IL SACERDOTE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
Dobbiamo innanzi tutto ricordare alcune idee dinamiche,
che percorrono oggi tutta la Chiesa, e che specialmente fra gli
ecclesiastici suscitano non poco turbamento. La prima di queste idee
riguarda la figura del prete. La si considera quasi sempre
esteriormente,
nella sua posizione sociologica, nel quadro della società
contemporanea, la quale, come ognuno sa, è tutta in movimento, tutta in
trasformazione. Il prete, rimasto al suo posto, s’è visto abbandonato
dalla sua tradizionale comunità; il vuoto s’è fatto intorno a lui, in
molti luoghi; in altri la clientela pastorale si è cambiata; difficile
avvicinarla, difficile capirla, difficile interessarla alle cose
religiose, difficile ricomporla in una comunità affiatata, fedele,
orante. Il prete, allora si è chiesto, che ci sta a fare in un mondo
così diverso da quello ch’egli una volta assisteva? chi lo ascolta? e
come può egli farsi ascoltare? Egli si è sentito un fenomeno sociale
strano, anacronistico, impotente, inutile, perfino ridicolo. Ed ecco
allora l’idea nuova e dinamica: bisogna fare qualche cosa, bisogna osare
tutto per riavvicinarsi al popolo, per comprenderlo, per
evangelizzarlo. L’idea, per sé, è ottima; e noi l’abbiamo vista
germinare dalla carità del cuore desolato del prete, che si è sentito
escluso dal mondo storico sociale e umano, in cui egli doveva trovarsi
personaggio centrale, maestro e pastore; e in cui invece è diventato
forestiero, solitario, superfluo e deriso. La incongruenza e la
sofferenza di questa sorte si sono fatte intollerabili. Il sacerdote ha
cercato ispirazione ed energia nella profondità e nell’essenza della sua
vocazione. Bisogna muoversi, ha detto, e riprendere la «missione; e
talvolta così lo ha detto a scapito anche della celebrazione del culto
divino e della normale amministrazione dei sacramenti.
Ottima, diciamo, l’idea e segno d’una altissima
coscienza sacerdotale. Il Sacerdote non è per sé, è per gli altri: il
Sacerdote deve lui rincorrere gli uomini per farne dei fedeli, e non
solo aspettare che gli uomini vengano a lui; se la sua chiesa s’è fatta
vuota, egli dovrà uscire «per le piazze e i vicoli della città» in cerca
della povera gente, e poi ancora «per le vie e lungo le siepi», e
spingere invitati raccogliticci ad entrare (cfr. Luc. 14, 21-23).
Questa urgenza apostolica preme sui cuori di tanti Sacerdoti, le cui
chiese sono diventate deserte. E quand’è così, come non ammirarli? come
non sostenerli?
PERFEZIONARE LE FORME TRADIZIONALI DI APOSTOLATO
Ma facciamo attenzione, proprio in omaggio del
carattere sperimentale e positivo dell’apostolato. Primo: non è sempre
così. Vi sono tuttora comunità di fedeli straripanti di numero e
desiderose di regolare osservanza: perché lasciarle? perché cambiare per
loro il metodo del ministero, quando questo è ancora autentico, valido e
magnificamente fecondo? Non faremmo torto alla fedeltà di tanti buoni
cristiani per tentare avventure d’esito incerto? E, secondo, quando
basta aprire una nuova chiesa e accogliere con amorosa premura la gente
che vi accorre spontanea e avida di parola divina e di grazia
sacramentale, perché escogitare forme nuove e strane d’apostolato di
dubbia riuscita e forse di precaria durata? Non conviene forse
perfezionare quelle tradizionali, e farle rifiorire, come il Concilio
c’insegna, di realismo pastorale di nuova bellezza e di nuova efficacia,
prima di tentarne altre, spesso arbitrarie e di non sicuro risultato, o
ristretto a gruppi particolari e staccati dalla comunione della plebe
fedele? Oh! noi non dimenticheremo la parola di Gesù, che ci raccomanda
di lasciare le novantanove pecorelle che sono al sicuro per andare in
cerca dell’unica smarrita (cfr. Luc. 15, 4); e ciò specialmente
se la proporzione, come oggi capita in certe situazioni, fosse
contraria, quella cioè d’una sola pecorella al sicuro, mentre
novantanove fossero quelle disperse: ma sempre il criterio della unità e
della completezza del nostro gregge, il criterio dell’amore pastorale e
della responsabilità nostra verso le anime e del loro inestimabile
valore ci sarà di guida.
Bisogna fare attenzione. Il bisogno, anzi il dovere,
della missione efficace e inserita nella realtà della vita sociale può
produrre altri inconvenienti, come quello di svalutare il ministero
sacramentale e liturgico, quasi fosse di freno e d’intralcio a quello
dell’evangelizzazione diretta del mondo moderno: ovvero quello, oggi
piuttosto diffuso, di voler fare del prete un uomo come qualsiasi altro,
nell’abito, nella professione profana, nella frequenza agli spettacoli,
nell’esperienza mondana, nell’impegno sociale e politico, nella
formazione d’una famiglia propria con l’abdicazione al sacro celibato.
Si parla di volere così integrare il Sacerdote nella società. È così che
dev’essere concepito il significato della magistrale parola di Gesù,
che ci vuole nel mondo, ma non del mondo? non ha Egli chiamato ed eletto
i suoi discepoli, quelli che dovevano estendere e continuare l’annuncio
del regno di Dio, distinguendoli, anzi separandoli dal modo comune di
vivere, e chiedendo a loro di lasciare ogni cosa per seguire Lui solo?
Tutto il Vangelo parla di questa qualificazione, di questa
«specializzazione» dei discepoli che dovevano poi fungere da apostoli.
Gesù li ha staccati, non senza loro radicale sacrificio, dalle loro
occupazioni ordinarie, dai loro interessi legittimi e normali, dalla
loro assimilazione all’ambiente sociale, dai loro affetti sacrosanti; e
li ha voluti a Sé dedicati, con dono completo, con impegno senza
ritorno, puntando, si, sulla loro libera e spontanea risposta, ma
preventivando una loro totale rinuncia, un’immolazione eroica.
Riascoltiamo l’inventario delle nostre spogliazioni dalle labbra stesse
di Gesù: «Omnis, qui reliquerit domum, vel fratres aut sorores, aut
patrem aut matrem, aut uxorem, aut filios, aut agros propter nomen meum .
.» (Mt. 19, 29). E i discepoli avevano coscienza di questa loro personale e paradossale condizione; Pietro che parla: «Ecce nos reliquimus omnia, et secuti sumus Te» (ib.
27). Il discepolo, l’apostolo, il Sacerdote, l’autentico ministro del
Vangelo può essere un uomo socialmente come gli altri uomini? Povero sì,
come gli altri, fratello sì, agli altri; servitore sì, degli altri;
vittima sì, per gli altri; ma nello stesso tempo dotato d’una funzione
altissima e specialissima: «Vos estis sal terrae . . . Vos estis lux mundi»!
Ed è chiaro, se abbiamo la nozione della composizione organica del
corpo ecclesiale; S. Paolo non potrebbe al riguardo essere più
esplicito: «Corpus non est unum membrum, sed multa . . . Quod si
essent omnia unum membrum, ubi corpus? Nunc autem multa quidem membra
unum autem corpus . . .» (1 Cor. 12, 14-21 ss.). La diversità
delle funzioni è principio costituzionale nella Chiesa di Dio; ed essa
riguarda in primo luogo il sacerdozio ministeriale: vediamo di non
perderla questa specifica funzione per un malinteso proposito di
assimilazione, di «democraticizzazione», come oggi si dice, nella
società ambientale: «Se il sale diventa insipido, con cosa gli si
renderà il suo sapore? Non è più buono ad altro che ad essere buttato
via e calpestato dalla gente» (Mt. 5, 13). Sono parole del
Signore, le quali devono fare riflettere al discernimento necessario
nell’applicazione della formula ricordata: essere nel mondo, ma non del
mondo. La mancanza di questo discernimento, del quale l’educazione
ecclesiastica, la tradizione ascetica, il diritto canonico ci hanno
tanto parlato, può proprio conseguire l’effetto contrario a quello che
un suo incauto abbandono ci aveva fatto sperare: l’efficacia, il
rinnovamento, la modernità. Può infatti essere così annullata
l’efficacia della presenza e dell’azione sacerdotale nel mondo;
l’efficacia che proprio si voleva ottenere quando si reagiva
imprudentemente alla separazione del sacerdote dal resto della società.
Annullata: nella stima e nella fiducia del popolo, e dalla pratica
esigenza di dedicare ad occupazioni profane e ad affezioni umane: tempo,
cuore, libertà, superiorità di spirito (cfr. 1 Cor. 2, 15), che solo il ministero sacerdotale voleva per sé confiscate.
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