XXVI DOM. T.O.
Ancora una volta Gesù usa l’immagine di
una vigna da coltivare, perché il regno di Dio ha a che fare con l’azione,
l’agire. Fin dall’origine del mondo Dio ha posto l’essere umano nel giardino di
Eden, affinché “lo coltivasse e lo custodisse”
(Gen 2,15), non solo per contemplarlo estasiato o per farne la riserva per il
proprio piacere.
I verbi usati ’ābad (coltivare) e šāmar
(custodire) hanno entrambi un profondo significato religioso. L’uno si
riferisce anche al servizio del culto al tempio e l’altro è usato anche per
indicare la fedeltà a Dio con l’osservanza della legge. I due verbi dicono
allora, che compito dell’umanità è custodire qualcosa che non gli appartiene e
che non può reputare proprietà privata e, per sottolineare, che la
custodia, non è un dolce far nulla, ma implica anche la capacità trasformativa,
nel’accoglienza del progetto di Dio.
Non siamo posti passivamente all’interno
del creato, ma da protagonisti.
Oggi Gesù ci pone, come suo solito,
davanti alla verità; ci mostra due figli: uno che sa spendere parole, ma non
fatti e l’altro, che fa, anche se dopo un iniziale rifiuto.
Leggendo i passi evangelici precedenti a
questo appena ascoltato, ci accorgiamo che Gesù sta parlando ai capi dei
sacerdoti e agli anziani del popolo d’Israele. Egli si riferisce alle guide del
popolo primogenito, al figlio tanto amato. Ascoltiamo dal profeta Isaia, come
Dio parla a Gerusalemme, perla del suo popolo: “Passai vicino a te e ti vidi. … Ti feci un giuramento e strinsi
alleanza con te … e divenisti mia. … Ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di
tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di stoffa preziosa. Ti adornai
di gioielli …Così fosti adorna d’oro e d’argento … Divenisti sempre più bella e
giungesti fino ad essere regina. La tua fama si diffuse fra le genti. La tua
bellezza era perfetta. Ti avevo reso uno splendore” (Ez 16,8ss). Ebbene,
una parte di quel popolo così privilegiato, si accontenta di appartenere
formalmente a Dio, senza lasciarsi trasformare la vita: “Questo popolo si avvicina a me solo con la sua bocca e mi onora con le
sue labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13).
Come non sentirne rivolte a noi le parole
di Gesù?
Pensate solo a quante volte durante la
Messa acclamiamo Amen. Questa parola
ebraica, che traduciamo con “così sia”,
significa anche, “sicuramente”, “veramente”,
ed è usata, tra l’altro per confermare l’impegno che uno si assume. Quante
volte nella vita abbiamo pregato il “Padre nostro” concludendolo con un
bell’Amen, e quante volte abbiamo contraddetto tranquillamente ciò che abbiamo
chiesto con quella preghiera? - Sia santificato il tuo nome; venga il tuo
regno, sia fatta la tua volontà; rimetti i nostri debiti, come noi li
rimettiamo ai nostri debitori -.
Chi è l’altro figlio?
Sono coloro che nella vita, per le ragioni
più disparate, hanno percorso la via del peccato, preferendola alla fedeltà a
Dio. Sono quei figli, arrivati tardi, ma arrivati, perché hanno compreso di
avere imboccato una strada, che invece di condurli al bene, li ha allontanati.
Volendo usare un’immagine medica, sono coloro che hanno preso coscienza della
malattia che li ha invasi e si sono rivolti al medico per guarire. Sono gli
amanti della vita, consapevoli che il Vangelo è la via della vita.
A Dio è certamente più gradita una fedeltà
“ritardata”, a una apparente fedeltà attuale. Dio conosce il nostro cuore, vede
la nostra vita, sa se la nostra bocca parla dalla pienezza del cuore o semplicemente
è un’emissione di suoni: “non conta quel
che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore”
(1Sam 16,7).
Perdonaci Signore, per tutte le promesse e
gli impegni non mantenuti; abbi pazienza con noi. Desideriamo esserti fedeli,
ma siamo deboli. Manda in noi il Tuo Santo Spirito, perché ci affianchi e ci
soccorra nel cammino dell’esistenza e faccia di noi, custodi e coltivatori
della Tua vigna, secondo il tuo progetto.
Nessun commento:
Posta un commento