Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

mercoledì 28 gennaio 2015

Mentre scendo la scalinata di Piazza Bologna

Mentre scendo la scalinata di Piazza Bologna, scuotendo la testa, intravedo un vecchio amico che calamita tutti i mendicanti e passanti come orsi sul miele. È don Federico. Tutti dicono male dei preti, ma poi tutti vanno dai preti quando si sentono caduti giù al livello degli iloti. Chi gli chiede la benedizione del negozio lì vicino, chi i maledetti “50 centesimi”, chi vuole raccontagli le sue sventure, non lo lasciano proseguire. Mi vede che lo osservo e mi saluta ridente: «Ehi ciao: perdona, è il gregge di Dio, ne sento anche l’odore, ti resta addosso e non va più via. Mi dico sempre che non devo vestirmi da prete quando esco».
Tutti raccontano che i preti sarebbero i “cattivi”, lo dice la televisione, le leggende metropolitane lo raccontano, la vox populi lo vuole. Ma poi nel bisogno tutti ricorrono al prete perché ciascuno dentro di sé pensa – e pazienza se per taluni è sinonimo di fesso e di pollo da spennare – “se è prete, se si è fatto prete è perché in fondo è buono: non può non essere buono un prete, volente o nolente”.
Lo chiamavano “Padre”, rimirando la sua linguetta al collo, mentre ne invocavano il soccorso. Perché ricordava a tutti gli immemori il generoso sacrificio della croce che il prete ripercorre con la sua scelta estrema, scandalosa, dolorosa. Di crocifissione quotidiana. E di redenzione. Avrebbe voluto farsi in mille pezzi per tutti e distribuirsi tra tutti quei derelitti, sfamarli, consolarli, “non lasciarli soli”. Il prete è una eucarestia vivente.


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Direttore di PapalePapale.com

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