Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

martedì 19 gennaio 2016

Discorso lungo, ma attualissimo di papa Paolo VI. Abbiate la pazienza di leggerlo con calma.

IL SACERDOTE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA 

Dobbiamo innanzi tutto ricordare alcune idee dinamiche, che percorrono oggi tutta la Chiesa, e che specialmente fra gli ecclesiastici suscitano non poco turbamento. La prima di queste idee riguarda la figura del prete. La si considera quasi sempre esteriormente,
nella sua posizione sociologica, nel quadro della società contemporanea, la quale, come ognuno sa, è tutta in movimento, tutta in trasformazione. Il prete, rimasto al suo posto, s’è visto abbandonato dalla sua tradizionale comunità; il vuoto s’è fatto intorno a lui, in molti luoghi; in altri la clientela pastorale si è cambiata; difficile avvicinarla, difficile capirla, difficile interessarla alle cose religiose, difficile ricomporla in una comunità affiatata, fedele, orante. Il prete, allora si è chiesto, che ci sta a fare in un mondo così diverso da quello ch’egli una volta assisteva? chi lo ascolta? e come può egli farsi ascoltare? Egli si è sentito un fenomeno sociale strano, anacronistico, impotente, inutile, perfino ridicolo. Ed ecco allora l’idea nuova e dinamica: bisogna fare qualche cosa, bisogna osare tutto per riavvicinarsi al popolo, per comprenderlo, per evangelizzarlo. L’idea, per sé, è ottima; e noi l’abbiamo vista germinare dalla carità del cuore desolato del prete, che si è sentito escluso dal mondo storico sociale e umano, in cui egli doveva trovarsi personaggio centrale, maestro e pastore; e in cui invece è diventato forestiero, solitario, superfluo e deriso. La incongruenza e la sofferenza di questa sorte si sono fatte intollerabili. Il sacerdote ha cercato ispirazione ed energia nella profondità e nell’essenza della sua vocazione. Bisogna muoversi, ha detto, e riprendere la «missione; e talvolta così lo ha detto a scapito anche della celebrazione del culto divino e della normale amministrazione dei sacramenti.
Ottima, diciamo, l’idea e segno d’una altissima coscienza sacerdotale. Il Sacerdote non è per sé, è per gli altri: il Sacerdote deve lui rincorrere gli uomini per farne dei fedeli, e non solo aspettare che gli uomini vengano a lui; se la sua chiesa s’è fatta vuota, egli dovrà uscire «per le piazze e i vicoli della città» in cerca della povera gente, e poi ancora «per le vie e lungo le siepi», e spingere invitati raccogliticci ad entrare (cfr. Luc. 14, 21-23). Questa urgenza apostolica preme sui cuori di tanti Sacerdoti, le cui chiese sono diventate deserte. E quand’è così, come non ammirarli? come non sostenerli?

PERFEZIONARE LE FORME TRADIZIONALI DI APOSTOLATO
Ma facciamo attenzione, proprio in omaggio del carattere sperimentale e positivo dell’apostolato. Primo: non è sempre così. Vi sono tuttora comunità di fedeli straripanti di numero e desiderose di regolare osservanza: perché lasciarle? perché cambiare per loro il metodo del ministero, quando questo è ancora autentico, valido e magnificamente fecondo? Non faremmo torto alla fedeltà di tanti buoni cristiani per tentare avventure d’esito incerto? E, secondo, quando basta aprire una nuova chiesa e accogliere con amorosa premura la gente che vi accorre spontanea e avida di parola divina e di grazia sacramentale, perché escogitare forme nuove e strane d’apostolato di dubbia riuscita e forse di precaria durata? Non conviene forse perfezionare quelle tradizionali, e farle rifiorire, come il Concilio c’insegna, di realismo pastorale di nuova bellezza e di nuova efficacia, prima di tentarne altre, spesso arbitrarie e di non sicuro risultato, o ristretto a gruppi particolari e staccati dalla comunione della plebe fedele? Oh! noi non dimenticheremo la parola di Gesù, che ci raccomanda di lasciare le novantanove pecorelle che sono al sicuro per andare in cerca dell’unica smarrita (cfr. Luc. 15, 4); e ciò specialmente se la proporzione, come oggi capita in certe situazioni, fosse contraria, quella cioè d’una sola pecorella al sicuro, mentre novantanove fossero quelle disperse: ma sempre il criterio della unità e della completezza del nostro gregge, il criterio dell’amore pastorale e della responsabilità nostra verso le anime e del loro inestimabile valore ci sarà di guida.
Bisogna fare attenzione. Il bisogno, anzi il dovere, della missione efficace e inserita nella realtà della vita sociale può produrre altri inconvenienti, come quello di svalutare il ministero sacramentale e liturgico, quasi fosse di freno e d’intralcio a quello dell’evangelizzazione diretta del mondo moderno: ovvero quello, oggi piuttosto diffuso, di voler fare del prete un uomo come qualsiasi altro, nell’abito, nella professione profana, nella frequenza agli spettacoli, nell’esperienza mondana, nell’impegno sociale e politico, nella formazione d’una famiglia propria con l’abdicazione al sacro celibato. Si parla di volere così integrare il Sacerdote nella società. È così che dev’essere concepito il significato della magistrale parola di Gesù, che ci vuole nel mondo, ma non del mondo? non ha Egli chiamato ed eletto i suoi discepoli, quelli che dovevano estendere e continuare l’annuncio del regno di Dio, distinguendoli, anzi separandoli dal modo comune di vivere, e chiedendo a loro di lasciare ogni cosa per seguire Lui solo? Tutto il Vangelo parla di questa qualificazione, di questa «specializzazione» dei discepoli che dovevano poi fungere da apostoli. Gesù li ha staccati, non senza loro radicale sacrificio, dalle loro occupazioni ordinarie, dai loro interessi legittimi e normali, dalla loro assimilazione all’ambiente sociale, dai loro affetti sacrosanti; e li ha voluti a Sé dedicati, con dono completo, con impegno senza ritorno, puntando, si, sulla loro libera e spontanea risposta, ma preventivando una loro totale rinuncia, un’immolazione eroica. Riascoltiamo l’inventario delle nostre spogliazioni dalle labbra stesse di Gesù: «Omnis, qui reliquerit domum, vel fratres aut sorores, aut patrem aut matrem, aut uxorem, aut filios, aut agros propter nomen meum . .» (Mt. 19, 29). E i discepoli avevano coscienza di questa loro personale e paradossale condizione; Pietro che parla: «Ecce nos reliquimus omnia, et secuti sumus Te» (ib. 27). Il discepolo, l’apostolo, il Sacerdote, l’autentico ministro del Vangelo può essere un uomo socialmente come gli altri uomini? Povero sì, come gli altri, fratello sì, agli altri; servitore sì, degli altri; vittima sì, per gli altri; ma nello stesso tempo dotato d’una funzione altissima e specialissima: «Vos estis sal terrae . . . Vos estis lux mundi»! Ed è chiaro, se abbiamo la nozione della composizione organica del corpo ecclesiale; S. Paolo non potrebbe al riguardo essere più esplicito: «Corpus non est unum membrum, sed multa . . . Quod si essent omnia unum membrum, ubi corpus? Nunc autem multa quidem membra unum autem corpus . . .» (1 Cor. 12, 14-21 ss.). La diversità delle funzioni è principio costituzionale nella Chiesa di Dio; ed essa riguarda in primo luogo il sacerdozio ministeriale: vediamo di non perderla questa specifica funzione per un malinteso proposito di assimilazione, di «democraticizzazione», come oggi si dice, nella società ambientale: «Se il sale diventa insipido, con cosa gli si renderà il suo sapore? Non è più buono ad altro che ad essere buttato via e calpestato dalla gente» (Mt. 5, 13). Sono parole del Signore, le quali devono fare riflettere al discernimento necessario nell’applicazione della formula ricordata: essere nel mondo, ma non del mondo. La mancanza di questo discernimento, del quale l’educazione ecclesiastica, la tradizione ascetica, il diritto canonico ci hanno tanto parlato, può proprio conseguire l’effetto contrario a quello che un suo incauto abbandono ci aveva fatto sperare: l’efficacia, il rinnovamento, la modernità. Può infatti essere così annullata l’efficacia della presenza e dell’azione sacerdotale nel mondo; l’efficacia che proprio si voleva ottenere quando si reagiva imprudentemente alla separazione del sacerdote dal resto della società. Annullata: nella stima e nella fiducia del popolo, e dalla pratica esigenza di dedicare ad occupazioni profane e ad affezioni umane: tempo, cuore, libertà, superiorità di spirito (cfr. 1 Cor. 2, 15), che solo il ministero sacerdotale voleva per sé confiscate.

Nessun commento:

Posta un commento