La pena della crocifissione, di origine orientale - in particolare persiana -, venne adottata da cartaginesi e romani. Nella letteratura romana è descritta come punizione crudele e temuta; non era inflitta ai cittadini romani, ma riservata agli schiavi e ai non romani che avessero commesso atroci delitti, come assassini, gravi furti, tradimenti e ribellioni. Giuseppe Flavio narra che Antioco Epifane crocifisse gli ebrei che si erano rifiutati di obbedire ai suoi decreti sulla ellenizzazione, e che Alessandro Ianneo aveva crocifisso i suoi avversari farisei.
La croce sulla quale fu crocifisso Gesù era o la crux commissa, a forma di T, o la crux immissa o capitata, a forma di daga o pugnale. Il fatto che il titolo della condanna fosse posto al di sopra della testa (Mt 27,37) fa pensare alla seconda forma di croce. Dato che l'esecuzione di Gesù era stata affidata ai soldati romani, è probabile che si seguisse la maniera di esecuzione romana.
Il procedimento romano della crocifissione doveva essere pressappoco così: avvenuta la condanna legale, il condannato stesso portava la trave trasversale (il patibulum) sul luogo fissato, per lo più fuori le mura cittadine. Da qui il detto «portare la croce», tipica espressione per indicare la punizione di uno schiavo.
Giunti sul luogo dell' esecuzione, il condannato veniva spogliato e flagellato. Il condannato veniva legato a braccia tese alla trave che poggiava sulle sue spalle (in casi più rari si parla anche di inchiodatura) e quindi innalzato sul palo verticale già preparato. La morte subentrava lentamente e tra sofferenze indicibili a causa dei crampi tetanici e per soffocamento, poiché il sangue del crocifisso non poteva circolare nelle membra violentemente tese; per lo stesso motivo i polmoni e il cuore si sentivano soffocare pur mantenendo il condannato in uno stato di piena coscienza. Talvolta la morte veniva accelerata per mezzo della rottura delle gambe o con un colpo di lancia al cuore. Quando i familiari lo richiedevano, veniva concesso il cadavere.
La croce portata da Gesù fino al luogo dell'esecuzione non doveva essere, secondo la procedura comune, l'intera croce ma soltanto il palo trasversale. Di regola, il palo verticale veniva lasciato sul luogo dell'esecuzione, mentre quello trasversale veniva attaccato di volta in volta. Le braccia del condannato venivano prima attaccate al palo trasversale mentre egli era disteso al suolo; poi il condannato veniva innalzato, insieme con il palo trasversale, su quello verticale, al quale venivano legati i suoi piedi.
Lo si attaccava con corde o con chiodi, che eventualmente erano quattro. Il criminale veniva sempre legato con corde intorno alle braccia, alle gambe, alla vita: i soli chiodi non avrebbero potuto reggere tutto il peso del corpo e le corde impedivano al condannato di scivolare giù. La maggior parte del peso del corpo era sorretta da una specie di sostegno (sedile) sporgente sul palo verticale e sul quale si poneva la vittima a cavalcioni: tale sedile non è menzionato nel NT ma ne parlano moltissimi antichi scrittori romani. Il sostegno per i piedi (suppedaneum), spesso rappresentato nell'arte cristiana, è invece sconosciuto all'antichità.
La vittima non era innalzata dal terreno più di mezzo metro: i presenti potevano facilmente raggiungere la bocca mettendo una spugna in cima a una canna (Mt 27,48; Mc 15,36). I romani crocifiggevano criminali interamente nudi e non vi è motivo di pensare che si facesse un'eccezione per Gesù.
Questo tipo di esecuzione, tanto ignominioso e crudele, era conosciuto (anche se non praticato) in Israele: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu lo avrai messo a morte e appeso a un palo, il suo cadavere non potrà rimanere tutta la notte al palo, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è maledetto da Dio» (Dt 21,22-23; cf Gs 8,29; 10,26-27). Sappiamo che il principe giudeo Alessandro Ianneo (103-76 a.C.) fece appendere degli uomini ancora vivi ad un palo durante una esecuzione capitale di massa. Resta tuttavia confermato che la crocifissione era un procedimento straordinario di condanna, abominevole e inusitato per il giudaismo; non invece per i romani ed altri popoli del vicino Oriente (cf 1 Sam 31,10).
Le vesti dell'ucciso andavano in dono ai soldati (Mt 27,35). Un titolo con il nome del criminale e con il suo delitto veniva scritto su una tavoletta che si portava legata al collo fino al luogo dell'esecuzione. Nella crocifissione di Gesù questa tavoletta con il titolo fu affissa al di sopra del suo capo, sulla croce. Per l'ironia di Pilato, il titolo di Gesù non esprimeva un delitto ma l'espressione «re dei giudei» (Mt 27,37; Mc 15,26; Lc 23,38; Gv 19,19-22). Il titolo era scritto in tre lingue: aramaico, il dialetto del paese; greco, la lingua del mondo romano; e latino, la lingua ufficiale dell'amministrazione romana.
Nella crocifissione la vittima si lasciava morire di fame e di sete. Se necessario, la morte veniva affrettata spezzando le gambe della vittima con delle clavi, come si fece coi criminali crocifissi insieme a Gesù (Gv 19,32ss). I soldati furono sorpresi del fatto che Gesù morisse così presto, dato che la morte per crocifissione in genere avveniva solo dopo qualche giorno. Era un'abitudine giudaica, non romana, quella di somministrare al condannato una bevanda narcotica prima dell'esecuzione per attutirne la sensibilità (Mt 27,34; Mc 15,23). Anche a Gesù venne offerta questa bevanda, ma egli la rifiutò. Secondo la prassi romana, gli insulti precedevano spesso la crocifissione, come accadde per Gesù. Per la legge romana, l'accusa per cui la pena della crocifissione fu inflitta a Gesù era quella di tradimento e di ribellione, delitti dei quali i Giudei lo avevano accusato (Lc 23,2-5; Gv 19,12).
La crocifissione come pena giudiziaria fu soppressa dal primo Imperatore cristiano, Costantino (306-337). Fu così possibile passare ad una raffigurazione della croce nell'arte dal momento che non suscitava più associazioni negative.
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