Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

martedì 1 ottobre 2013

La perfezione sta in un movimento continuo


Paris psaulter Mose-passaggio-Mar-Rossodi ANDREJ DESNICKIJ
Come far sì che la Bibbia diventi un testo attuale per ogni epoca e situazione? Tale questione se la posero filosofi cristiani e pastori già nei secoli passati. Le soluzioni che essi ponevano ai loro lettori cristiani un millennio e mezzo fa possono apparire oggi non molto adeguate ai tempi, tuttavia essi ci suggeriscono il criterio con cui l’antico racconto può essere attualizzato per un pubblico molto diverso dagli originari lettori del testo biblico.
Vorrei parlare di un caso esemplare: la storia di Mosè, come ce la presentano i quattro libri della Bibbia dall’Esodo al Deuteronomio, e la lettura che di questa storia viene data nel trattato di san Gregorio Nisseno Vita di Mosè legislatore. Nel IV secolo da religione perseguitata il cristianesimo diventava religione di Stato e cominciarono a entrare nella Chiesa uomini educati nella cultura classica antica, cioè del tutto ignari dell’Antico Testamento, del linguaggio come della teologia biblica. A questi nuovi cristiani era necessario spiegare il senso dell’Antico Testamento. E bisognava farlo in una lingua comprensibile, collegando i racconti biblici con la vita di ognuno, cosicché Abramo, Mosè o Davide non sembrassero solo eroi di antiche leggende, ma dei maestri e degli esempi da imitare. Per affrontare questo compito san Gregorio adottò i metodi di interpretazione allegorico e tipologico, per cui non è importante il contenuto storico degli avvenimenti, quanto una loro interpretazione spirituale. L’esegeta si stacca dagli avvenimenti reali accaduti molti secoli prima e considera la loro descrizione come un simbolo, una sorta di icona parlata, in cui occorre vedere il significato nascosto. Egli cercava così di attualizzare il testo biblico, trasferendo i fatti biblici nella vita quotidiana di ogni uomo. Nel suo trattato Gregorio dà speciale attenzione non alla dottrina, quanto all’etica e alla conoscenza di Dio. Il sottotitolo dell’opera è Sulla perfezione nella virtù. Sarebbe ovvio aspettarsi che vi si parli delle doti da mettere in campo per assomigliare a Mosè e attingere la perfetta virtù. Con un tale approccio la maggioranza dei lettori avrebbero dovuto riconoscere di essere molto lontani da quell’ideale, visto come irraggiungibile. D’altra parte qualcuno potrebbe anche concludere di aver già raggiunto quella perfezione e quindi ora può starsene tranquillo. Del resto come si può imitare Mosè, dal momento che viviamo in un mondo tanto diverso da quello? Tuttavia Gregorio propone una soluzione molto diversa: la perfezione sta in un movimento continuo, senza alcun limite. Questa perfezione, attingibile da ciascuno, non dà motivo a nessuno di rilassarsi. Mosè ci serve d’esempio non nel senso che si debba copiare la sua vita (il che è impossibile), ma nel senso che la sua vita è un modello di tensione verso Dio. Gregorio si impegna anche in un’altra questione, derivante logicamente dalla prima: se il fine del nostro movimento è Dio, come possiamo avere conoscenza di Lui? ... . Egli ci propone il cammino di una coerente purificazione: l’uomo deve rifiutare le concezioni fallaci, le percezioni sensoriali e, infine, anche le proprie costruzioni mentali, per accogliere infine con cuore puro e ragione illuminata la misteriosa visione di Dio. La natura divina è inattingibile, ma l’uomo cerca continuamente Dio, e quanto più tende lo sguardo, tanto più è forte in lui il desiderio di vedere ancora di più. Dio non si colloca in una categoria logica, la conoscenza di Dio non ha fine, l’amore per Dio non conosce sazietà: queste sono le sue conclusioni. La cosa interessante è che le indagini di Gregorio non sono teoriche. Egli ha una finalità pratica, il lettore è chiamato non solo a ricevere informazioni sul testo, ma a trovarvi indicazioni pratiche per il suo agire. Egli dice che il suo lavoro non esaurisce tutte le possibili interpretazioni, è piuttosto una guida per quel cammino verso Dio che ogni uomo percorre individualmente. L’interpretazione di Gregorio contraddice la lettura letterale del testo biblico? Certo non coincide con esso. Ma ritengo che si tratti piuttosto di scoprire nella Scrittura un senso ulteriore, che non contrasta con quello letterale, come dice lo stesso Gregorio. Alla fin fine, anche per gli antichi israeliti l’Esodo è anche la storia personale di Mosè, e Mosè è un modello da imitare. Un credente, che appartenga all’antico Israele o alla comunità cristiana, bene o male è chiamato a percorrere lo stesso cammino e ad attingere quella relazione con Dio che ebbero i patriarchi e Mosè. Ma come è narrata dal testo biblico e come è interpretata da Gregorio Nisseno la storia di Mosè? La nascita di Mosè è un problema per i suoi familiari e una realtà imbarazzante per il mondo circostante. Narrando dei primi anni di vita del futuro profeta, il libro dell’Esodo sottolinea la sua vulnerabilità e mancanza di autonomia. È la prima storia del genere nell’Antico Testamento: i patriarchi li vediamo solitamente in età adulta, quando sono in grado di prendere decisioni autonome (fa eccezione la storia di Abramo disposto a sacrificare il figlio Isacco, ma questo fa parte della storia dello stesso Abramo). Gregorio vede nel neonato Mosè un segno buono, la tensione umana alla virtù, fa pensare quanto l’inizio della vita spirituale dipenda da chi ti sta intorno e quindi dalle relazioni di chi, magari, diventerà un grande profeta: se egli rimane in vita e, soprattutto, se viene educato da persone che lo amano. Le levatrici lasciano in vita Mosè, i genitori lo inviano sulle onde del fiume, la sorella lo segue per vedere dove va a finire, la principessa egiziana lo adotta, la sorella si dà da fare in modo che egli venga nutrito col latte materno. L’educazione di Mosè alla corte egiziana costituisce un problema per gli interpreti fin dall’antichità. Colui che era destinato a liberare gli ebrei dalla schiavitù egiziana si trova all’inizio dalla parte degli aguzzini. Dal punto di vista pratico questa circostanza era una buona preparazione alla futura missione presso la corte del faraone, ma certo avrebbe potuto anche farne a meno. Perché il Signore volle condurre Mosè per un cammino che sembra tortuoso? Gregorio vede nella principessa egiziana l’allegoria della saggezza pagana, che può aiutare l’uomo nella sua ulteriore ricerca della saggezza superiore, e questo è giusto. Ma qui si può vedere anche qualcosa di più terreno, di psicologico. L’uomo riceve la sua prima esperienza d’amore nella famiglia nella quale cresce, e senza questa esperienza egli avrebbe difficoltà nell’imparare ad amare gli altri. Ma la sua vera patria non è qui. Gli toccherà allontanarsi da quella famiglia che l’ha amato e allevato, allontanarsi con sincera riconoscenza, ma senza rimpianto. Ma il distacco non è un momento di maturità, piuttosto di ribellione adolescenziale. Mosè ricorda la sua origine: è stato educato alla corte egiziana, ma nella sua natura è israelitico. Perciò entra in lotta contro l’oppressione del proprio popolo e uccide l’egiziano che ha colpito i suoi connazionali. Il giorno dopo però vede un ebreo che ne percuote un altro: il confine tra bene e male non coincide con i confini nazionali o sociali. Gregorio ne parla allegoricamente, come il rifiuto dei pensieri cattivi, compresi quelli che si mascherano come nostri. Per noi, eredi del secolo ventesimo con le sue guerre, rivoluzioni ed esperimenti sociali, l’i n t e r p re t a -zione è ancora più facile: combattere il male con metodi violenti è un agire primitivo e in sostanza adolescenziale, che non porta ad altro che a moltiplicare la violenza. Noi conosciamo solo la parte della vita di Mosè che è rivolta all’esterno. La sua esperienza mistica, la crescita spirituale o la sua assenza non possono essere oggetto di discussione semplicemente perché il cuore di un altro uomo ci è celato. Possiamo sapere solo quello che egli ci ha insegnato e trasmesso, dunque la vera storia di Mosè comincia dalla vocazione, quando il Signore gli si rivela nel roveto ardente e lo invia al suo popolo. Su quella rivelazione e sul dialogo che là si svolse sono stati scritti libri, e altri se ne possono scrivere. Diremo solo qualche parola: il servizio di Mosè inizia dall’i n c o n t ro personale con Dio. Non sappiamo come prima egli pregava, quali riti compiva, che visione del mondo avesse, ma sappiamo perfettamente che, senza quell’i n c o n t ro , nella storia non ci sarebbe stato un grande profeta. Si può servire una grande idea, seguire una antica tradizione, ma solo la presenza nella tua vita del Vero Esistente la riempie di significato, le indica come agire e dà le forze per operare. «Allora — scrive Gregorio — l’uomo diventa in grado di portare anche gli altri alla salvezza, distruggere la tirannia del male e liberare coloro che sono soggetti a una vergognosa schiavitù» (2, 26). Per l’uomo terreno la perfezione non è il termine di un cammino, ma il cammino stesso nella giusta direzione. Questo è ben evidente nella storia di Mosè, che nella sua vita non raggiunse il termine del cammino sul quale aveva guidato gli israeliti. Morì sul monte Nebo, da cui si vedeva bene la Terra promessa, ma lui stesso non vi entrò. Egli non agiva da solo, accanto a lui c’erano Aronne e Sipporà, il suocero Ietro, e nelle peregrinazioni nel deserto c’era il suo fedele aiutante Giosuè, cui toccò entrare in quella terra alla testa del suo popolo. Ma Mosè non fu solo anche nel senso che la sua lunga vita fu solo un episodio di una storia sacra, iniziata molto prima di lui e ancora lontana dal suo compimento. Allo stesso modo i costruttori di cattedrali nel medioevo vedevano solo una parte della grandiosa costruzione e sapevano che solo i loro discendenti avrebbero visto la conclusione di ciò che era stato iniziato dai loro avi, ma non rinunciavano a operare. La chiesa diventava opera di più generazioni. Concludendo la vita di Mosè, la Bibbia ci dice: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia» (D e u t e ro n o m i o , 34, 10). Poi si dice dei miracoli e dei segni, ma la cosa principale della sua vita, la sorgente di tutto il resto, fu proprio la conoscenza di Dio. Gregorio lo commenta così: «In questo sta la vera perfezione: rifiutare una vita nel male non per servile paura della punizione, e fare il bene non per la speranza di ricompensa, facendo una vita benefica per un calcolo mercantile di utilità; guardare oltre i beni promessi alla nostra speranza; temere solo una cosa: che si rompa l’amicizia con Dio; considerare questa amicizia l’unico gioiello desiderato. In questo credo sia la vita perfetta» (2, 320).

© Osservatore Romano - 18 settembre 2013

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