Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 18 gennaio 2014

Non possiamo dire: “non mi piaci"



II DOMENICA T.O.

     Nella Comunità di Corinto molte cose non quadravano. La piccola Chiesa, formata prevalentemente da schiavi e gente delle classi più basse, quasi spariva nella ricca città portuale, punto d’incontro, non solo economico, ma anche culturale, tra oriente e Occidente. Essa si trovava esposta a molte idee  e influssi stranieri, per cui correva il rischio di accettare in maniera acritica lo stile di vita e i valori del mondo circostante. Tra l’altro praticamente tutti i cristiani di Corinto venivano dal paganesimo ed erano in qualche modo rimasti legati, alla sua “spiritualità”, al modo di pensare e di agire. Infatti l’apostolo dirà loro: “In questo non vi lodo” (1Cor 11,22), quando li vede ancora agire secondo lo stile del passato.

     Pur essendo minoranza, invece di unirsi più strettamente per rinforzare la propria fede, all’interno della Chiesa si erano formati dei gruppi in discordia tra loro, tant’è che a un certo punto, san Paolo dovette scrivere: “non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire. Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato … che tra voi vi sono discordie” (1Cor 1,10s). Paolo scrive: “Noi siamo … dinanzi a Dio il profumo di Cristo”  (2Cor 2,15), invece, come il cattivo odore si diffonde, così si erano diffuse le notizie circa l’incoerenza  el divisioni nella Chiesa di Corinto.
     Noi oggi ci strapperemmo i capelli e riempiremmo i giornali di grida scandalizzate, invece, nonostante tale situazione, non certamente ideale, Paolo concede alla comunità il titolo di “Chiesa di Dio a Corinto” (1,2). Egli non si ferma alla superficie delle cose, ma guarda più in profondità e, dietro alla facciata, seppure non esaltante, riconosce che Dio ha affidato a questa “povera” gente, il suo messaggio; Dio è entrato in relazione con queste persone. E’ grande questo messaggio: la Chiesa non è un gruppo di èlite, non è una realtà di incontaminati e puri, che potrebbe insuperbirsi della propria perfezione e chiudere la porta a tutti gli altri.
     Mi piace dire che, come non ci stupiremmo, di incontrare malati e feriti in un ospedale, così non ci si deve stupire di trovare peccatori e incoerenti nella Chiesa. Anche papa Francesco ha definito la Chiesa come un ospedale da campo. Più precisamente egli ha affermato: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite…  E bisogna cominciare dal basso».
     Scriveva un predicatore tedesco: “Dovremmo amare la Chiesa, anche solo come recipiente di terra che nasconde il tesoro del Vangelo. Non possiamo dire: “non mi piaci, non mi sono gradite le persone che si trovano in te, mi ripugna il tuo agire, perciò me ne sto lontano”. Dio ha voluto nascondere la sua perla in questo povero campo sassoso. Chi si scandalizza per questo contenitore, non sempre attraente, rinuncia alla bellezza che esso contiene. Chi disprezza la sua comunità locale, forse povera e apparentemente sterile, rischia di perdere anche il Signore, che non ha, invece, paura di sporcarsi, rimanendo presente in essa.  

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