta solitudine del potere in agonia,
dell’arbitrio capriccioso, della mistificazione e della farsa grottesca
di una democrazia che non esiste e non esisterà mai si attaglia
perfettamente alla Cuba di oggi, dominata da due fratelli
pluriottantenni il cui solo cruccio sembra essere la conservazione del
proprio potere nell’estenuato crepuscolo che la vita ancora concede
loro. Sotto questo manto di piombo la isla de la felicidad, la sucursal del cielo
– così si canta e si dipinge la bella e orgogliosa l’isola caraibica –
rimane quello che è purtroppo sempre stata: un grande carcere a cielo
aperto, dove tutto è vietato e nulla è permesso, dove crollano le case
fatiscenti che il socialismo reale non ha provveduto a mettere in
sicurezza e anche il navigare su internet è limitato dall’occhiuta
sorveglianza satellitare donata a Castro dalla Cina, dove in ossequio a
una sghemba frenesia di modernizzazione si schiudono le porte ai
matrimoni gay ma si aprono regolarmente anche quelle delle carceri, ora
per rilasciare duemila detenuti dissidenti (in onore della visita papale
di marzo, si ama dire), ora per ospitarne altre decine, ma solo per
pochi giorni, tanto perché sappiano che il regime è severo ma umano,
talmente umano da serrare le frontiere per scongiurare il pericolo che i
cubani fuggano all’estero e i gringos malvagi, gli yanqui (ossia gli americani) tornino a far man bassa delle ricchezze di un’isola che si colloca fra i Paesi più poveri del mondo. «Esta noche no hay quien pueda dormir» (stanotte non si potrà dormire), scrive Yoani Sanchez, la "blogger" il cui sito Generación Y
è fumo negli occhi per il regime e che i cubani non hanno il diritto di
visitare. Un regime che a dispetto delle illusioni che si erano create
all’epoca del ritiro di Fidel Castro dalle cariche politiche non ha
affatto cambiato pelle e soprattutto non sta preparandosi al futuro:
della giovane classe dirigente che avrebbe potuto gestire la transizione
verso la democrazia non è rimasto nessuno in grado di prendere le
redini del Paese. Ma quanti ancora dovranno morire nelle carceri cubane
prima che sul fatiscente spettacolo della decomposizione di un regime
scenda provvidenziale il sipario della Storia?
Giorgio Ferrari
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