XXIII DOM. T.O.
“Se
il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo” (Mt
18,15). Gesù ci ha sempre detto, che dobbiamo perdonare settanta volte sette; che non dobbiamo giudicare, perché con
la misura con la quale misuriamo saremo misurati; ci ha raccontato la parabola
del figliol prodigo, come mai oggi ci chiede invece di ammonire, di correggere?
Non sono incompatibili le due cose?
In realtà, come scrive san Paolo, il
comandamento fondamentale è: “Amerai il
tuo prossimo come te stesso” (Rm 13,10), che poi Gesù trasformerà in “amatevi gli uni gli altri come io ho amato
voi”. Il perdono e la correzione sono
l’espressione dello stesso amore. Chi ama, perdona, ma anche corregge.
Correggere, non significa, agire per
ferire o umiliare, ma per curare, guarire. Correggere – da cum – mezzo e rigere –
guidare dirittamente – è l’atteggiamento di chi ha a cuore il bene altrui. Un
medico che, a partire dai sintomi di una malattia, non avvisi e indichi una
cura, è un pessimo medico.
Scrive
Madeleine Delbrel: “Anche quando
dobbiamo ferire, c’è sempre un modo per fare meno male”. Infatti Gesù, oltre a indicarci la necessità
della correzione, ci mostra il modo:
-
faccia a faccia
-
con alcuni testimoni
-
davanti alla comunità.
Dire pubblicamente un peccato,
può rendersi necessario, ma solo come ultima ratio, come deterrente per
incentivare la conversione.
La correzione fa parte della vita di una
comunità, dove ognuno è responsabile dell’altro; manca invece dove prevale l’indifferenza
o l’individualismo (“Tu fai ciò che vuoi, così io posso fare ciò che voglio”).
E’ triste però un mondo così.
Responsabile – da respondere, rispondere -, significa che non posso permettermi, come
Caino quando Dio gli chiese dove fosse il fratello Abele: “Sono forse il custode di mio fratello?”. Un giorno il Signore mi
chiederà se ho avuto cura delle persone con le quali ho vissuto: “Se … tu non parli perché il malvagio desista dalla
sua condotta, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte
io domanderò conto a te” (Ez 33).
Dio
ci chiede di essere come delle sentinelle, capaci di avvisare quando giunge il
nemico per rubare e uccidere. La sentinella, per prima, deve sapere riconoscere
il nemico e non confonderlo con un innocuo amico, aprendogli la porta. Per
correggere in maniera adeguata, bisogna avere coscienza che c’è un modo di
agire, di vivere, di parlare, che fa male; che le nostre scelte hanno delle
conseguenze sulla nostra vita e sulla quella altrui. Scrive san Paolo a quelli
che a Corinto dicevano: “Tutto mi è
lecito!». Ma non tutto giova” (1Cor 4,12).
So che il mondo non vuole sentinelle di questo
tipo, forse nemmeno noi; si preferiscono quelli che danno sempre ragione, che
non mettono mai in crisi le nostre scelte, ma questo non è saggio, perché prima o poi “i nodi vengono al pettine”.
Correggere, non significa avere la garanzia,
che l’altro ci accolga e cambi. Ecco che qui si mostra se davvero agiamo per
amore o per altre ragioni. Infatti chi ama, perdona, attende con pazienza,
prega, ma non abbandona. Quando Gesù dice di trattare l’impenitente, come un
pubblicano o un pagano, non dice di abbandonarlo o rifiutarlo, ma di fare come
ha fatto Lui, dialogando con loro, se necessario mangiano anche con loro. Dio
vuole salvare a ogni costo. Non per niente, poco prima di questo brano
evangelico, c’è la parabola della pecora smarrita.
Il Vangelo insegna a me a correggere, ma
mi impegna nel contempo ad accettare la correzione; perché anche io ho bisogno
di essere amato così, visto che, anche io commetto colpe che feriscono e
scandalizzano gli altri.
Tienici lontano, Signore, da quelli che
tacciono, pur sapendo che ciò che facciamo o diciamo può portarci alla morte; aiutaci
a non confondere il silenzio con l’amore; dacci pazienza quando non ci sono
risultati immediati; aiutaci ad ascoltare e a non avere paura.
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