Non è un paradosso trovare sullo stesso giornale una
pagina in cui si preannuncia una pubblicazione “in difesa dei
cristiani”, “contro i persecutori”, e poi nelle pagine successive
l’anticipazione di una pubblicazione utile ai persecutori e all’offesa
dei cristiani?
Succede al Corriere della Sera, tempio sacro del giornalismo, nell’inserto settimanale chiamato Sette.
Dove il copione della difesa è recitato da Alberto Melloni, che
presenta un testo di Tertulliano (“un’arringa contro i persecutori
dell’unico Dio”) che il 26 maggio sarà allegato con il medesimo Sette. Mentre l’offesa è interpretata da Gianluigi Nuzzi, giornalista di Libero e La7,
del quale si anticipano alcuni estratti di un secondo volume (dopo
“Vaticano Spa”) di lettere e dossier trafugati in Santa Sede da “persone
normali”, così le definisce l’autore, che a un certo punto del loro
lavoro in Vaticano hanno pensato bene di immaginare in cuor loro che
avrebbero reso un miglior servizio al Papa e alla Chiesa tutta,
mettendosi con scrupolo a trafugare e fotocopiare missive e dossier
arrivati in questi anni sulla scrivania del Pontefice e a imbucarli “in
caselle della posta” (come correttamente definisce il proprio mestiere
Gianluigi Nuzzi) allo scopo, sostengono gli anonimi trafugatori
clericali, di sostenere “l’azione di riforma avviata da Ratzinger”.
Dunque un’operazione di spionaggio e di delazione,
di corruzione e di travisamento di ogni elementare principio di fedeltà,
correttezza, lealtà, onestà, privacy, alla quale nemmeno il più infimo
dei funzionari dovrebbe mai prestare la propria collaborazione. Giacché,
come ogni funzionario sa, all’amministrazione per la quale si presta
servizio, sia essa laica o, come in questo caso, religiosa, si deve per
definizione (oltre che per contratto), fedeltà, correttezza, lealtà,
onestà, rispetto delle regole di riservatezza. Ma oggi, come non di rado
accade ormai in molte amministrazioni italiane, civili e non, sembra
sia sufficiente esibire una “buona intenzione” e il nobile intento di
“fare pulizia” per giustificare ogni abiezione. Niente di più grottesco e
ipocrita, naturalmente, come niente è più grottesco e ipocrita che
definire “giornalismo” il prestarsi a fare da buca delle lettere
trafugate e delatori altrui.
Ma il grottesco e l’ipocrita si sposano bene col
clima oggi dominante in Italia. Dove la delazione, l’infedeltà, il
tradimento, il furto, la cupidigia, l’invidia, le gelosie, la
prevaricazione, la violenza, il disprezzo della verità e della dignità
della persona, l’accidia, l’avarizia, la gola per il denaro, la simonìa,
l’odio, la lascivia e tutte le più profonde bolge dell’inferno dantesco
vengono portate in palmo di mano dai don Rodrigo di turno e dai loro
sgherri mediatici che impollinano questo inferno qualificandolo come
“giustizia”, “trasparenza”, “legalità”. Per coloro ai quali è parso un
nobile atto mettere Pietro, il capo della Chiesa, nelle mani degli
sbirri mondani vale quello che Gesù disse di sé e dell’amico che lo
tradì. E cioè: «Il Figlio dell’uomo se ne va, come è scritto di lui, ma
guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio
per quell’uomo se non fosse mai nato!» (Mt 26,14-25). Ma cosa dire
dell’illustre colleganza che sguazza in queste operazioni che hanno
fatto di ogni elementare diritto umano, civile e costituzionale, oggetto
di manomissione della giustizia, speculazione politica e lucro
monetario?
«La libertà e la segretezza della corrispondenza e
di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili» recita l’articolo
15 della nostra Costituzione. Quella stessa Costituzione per la quale
dicono di resistere, resistere e resistere coloro i quali da vent’anni
si esercitano a fare dell’Italia un Paese senza Costituzione, senza
libertà, senza diritti. E allora, che dire di intere imprese editoriali,
giornali, case editrici, che campano – e campano di lusso – sulla
violazione sistematica e rivendicata con ribalderia dei diritti che
Costituzione italiana e carte Onu sanciscono come sacri? Il diritto
all’inviolabilità della segretezza della corrispondenza e di ogni altra
forma di comunicazione tra cittadini, il diritto alla libertà di
riunione ed associazione senza essere spiati e intercettati, il diritto a
professare le proprie idee e la propria fede senza essere manipolati e
sbattuti in prima pagina per essere esaminati e giudicati secondo
politicamente corretto, dicono niente?
Bisogna dire di loro quello che si può dire di Gianluigi Nuzzi,
un bravo ragazzo, un giornalista mite, uno che incontri il sabato
mattina in corso Sempione a Milano e che da buon papà porta a spasso i
suoi bambini, un giro al parco, un aperitivo nei localini dell’happy
hour e, ti dice salutandoti con fraterna cordialità, «peccato che Il Fatto Quotidiano mi abbia bruciato quelle lettere che avevo anch’io nel mio libro, sai esce a fine maggio, ho già dato anticipazioni a Libero e al Corriere,
con Vaticano Spa ho intascato solo metà delle royalties, l’altra metà
l’ho data in beneficenza». Come tutti gli altri della sua razza
giornalistica, così tipica dell’Italia di oggi, è così Gianluigi, un
bravo ragazzo. Un bravo al servizio dei don Rodrigo di turno. Metà in
royalties, metà in beneficienza.
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