Quando (monsignor Dino Foglio) mi invitò per
venire qui, in mezzo a voi (Rinnovamento nello Spirito), a quelli che erano qui allora, mi
disse ciò che sotto il segno della cortesia, della gentilezza,
dell’augurio, soprattutto nei confronti di un ecclesiastico, spesso si
dice: “io ti invito, devi venire e poi vorrò invitarti ancora,
soprattutto voglio invitarti quando sarai Cardinale”. E proprio oggi si
compie il suo annunzio. Per questo devo dire che mi trovo in mezzo a voi
con gioia, soprattutto avendo alle spalle la sua figura, la sua
testimonianza.
Come è stato anticipato da Salvatore Martinez con un aggettivo
davvero significativo, che mi mette anche in difficoltà effettivamente,
quello che farò con voi è un itinerario arduo. Arduo, non perché
la prima lettera ai Corinzi sia particolarmente complessa, anzi, per
molti versi è una delle lettere più trasparenti di Paolo, è una lettera pastorale nel senso proprio del termine. Ma è arduo il versetto che è stato scelto (1 Cor 2,13). E io mi fermerò su questo versetto apparentemente minimo.
Nell’originale greco al quale io spesso farò riferimento - perché la
nostra è anche una lezione teologica - il versetto è composto soltanto
da una decina di parole. Eppure queste parole racchiudono tanti temi,
tante allusioni, tanti ammiccamenti, tante vocazioni, tanti
approfondimenti necessari, per cui il nostro lavoro sarà questo:
studieremo le parole perché la parola di Dio si esprime in parole. Come
diceva un grande testimone della spiritualità delle origini dei primi
secoli cristiani, Massimo il Confessore, “se non conosci le parole come
puoi conoscere la Parola?”. E la tradizione rabbinica, in maniera molto suggestiva, contiene due espressioni.
Da un lato afferma che le parole della Torah, ma non soltanto di
tutta la Bibbia, sono come pietre, bisogna che sprizzino luce, come
accade con una pietra focaia. E ancora afferma: ogni parola
della Torah ha settanta volti, per indicare la ricchezza, l’iridescenza
che la Parola di Dio ha. E lo studio della Parola, perciò, è anche un
atto di adorazione nei confronti della Parola “maiuscola”. La parola italiana testo deriva dal latino textus ovvero “tessuto”. E io da questo “tessuto” estrarrò quattro fili che sono i quattro punti cardinali del nostro percorso.
Prima vorrei però evocare il fondale in cui parla san Paolo, in maniera molto semplificata. Paolo
parla a una comunità cristiana incastonata all’interno di una
metropoli, come potrebbe essere una delle nostre città di oggi.
Corinto era allora (non lo è più oggi) la seconda città per rilievo
della Grecia e uno dei più importanti porti del bacino del Mediterraneo.
Contava 600mila abitanti e ben due porti; l’archeologia ha portato alla luce lo splendore di quella città.
Ma come accade spesso nelle metropoli, soprattutto quelle che sono
attraversate da figure che vengono da culture diverse, Corinto era una
città estremamente corrotta. Le tre colonne doriche che si
ergono sul colle che domina Corinto, sono oggi il residuo del grandioso
tempio di Afrodite che secondo la tradizione ospitava ben mille
ierodule, cioè prostitute sacre. Un mondo corrotto, un mondo squilibrato anche dal punto di vista economico, sociale.
Ed è per questo che la comunità cristiana corre un rischio che Paolo
cerca in tutti i modi di neutralizzare. È quel rischio che corriamo, che
corrono tante comunità anche oggi all’interno di una società così
secolarizzata. I cristiani di Corinto non sono - per usare
un’immagine molto americana di Martin Luther King - un termostato che
riscalda l’ambiente, sono diventati soltanto un termometro che registra,
che si adatta camaleonticamente, assumendo i colori, assumendo le
tonalità del mondo in cui sono immersi.
E quando il cristianesimo comincia a essere stinto corre il rischio di diventare estinto; quando impallidisce perde la sua carica profonda.
Ed è per questo che Paolo, fin dagli inizi della sua lettera, colpisce
con veemenza questo degrado, questa sorta di deriva che lentamente si
insinua, si ramifica come una mano gelida nell’interno della comunità
cristiana di Corinto.
Ed ecco allora che questo versetto può essere considerato come il
riassunto delle tesi che nei primi due capitoli, che vi invito poi a
rileggere nella loro pienezza, Paolo presenta. Farò riferimento al testo
greco, non per un gusto filologico, ma perché vedremo che la
traduzione, pur pregevole, che si usa anche nella Liturgia, non riesce a
rendere conto della ricchezza del testo e anche dei suoi riferimenti,
dei suoi rimandi. D’altronde sappiamo sempre che ogni traduzione, come diceva il grande Cervantes, è “il rovescio di un arazzo”.
Se guardate l’arazzo di fronte lo vedete in tutto il suo splendore, nei
suoi colori squillanti, nella linearità dei disegni delle scene, se lo
guardate nella parte posteriore vedete i fili che cadono, vedete in
maniera confusa che cosa rappresenta.
Quattro punti, quattro stelle polari, che illuminino il nostro
cammino. La prima: Paolo comincia così nel versetto 13 del secondo
capitolo: “Noi parliamo”. E usa un termine che nella cultura
greca significava “chiacchiera”. Nel Nuovo Testamento questo verbo
diventa il verbo della Rivelazione. Per questo è un parlare,
proclamare. Il cristianesimo cerca di recuperare, di sanare la parola.
Il premio Nobel della letteratura messicano Octavio Paz diceva che “il
popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua grammatica”.
A esempio, il linguaggio informatico, ci spinge lentamente
verso l’ovvietà, la banalità, la superficialità, il minimo
indispensabile, impedendoci tante volte l’approfondimento.
Pensate nella società contemporanea quanti flussi di parole vengono
trasmesse attraverso le vie digitali, informatiche, la televisione, la
radio, le onde.
È un parlare continuo, vacuo e fatuo. Invece il cristianesimo
salva, ci salva dalla “chiacchiera” e ci presenta la Parola. E allora,
tra le mille cose che possiamo dire, dobbiamo evocare questo tema sul
quale bisognerà sempre scavare e approfondire. La Parola dovrà essere
sempre il referente capitale della vostra esperienza spirituale.
Per intendere il “parlare di Dio” e il “nostro parlare” si
usa lo stesso verbo perché noi trasmettiamo una parola che incide, che
ferisce e che consola, che inquieta e che crea pace, una parola che
artiglia le coscienze ma le sana anche come un balsamo. Nella
Bibbia troviamo delle immagini antitetiche per parlare della Parola di
Dio. La Parola di Dio è dolce come il miele ma è al tempo stesso simile,
dice Geremia, a “un martello che spacca la roccia”. È come l’acqua che
feconda ma anche, dice la lettera agli Ebrei, a “una spada che passa
non soltanto la pelle, la carne, ma arriva fino al midollo”. Ritorniamo
alla Parola anche perché la Parola è l’elemento fondamentale della
Epifania di Dio. Guardate, come comincia la Bibbia? Comincia con una
frase che è un evento sonoro, in ebraico è persino ritmato. È
l’apparire di Dio sulla scena del mondo. “Dio disse: sia la luce. E la
luce fu”.
E il Nuovo Testamento comincia alla stessa maniera, idealmente, con
il prologo di Giovanni: “in principio c’era la Parola e per mezzo della
Parola tutto è stato fatto di ciò che esiste”. La Parola, quindi. C’è
un versetto, e concludo questo primo punto che vuole essere
semplicemente un appello a purificare la nostra parola perché trasmetta
la Parola. C’è un bellissimo versetto nel Deuteronomio, quando Mosè
vuole riassumere con una sola frase tutta l’esperienza del Sinai, quel
monte dal quale sono scese le Dieci parole, lampada per i passi nel
cammino della nostra vita, il Decalogo: “Dio vi parlò in mezzo al fuoco,
voce di parole, suono di parole, voi ascoltaste. Immagine alcuna voi
non vedeste, solo una voce”.
Questo popolo povero ha questa intuizione altissima: Dio non è una statua.
“Non avete visto nessuna immagine, tu non ti farai – dice il Decalogo –
immagine alcuna di Dio, di ciò che è nel cielo, sulla terra o sotto
terra”. Dio è la Parola. Questo è il paradosso, perché la parola
è in assoluto la realtà più fragile. Pensate quante parole già ho detto
dall’inizio del mio intervento e si sono perse nell’aria, eppure al tempo stesso le parole, anche quelle umane, hanno una potenza straordinaria. Ci sono dei fratelli e delle sorelle che si odiano per tutta la vita perché si son detti una parola cattiva una volta.
Ecco perché dobbiamo ritornare a celebrare la grande Parola di Dio e
la nostra parola, perché purtroppo dobbiamo riconoscere che in principio
c’era la parola ma la parola è stata tradita tante volte: sia
la Parola di Dio, che si è offuscata (San Paolo parla di parola
“adulterata”), sia la nostra parola che è caduta nella polvere della
terra, che è diventata del colore stesso del fango.
Secondo punto del nostro percorso: Paolo dice che noi abbiamo questa parola che non è espressa in discorsi di sapienza umana con un’espressione greca traducibile in “discorsi razionali”.
Qui c’è un elemento che Paolo sviluppa soprattutto nel secondo
capitolo: il rischio, in un mondo come quello greco molto sofisticato
dal punto di vista culturale, di ridurre l’esperienza cristiana a un
sistema di pensiero, di ridurre semplicemente la fede alla elaborazione
di una serie di teoremi da dimostrare e da tenere come un tesoro
prezioso.
Questa era la grande elaborazione di filosofica greca: la scatola
cranica dell’uomo diventava quasi come il grande universo, conteneva
l’universo attraverso la capacità del suo pensiero. E non per
nulla Paolo nel primo capitolo dice: il cristianesimo è agli occhi dei
greci “stupidità”, “follia”. Il cristianesimo ha la croce di Cristo, che
è un elemento estremamente sconcertante. Per noi lo è molto di
meno perché lo conosciamo, ma nel mondo greco-romano era il supplizio
più infame, la condanna a morte per i terroristi e per gli schiavi, gli
ultimi della terra, come ricorderà Paolo. Quindi era un emblema
sconcertante.
Si dice spesso, da parte di alcuni, che fosse qualcosa di simile alla
sedia elettrica che diventa l’emblema e il vessillo di questa
religione. Ed ecco allora lo scandalo, la provocazione, la follia. Bisogna
impedire alla nostra fede di essere soltanto il frutto di una
razionalità. Non dobbiamo però dimenticare che l’uomo intero crede. E
credendo ha anche questa grande via che Dio gli ha offerto, la via
dell’intelligenza. Leggete per esempio quel capolavoro
teologico che è la lettera di San Paolo ai Romani, dove l’apostolo fa
della teologia, cioè teo-logia, logos di Dio, ragionamento,
approfondimento.
Ricordate quella bella immagine che Giovanni Paolo II mette all’inizio dell’ enciclica, significativamente intitolata Fides et Ratio, Fede e Ragione: l’immagine delle due ali, l’ala della fede e l’ala della ragione per ascendere nel campo della trascendenza e del mistero.
Ci sono alcune parole bellissime che vorrei ora citarvi, di un grande
credente che era uno straordinario filosofo e uno straordinario
scienziato, Pascal, il quale dice: “due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione”. Ecco i due estremi. E continua: “L’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”.
Ecco allora il nostro itinerario: non fermarsi alla ragione ma dalla
ragione andare oltre. E quell’oltre è rappresentato in maniera
straordinaria, sceneggiato direi, dal libro di Giobbe. Giobbe,
circondato dai suoi amici, stimolato da loro, percorre una strada che
sostanzialmente è una strada della logica, della ragione, della
spiegazione di questo mistero che è il mistero del dolore, quindi è il
mistero di Dio. E alla fine qual è il vero approdo? Dio non lo condanna,
ascolta questo suo percorso travagliato, comprende anche l’oscurità, la
protesta, l’urlo: “Tu, o Dio, sei come un leopardo che affila
gli occhi su di me per divorarmi. Tu sei un generale trionfatore che mi
sfonda il cranio”.
Un itinerario tormentato, ma alla fine Dio gli si presenta e gli dirà
esplicitamente: tu devi imparare che esiste un disegno, un progetto più
grande, al di là delle tue capacità, pur giuste. Non lo condanna,
difatti. Questo grande disegno è il disegno che io sto tracciando. E
qual è allora l’esito? L’esito finale del libro di Giobbe è nel versetto
celebre 42,5, suggello di tutto il pellegrinaggio di questo essere
tormentato, provato in tutte le sue dimensioni: “Io ti conoscevo per
sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono”. Il punto terminale
è quindi la contemplazione che supera persino l’ascolto, uno degli
elementi fondamentali del discorso biblico della fede. Ma la fede non
finisce nell’ascolto, la fede si apre alla visione, alla contemplazione.
Ecco allora il terzo punto del nostro itinerario: Paolo dice che non è sufficiente il logos della sofia umana ma abbiamo bisogno di ciò che egli chiama le parole dello Spirito. Abbiamo bisogno cioè di una conoscenza trascendente, ulteriore, l’intelligenza illuminata dall’amore. Noi
uomini e donne non abbiamo solo un canale di conoscenza: la scienza e
la tecnica ci hanno sempre convinti che ciò che la tecnica produce e
dichiara sia l’unica realtà dimostrabile, quindi vera. Tutte le altre
sono considerate o come fantasie o come realtà fluide. In verità questo
non è genuino: noi conosciamo attraverso tanti canali; pensate ad
esempio all’innamoramento.
Quando uno scienziato, uno studioso – poniamo un biologo – ha
passato un pomeriggio intero nel suo laboratorio studiando,
successivamente si reca ad una festa e gli accade quello che è capitato a
molti di voi, l’innamoramento: scopre la donna di cui si innamora
perdutamente. In quel momento e da quel momento in avanti, lo
sguardo su quel volto è solo lo sguardo dello scienziato che riesce ad
identificare cellule, a identificare meccanismi biologici?
Il suo sguardo, ormai, è anche uno sguardo estetico, poetico,
sentimentale, affettivo e non è vero che questo sia marginale,
secondario rispetto al primo. Certo, se quella donna si ammalerà
egli userà la strumentazione della scienza, ma ponete per esempio il
caso che questa donna lo tradisca o lo abbandoni: è del tutto
indifferente per lui se è innamorato ancora profondamente? È una
tragedia, forse anche peggiore della malattia. Come vedete, l’uomo ha tanti canali di conoscenza: poesia, arte, il canale della fede, dello Spirito, la via della mistica.
Ecco allora, a questo punto io vorrei ricordarvi semplicemente due tra i tanti luoghi in cui lo Spirito fa il suo discorso. Primo
luogo: la creazione, il cosmo, la materia. La religione biblica è una
religione materiale, non solo spirituale, esistenziale, storica.
Vi ho citato l’incipit del libro della Genesi “lo Spirito di Dio - si
dice al versetto 2 - aleggiava sulle acque”. Nel salmo 104 (103) “Mandi
il tuo spirito, sono creati”, le creature sono tenute insieme da questo
respiro, vento e Spirito al tempo stesso. Gli arabi chiamano il vento
che arriva dal deserto “vento di Giuda”, il respiro di Dio. Dio respira
sulla sua creazione e quindi la tiene in vita. Ecco un appello, un logos
da scoprire: è contemplare la natura.
Lo scrittore inglese Chesterton diceva giustamente: “il mondo
perirà per mancanza di meraviglie”. Sono un numero sterminato le
meraviglie del mondo. Il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non ha
più lo stupore. Ecco perché dobbiamo ritrovare ancora la
capacità di controllare all’interno della natura, dell’essere, della
materia, dei corpi - il cristianesimo è anche una religione corporale -
il messaggio, il logos, che lo Spirito ci dà. Cito il salmo 19 (18): “i
cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia al
firmamento”.
È bellissimo anche questo viaggio del sole, la sua orbita che viene
considerata come una rivelazione, ma vorrei anche ricordarvi un inno
bellissimo della liturgia sinagogale ebraica di pentecoste, dello
Spirito quindi, in cui si immagina che tra il cielo e la terra Dio abbia
disteso una pergamena, che è il mondo, sulla quale ha scritto i suoi
messaggi, e conclude dicendo che noi dobbiamo scrivere su questa pergamena il nostro alleluja, la nostra lode.
Clemente Rebora fa un commento al salmo 104: lo Spirito di Dio
abbraccia tutto l’universo mentre il poeta, in un giorno di primavera –
la poesia è datata aprile 1953, Rebora morirà nel ’57 – è davanti ad un
ramoscello verdeggiante di un mandorlo fiorito, vicino ad un fuscello
d’erba. Rebora, invece di dire che la rugiada si è deposta ed è stillante, scrive che la rugiada è stellante, perché ricorda l’immagine di tante stelle. Ecco le sue parole:
Ramoscello primaverile,a roselline, in boccio, aperte,fra slanci leggiadri di foglioline,accanto a un tenue fuscello,stellante di candide trine,nel semplice incantodell’essere, buona bellezza:o Spirito del Signore, che tutto abbracci,e ricrei la faccia della terra,amoroso lavoro il filo d’erba.
Il filo d’erba dunque come amoroso lavoro di Dio.
Il secondo luogo in cui lo Spirito si rivela è la storia. La
religione ebraico cristiana è una religione storica. Non devi cercare
Dio prima di tutto nella sua trascendenza; è anche nei cieli, ma non è un imperatore impassibile;
attraverso il Figlio suo che si fa carne, uomo come noi, parla un
dialetto locale, appartiene ad una provincia sperduta dell’impero, Dio è
nei crocevia delle nostre strade, della nostra storia.
I dipinti di Chagall rappresentano bene questo spirito della Bibbia.
Dio con il suo Spirito è presente nell’interno del villaggio, il
villaggio da cui veniva, lo spettro ebraico. Gli angeli escono
dai comignoli delle case dove si sta cucinando la cena; svoltato
l’angolo trovi Dio e i profeti. Ed è per questo che allora è importante
riconoscere lo Spirito all’interno della nostra esistenza.
Quando siamo venuti al mondo, abbiamo ricevuto questo respiro di vita
dai nostri genitori che ci hanno generato. Questo respiro fisico è
preziosissimo, è quello che ci permette di parlare, di vivere. In tutte
le culture il simbolo è il respiro della vita, della vita fisica. Abbiamo poi ricevuto il battesimo e in quel momento un altro spirito, un altro respiro che è lo Spirito stesso di Dio. Vedi Galati 4 e Romani 8, quando Paolo dice “voi potete chiamare Dio non più re, sovrano, signore, onnipotente,
potete chiamarlo Abbà, come lo chiamava il figlio suo Gesù”, perché tra
lui e voi c’è questo stesso respiro ed è per questo che dobbiamo
ininterrottamente ricordarlo.
Volentieri vado il fine settimana alla periferia di Roma a fare le
cresime, nelle parrocchie della periferia e l’augurio che faccio ai
bambini è: “fra 20 anni non ricorderete nulla di quello che io vi ho
detto però vorrei sperare, sognare quasi, che riportando qui un
vostro figlio che riceve la cresima, dentro di voi ci sia ancora sottile
quel respiro dello Spirito che è stato immesso in voi nel battesimo e nella Confermazione”.
La Chiesa tutta allora, è una raccolta di respiri dello Spirito.
In spirito ecumenico cito un passo di un vescovo patriarca della chiesa
greco ortodossa di Antiochia, Ignazio IV Azim che dava questa
bellissima rappresentazione della chiesa, teologicamente ineccepibile:
senza lo Spirito Santo Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il
Vangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione,
l’autorità un dominio, la missione una propaganda, il culto
un’evocazione, l’agire cristiano una morale da schiavi. Con lo
Spirito Santo il cosmo si solleva e geme nelle doglie del regno, il
Cristo risorto è presente, il Vangelo è potenza di vita, la Chiesa
significa comunione, l’autorità è servizio liberatore, la missione è
Pentecoste, la liturgia è memoriale e prefigurazione, anticipazione. E
l’agire umano è deificato.
Eccoci ora insieme all’ultimo punto cardinale: “esprimendo cose
spirituali in modo spirituale”. E questa è certamente una traduzione
possibile, molto pallida devo dire perché non si tratta di
esprimere, ma molto di più, giudicare, quindi saper scegliere, scegliere
le cose dello Spirito con rigore; mettere insieme le cose, non
disperdere; avere cioè una visione compiuta, custodire in
pienezza, come si diceva di Maria che custodiva tutte queste cose,
metteva insieme tutte le cose di cui era testimone e che in lei si
compivano. Nella stessa maniera dovremmo allora “mettere insieme in modo
spirituale le cose spirituali”.
La traduzione che vorrei proporvi: comporre, mettere insieme le cose spirituali in modo spirituale quindi per gli uomini spirituali, per gli altri, per i fratelli, è comunicare, irradiare lo Spirito che è in noi.
E questo è secondo me un significato suggestivo perché è il significato
della testimonianza; è quella realtà che fa sì che non siamo più
termometro, che non registriamo più l’ambiente, ma irradiamo luce e
calore in un mondo spesso gelido.
Nella cultura indiana si diceva che il martire profuma la
spada del suo carnefice, come l’ascia che taglia il balsamo, resta
profumata, cioè neanche il martire lascia indifferente il suo carnefice.
Non conosciamo ancora il numero dei martiri di questi giorni, però non
dimentichiamo mai che al di là dell’apparente forza e indifferenza del
male, lo Spirito riesce a penetrare in percorsi che sono indecifrabili.
Ma Paolo dice che soprattutto ai fratelli, a coloro che sono già pneumatikói, come noi, a loro soprattutto dobbiamo mandare il nostro messaggio.
Come lasciare spazio alla parola, a questa parola che incida
all’interno della nostra esistenza, che incida ferite nei campi della
consuetudine? Una poetessa ebrea diceva che l‘orecchio degli
uomini è ostruito di ortiche che non permettono che questa parola incida
ferite nei campi dell’abitudine, della superficialità.
Un teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, morto il 9 aprile del 1945, impiccato per ordine di Hitler ha lasciato un diario del suo carcere all’interno del quale c’è una sorta di invito, di lezione ad ascoltare, a vivere la parola di Dio.
Vorrei che ascoltaste le sue parole nel silenzio delle nostre coscienze
come una sorta di trama di vita per il futuro, per il futuro della
nostra lettura e ascolto della parola. La Parola di Dio è avvolta da
silenzio; il silenzio della parola è il silenzio bianco, non quello nero, senza parole, che non ha nessun senso.
I giovani rifiutano il silenzio e urlano anche per questo.
Anche la Bibbia dice che il silenzio è una maledizione: quando Dio
deve, vuole condannare un popolo, fa tacere la voce dello sposo e della
sposa che cantano, il suono degli strumenti musicali (Ezechiele e
Geremia). Il silenzio della Parola invece è il silenzio bianco,
riassunto di tutte le parole.
Facciamo silenzio prima di ascoltare la parola perché i nostri
pensieri siano già rivolti alla Parola, facciamo silenzio dopo l’ascolto
della Parola perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi;
facciamo silenzio la mattina presto perché Dio deve avere la prima
Parola; facciamo silenzio prima di coricarci perché l’ultima Parola
appartiene a Dio. Facciamo silenzio solo per amore della Parola.
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