Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

venerdì 4 ottobre 2013

Dall'intervista a papa Francesco

Nell'incontro personale che Eugenio Scalfari ha avuto con il Papa, a un certo punto il giornalista ha chiesto: "Santità, esite una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?".
Il Papa ha risposto: 
"Ciascuno di noi ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene". 
Continua poi affermando: 
"E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo".

Mi piace pubblicare alcune parole del grande Benedetto XVI, quando era ancora cardinale. Mi sembrano indispensabili per aiutarci a comprendere bene cosa può voler intendere papa Francesco.
Infatti le sue parole, prese alla lettera,  inducono a pensare che avremmo dovuto a suo tempo aiutare i nazisti nella loro opera di "bene", così come anche Stalin e compagni vari, oppure oggi i fondamentalisti di ogni risma. Ovviamente non penso che il Pontefice intendesse questo, perché sarebbe come pretendere da un medico che aiutasse i malati a curarsi con i rimedi trovati qua e là, invece di proporre la cura che è più idonea. 
Confesso che, da quando ho conosciuto Cristo, non mi è più possibile che annunciare e cercare di vivere con Lui, unico vero Bene. Io non ho altro che questo da donare.
Abbiate la pazienza di leggere queste parole, ben chiare.

***
Nei suoi Colloqui con Hitler, Hermann Rauschning, che nel 1933-34 era presidente del senato della libera città di Danzica, riferisce la seguente dichiarazione del dittatore fatta in sua presenza: “Io libero l’uomo dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche e umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza e morale, e dalle pretese di una libertà e autodeterminazione personale, di cui ben pochi possono essere all’altezza”.
La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà dalla coscienza. Del tutto affine è quanto Göring dichiarò allo stesso autore: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza si chiama Adolf Hitler”. La distruzione della coscienza è il vero presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza, esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo la sua signoria garantisce la libertà...

E’ certamente possibile che sotto il concetto di coscienza si insinui come la canonizzazione di un super-io, che blocca l’uomo nella sua realizzazione. Il richiamo assoluto rivolto alla persona nella sua responsabilità è allora coperto e sopraffatto da un sistema di convenzioni che viene esibito falsamente come voce di Dio, mentre non è in verità che la voce del passato, la cui paura impedisce il presente. La coscienza può diventare anche un alibi per la propria ostinazione e indocilità, quando una caparbia incapacità alla correzione di sé viene giustificata con la fedeltà alla voce interiore. La coscienza diventa allora il principio di un egoismo soggettivo che si pone come assoluto, allo stesso modo in cui, viceversa, può diventare il principio del passaggio dall’io a un “sì” impersonale o a un io estraneo. In questo senso il concetto di coscienza ha bisogno di costante purificazione, e la pretesa della coscienza come pure il richiamo ad essa hanno bisogno di lealtà e di prudenza, consapevole dei possibili abusi di grandi valori quando la si chiama in gioco troppo in fretta. Chi ha in bocca con troppa facilità la parola “coscienza” si rende sospetto in modo simile a coloro che pronunciano banalmente e a ripetizione il santo nome di Dio, dunque da idolatri e non da veri adoratori. Ma la vulnerabilità della coscienza, la possibilità dell’abuso non possono cancellarne la grandezza, Reinhold Schneider ha detto: “Che cosa è la coscienza se non la consapevolezza della nostra responsabilità davanti alla totalità della creazione e davanti a chi l’ha creata?”. Coscienza significa, detto molto semplicemente, riconoscere l’uomo, se stesso e l’altro da sé come creazione e rispettare in quest’uomo il suo creatore. Ciò definisce il confine di ogni potere e gli indica a un tempo la direzione.
 Quando si parla di coscienza oggi vengono in mente tre correnti principali di pensiero. Abbiamo già trattato della prima di queste quando abbiamo det­to che la coscienza rivendica il diritto della soggettività, che non può in alcun modo essere misurata oggettivamente. Ma di rimando sorge immediatamen­te l'obiezione: chi stabilisce questo diritto assoluto della soggettività? Essa può certamente avere un diritto relativo; ma in casi realmente importanti, non deve questo diritto essere sacrificato a un bene comune oggettivo di più alto livello?
È strano che certi teologi trovino difficile accettare la dottrina precisa e li­mitata dell'infallibilità pontificia, ma non abbiano problemi nel riconoscere de facto l'infallibilità a chiunque abbia una coscienza.
In realtà non è possibile rivendicare un diritto assoluto della soggettività come tale.

Un secondo concetto di coscienza afferma che la coscienza è la voce di Dio dentro di noi. Con questo concetto viene stabilito il carattere assoluta­mente inviolabile della coscienza, la quale verrebbe a trovarsi al disopra di qualsiasi legge umana. L'esistenza di un simile legame diretto tra Dio e l'uomo, da all'uomo una dignità assoluta.
Ma allora sorge il quesito: Dio parla forse agli uomini in maniera contraddittoria? Contraddice forse sé stesso? Proibisce forse a qualcuno di fare un'azione, anche a prezzo del martirio, mentre autorizza un altro o addirittu­ra esige da lui di compiere questa stessa azione?
Chiaramente non è possibile parlare di una identità dei giudizi di coscien­za individuali con la voce di Dio. La coscienza non è un oracolo, come osservava giustamente Robert Spaemann.

Incontriamo ora un terzo significato: la coscienza come super “io”, come interiorizzazione della volontà e delle convinzioni di altri che ci hanno forma­ti e hanno impresso in noi la loro volontà, a tal punto che essa non ci parla più esteriormente, ma dal più intimo di noi stessi.
In una situazione come questa, la coscienza non sarebbe affatto una sor­gente reale di moralità, ma soltanto il riflesso della volontà di un altro, una guida estranea in noi stessi. La coscienza non sarebbe allora un organo di li­bertà, ma una schiavitù interiorizzata dalla quale l'uomo dovrebbe logica­mente liberarsi per scoprire l'ampiezza della sua reale libertà.
Anche se è possibile spiegare in questo modo molte singole espressioni della coscienza, questa teoria non può reggersi globalmente. Vi sono, infatti, bambini i quali, prima di aver ricevuto una educazione for­male, reagiscono spontaneamente contro l'ingiustizia. Essi danno un «sì» spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione educativa, che troppo spesso li confonde e li schiaccia anziché aiutarli a crescere. D'altra parte vi sono uomini e donne maturi nei quali si osserva una libertà o una prontezza di coscienza che si contrappongono a ciò che è stato appreso o che viene comunemente fatto. Una coscienza come questa è diventata un senso interiore di ciò che è buono.
Qual'è allora la posizione reale della coscienza? Vorrei fare mie le parole di Robert Spaemann sull'argomento: la coscienza è un organo, non un oracolo. È un organo perché è una cosa insita in noi, che appartiene alla nostra essen­za, e non una cosa fatta fuori di noi. Ma essendo un organo ha bisogno di cre­scere, di essere formata, di esercitarsi. Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola. Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure la lingua non è un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa che propriamente è interna a noi. Viene formata dall'esterno, ma questa formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, che cioè possiamo espri­merci con il linguaggio. L'uomo come tale è un essere-che-parla, ma lo di­venta soltanto a condizione che impari a parlare da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa essere un uomo: l'uomo è «un es­sere che ha bisogno dell'aiuto di altri per diventare ciò che è in sé stesso» (R. Spaemann). Noi vediamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella coscienza. L'uomo come tale è un essere che ha un organo di cono­scenza interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è, ha tuttavia bisogno dell'aiuto degli altri. La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica; può essere distrutta; può essere deformata a tal pun­to da riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà. Incon­triamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché liberi l'uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi apparentemente con buona coscienza.
Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è una malattia l'assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo, dovrebbe vedere.
In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo, quello cioè di aver cura di essa, di formarla e di educarla. La coscienza ha diritto al ri­spetto e all’obbedienza, nella misura in cui la persona la rispetta e ha per es­sa la cura che la sua dignità merita.
Il diritto della coscienza e l'obbligo di formar­la. Come cerchiamo di sviluppare il nostro uso del linguaggio, e ci sforziamo di dominare l'utilizzazione delle sue regole, così dobbiamo anche cercare la vera misura della coscienza, affinché la sua parola interiore possa infine conseguire la propria validità. Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza. Sarebbe quindi semplicistico porre una affermazione del Magistero in contrapposizione alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo.
Che cosa c'è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazio­ne? O è una alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole? È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può essere eser­citata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa un'apertura in ma­niera consona alla gravita della questione.
Se io credo che la Chiesa ha le sue origini nel Signore, allora il ministero della dottrina nella Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell'autenticità, di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza. A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di orientamenti. Deve esprimersi in modo da rendere possibile una riso­nanza interiore della sua parola all'interno della coscienza, ciò che significa qualcosa di più che una semplice dichiarazione occasionale di massimo livello.

(da J.Ratzinger, Coscienza e verità, Conferenza a Dallas ed a Siena, in La chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, Torino, 1991, pag.113-137)
 



Nessun commento:

Posta un commento