Meglio una fede vivente che una fede coerente ma
morta. Diceva così un mio amico. Per questo non c’è niente di strano
nel fatto che ancora una volta si discuta, si cerchi di capire, si
esibiscano debolezze dei cristiani. Il fatto è che siamo vivi. Presenti.
Facciamo discutere. Facciamo pensare. E arrabbiare. E sperare. Non siamo una cosa «scontata» insomma. Noi, quelli che si dicono cristiani. Non che si dicono migliori. Non siamo scontati nemmeno noi a noi stessi.
Il cristiano non sa cosa è il cristianesimo. Lo impara seguendo Qualcuno, oggi. Siamo
quelli che se vedono il Dio Nazareno inchiodato alla croce sentono il
cuore tremare. E che guardano le persone come un infinito abisso che
solo il Suo Abisso può colmare. Quelli che hanno la
Resurrezione come una gioia dura negli occhi, una letizia nella penombra
dei giorni, come un sospiro. Quelli che parlano di peccato, come ha
fatto don Carron anche in pubblico (e la domenica battendo il proprio e
non l’altrui petto) perché siamo realisti.
Essere cristiani non è un merito. È una grazia. Una specie di fortuna, un incontro che da duemila anni prosegue.
Come all’inizio dell’avventura del Nazareno. I cristiani lo sanno che è
così. Chi parla del cristianesimo invece spesso, purtroppo, non lo sa.
Lo sanno quelli di Comunione e Liberazione che come capita spesso sono
al centro delle attenzione poiché vivaci (e chi li attacca non lo fa
certo per interesse al bene della loro anima). Ma lo sanno anche quelli
delle Acli a congresso fino a ieri, associazione storica con milioni di
tesserati che sta trovando nuove strade. E lo sanno anche coloro che
stanno animando un nuovo movimento «strano», OL3, nato da giovani della
generazione Wojtyla.
Ormai il cristianesimo per «tradizione» non esiste, era perlopiù perbenismo. Purtroppo
Gesù Cristo invece che essere testimoniato come eccezionale presenza
che rende cento volte più intensa la vita, è stato indicato a molti come
un vecchio suocero. Uno «contro» la vita. Lo aveva capito Arthur Rimbaud. Il cristianesimo non è un «suocerismo».
La fede non è un programma sociale o morale, né un disegno di
potere. Questi tramontano, la fede no. È commozione di un
riconoscimento: lo sai che ti amo, Signore. Su di noi fanno analisi
sociologica e politica. È ovvio che accada. Ma son destinate
sempre a fallire, e non solo per difetto degli analisti. Una fede
vivente scardina il principio di non contraddizione, che sta alla base
di ogni pretesa giusta analisi.
Siete chiusi, ci dicono, come Galli della Loggia (Corriere, 5 maggio
scorso). Siete troppo aperti, ci dicono contemporaneamente. Oppure:
dovreste fare un partito. E poi: state lontani dalla politica.
Accogliete tutti. E poi: state lontani da «prostitute e peccatori». Vogliono
che siamo o una cosa o l’altra. E invece siamo una cosa e anche
l’altra, e così diventano matti. Non capiscono e allora creano slogan,
schemi. Il cristianesimo si può solo raccontare, non comprendere con una analisi.
Da quando Dio è diventato anche uomo, è apparso sulla scena
della storia un protagonista religioso nuovo: che è buono e anche
peccatore, che sa cosa è la purezza e anche la macchia, che ha grano e loglio nello stesso campo del cuore. Uno che ha speranza di bene e vi tende anche se conosce il male. E che fa politica ma non è politica.
Dio ha scelto di non mostrarsi come idea o illuminazione morale, ma attraverso uomini vivi e non «nonostante» la loro vita. Grandi peccatori mi hanno testimoniato Dio.
Questa è la grandiosità carnale e spirituale, la faccia «scandalosa» e
meravigliosa del cristianesimo. Chiediamo solo questo a chi vuol davvero
capire la presenza della fede cristiana nella società di oggi: dite
quel che vi pare, ma trattateci da quel che siamo, uomini vivi.
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