Carissimi,
leggendo con attenzione la Vostra lettera, ho ritenuto di dover
rispondere alle Vostre riflessioni innanzitutto a partire dall’esperienza della
Chiesa di Ventimiglia San Remo, da qualche anno fortemente coinvolta dal
fenomeno dell’immigrazione, passando da qui una delle principali rotte dei
migranti prevalentemente africani e provenienti dal Sud Italia.
Spesso
purtroppo siamo stati testimoni di drammi consumati alla frontiera
italo-francese, dove molti migranti giungono nel desiderio di oltrepassare il
confine presidiato dalla gendarmeria, alcuni scappando da situazioni
pericolose, altri per ricongiungersi a familiari, altri alla ricerca di un
lavoro, altri ancora per trovare fortuna e migliori condizioni di vita. Su
questo confine si sono consumate grandi tragedie umane, per la morte violenta
di uomini e donne (anche incinte) rimaste vittime di incidenti nel tentativo
di oltrepassare lo sbarramento francese, percorrendo di notte i binari della
ferrovia, la galleria dell’autostrada o il “sentiero della morte” sui monti.
A questo si aggiunga la proliferazione di situazioni di criminalità e di
business, ad opera dei cosiddetti “passeurs”.
Questa esperienza, unita
all’ascolto dei tanti immigrati che ho potuto incontrare nelle varie
strutture che la nostra Chiesa mette a disposizione, con il coinvolgimento di
tanti volontari e la generosità di tanti fedeli, mi consente di fare alcune
riflessioni in merito alla Vostra lettera.
Rifiutare, maltrattare,
sfruttare quanti si trovano in queste condizioni è intollerabile, come anche
il negare l’assistenza e le cure necessarie per la sopravvivenza è contrario
all’insegnamento del Vangelo e al rispetto di ogni diritto umano
fondamentale.
Mi sono chiesto più volte:
quale può essere il ruolo profetico della Chiesa in questa situazione?
Certamente, abbiamo dato, e continuiamo a farlo, pasti caldi, riparo e
supporti vari (mediazione, orientamento, soprattutto umanità) a chi versa in
condizioni di difficoltà e ha bisogno del necessario per vivere. Ma può
bastare questo per risolvere un problema di proporzioni sempre più gravi?
La Chiesa guarda al bene
integrale dell’uomo e di tutti gli uomini, tenendo conto che la sua azione
propria è di natura religiosa e morale, altrimenti non ci sarebbe nessuna
differenza con una qualsiasi delle ONG che si attivano per il trasporto dei
migranti nel Mediterraneo. La Chiesa è nata per perpetuare la presenza e
l’azione di Gesù Cristo Salvatore, essa parla alle coscienze e al cuore di
ogni uomo, traducendo e incarnando il suo annuncio in azioni concrete.
Rispetto ai problemi contingenti, come ricordava San Giovanni Paolo II,
intervenendo in un Simposio sulla Dottrina Sociale della Chiesa nel 1982: «la
Chiesa non ha competenze dirette per proporre soluzioni tecniche di natura
economico-politica; tuttavia, essa invita a una revisione costante di
qualsiasi sistema, secondo il criterio della dignità della persona umana». La
Chiesa, cioè, quanto al suo magistero, agisce non in nome di una competenza
tecnica, ma attraverso una seria riflessione cristiana che illumina i temi
della realtà sociale.
Di fronte a situazioni
complesse di carattere politico e sociale, spesso i fedeli, individualmente o
in gruppi particolari, possono assumere legittime e diversificate iniziative,
trovando sempre però nel Vangelo e nell’insegnamento sociale della Chiesa i
principi ispiratori delle loro azioni e delle loro scelte politiche. Le
scelte e i progetti dei singoli o dei gruppi di ispirazione cristiana possono
divergere, pur agendo da cristiani, senza per questo pretendere di agire a
nome della Chiesa o di imporre un’interpretazione esclusiva e autentica del
Vangelo. La Gaudium et spes, al n. 43, ha espresso questo principio in modo
inequivoco: «Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li
orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia altri
fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla
medesima questione, ciò che succede abbastanza spesso legittimamente. Ché se
le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni
delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio
evangelico, in tali casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare
esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa».
In un contesto complesso e
pluralista, compito della Chiesa è indicare principi morali perché le
comunità cristiane possano svolgere il loro ruolo di mediatrici nella ricerca
di soluzioni concrete adeguate alle realtà locali. Lo ha mirabilmente
espresso il Beato Paolo VI al n. 4 di Octogesima adveniens: «Di fronte a
situazioni tanto diverse, ci è difficile pronunciare una parola unica e
proporre una soluzione di valore universale. Del resto non è questa la nostra
ambizione e neppure la nostra missione. Spetta alle comunità cristiane
analizzare obiettivamente la situazione del loro paese, chiarirla alla luce
delle parole immutabili del Vangelo, attingere principi di riflessione,
criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della
Chiesa, quale è stato elaborato nel corso della storia, e particolarmente in
questa era industriale».
Tali precisazioni sono
importanti per giungere al cuore della mia riflessione, che ruota attorno
alla seguente affermazione: l’esperienza dell’emigrazione è dolorosa per ogni
uomo; soffre chi è costretto a lasciare la famiglia, la casa, la terra,
abbandonando affetti, costumi, lingua, cultura e tradizioni che compongono la
propria identità; soffre la famiglia privata di un suo componente e
smembrata; soffre la terra depauperata spesso delle sue risorse migliori. A
ciò si affiancano le difficoltà dei popoli occidentali nel realizzare una
difficile integrazione, spesso preoccupati – non sempre senza ragione – di
preservare la loro sicurezza e la loro identità culturale e religiosa.
Le lacrime dei tanti giovani
immigrati che ho incontrato in questi anni danno ragione della complessità
della vicenda.
Comprendo in questo senso le
parole di San Giovanni Paolo II, tratte dal Discorso al IV Congresso mondiale
delle Migrazioni del 1998: “il diritto primario dell’uomo è di vivere nella
propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono
costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”. Un
principio di giustizia sociale ribadito anche da Benedetto XVI che, nel
Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2013, ha
affermato il “diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere
nella propria terra”. Interpretando l’esperienza e la coscienza di tanti
profughi, spesso vittime di sogni e illusioni, ha commentato: “Invece di un
pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare
diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne
appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda
migratoria”.
Per questa ragione, oggi,
mentre affermiamo con Papa Francesco il dovere dell’accoglienza di chi bussa
alla nostra porta in condizioni di grave emergenza, occorre anche impegnarsi,
forse più di quanto non sia stato fatto, per garantire ai popoli la
possibilità di “non emigrare”, di vivere nella propria terra e di offrire là
dove si è nati il proprio contributo al miglioramento sociale. La separazione
e lo smembramento delle famiglie dovuto all’emigrazione rappresenta un grave
problema per il tessuto sociale, morale e umano dei Paesi d’origine.
L’emigrazione dei giovani rappresenta un grande depauperamento per l’Africa.
Spesso, inoltre, a emigrare sono i giovani istruiti, nell’illusorio sogno del
benessere europeo a portata di mano. Nell’impegno per l’accoglienza, si
finisce spesso per trascurare quanti restano in quei Paesi, che spesso sono
veramente i più poveri, anche culturalmente.
Fermo restando il diritto
per ogni uomo di cercare fortuna fuori dalla propria terra di origine, come
anche il dovere di accoglienza per i Paesi più ricchi del mondo, occorre
tuttavia tener conto del fatto che gli uomini, le donne e i bambini oggi
coinvolti nel fenomeno delle migrazioni sono – a mio parere – tre volte
vittime.
Innanzitutto sono vittime di
ingiustizie, di miserie, e spesso anche di guerra, che li costringono a
partire dai loro Paesi d’origine. Come possiamo tacere che tali situazioni,
direttamente o indirettamente, sono frutto di politiche coloniali antiche e
nuove? Il primo dovere di carità umana allora ci impone di aiutare questi
popoli laddove vivono, richiamando l’attenzione e l’impegno di tutti sulla
rimozione di queste ingiustizie e quindi anche delle cause che li spingono
all’emigrazione.
Desidero richiamare in
proposito l’appello che le Chiese africane hanno rivolto in più occasioni ai
loro figli più giovani: “Non fatevi ingannare dall’illusione di lasciare i
vostri paesi alla ricerca di impieghi inesistenti in Europa e in America” ha
detto Mons. Nicolas Djomo, Presidente della Conferenza Episcopale del Congo,
all’incontro panafricano dei giovani cattolici del 2015, invitandoli a
guardarsi dagli “inganni delle nuove forme di distruzione della cultura di
vita, dei valori morali e spirituali”, perché non si può pensare che gli
uomini siano come merci che si possono sradicare e trapiantare ovunque, se
non perseguendo un’idea nichilista che vorrebbe appiattire le culture e le
identità dei popoli. “Voi siete il tesoro dell’Africa; – ha aggiunto Djomo –
la Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi”.
Ancora più recentemente, dal
Senegal alla Nigeria, i Vescovi hanno avuto reazioni indignate di fronte ad
alcuni filmati che mostrano come vengono trattati alcuni migranti prima di
essere venduti in Libia come schiavi, per poi finire a fare i profughi in
mare aperto. “Non abbiamo il diritto di lasciare che esistano canali di
emigrazione illegale quando sappiamo benissimo come funzionano, tutto questo
deve finire” dice dal Senegal Monsignor Benjamin Ndiaye, Arcivescovo di
Dakar, che argomenta per assurdo: “meglio restare poveri nel proprio Paese
piuttosto che finire torturati nel tentare l’avventura dell’emigrazione”. A
lui hanno fatto eco più recentemente in Nigeria Mons. Joseph Bagobiri della
Diocesi di Kafachan e Mons. Jilius Adelakan, Vescovo di Oyo. I Pastori
riconoscono che la Nigeria è un Paese ricco di tante risorse, ma le
associazioni malavitose, che hanno contatti anche nei vari Paesi europei, e
anche in Italia, incoraggiano di fatto la tratta di esseri umani, alimentando
illusioni e false speranze, per un loro tornaconto.
In secondo luogo, oltre che
vittime di ingiustizie laddove vivono, i migranti sono spesso vittime di
rifiuto e di sfruttamento nei Paesi a cui approdano. Sono anche vittime di
condizioni strutturali che, al di là della buona volontà di chi accoglie, non
consentono sempre di dare loro quella fortuna che cercano. Come possiamo
dimenticare le difficoltà di lavoro che incontrano molti dei nostri giovani,
essi pure costretti ad andare a cercare altrove la prospettiva di un futuro?
In questo ambito si deve
considerare il difficile tema dell’immigrazione islamica, che pone un grave
problema di integrazione con la nostra cultura occidentale e cristiana.
Faccio riferimento a dati obiettivi, fonte spesso di problemi non
indifferenti, posti dalla difficile conciliazione di concezioni assai diverse
del diritto di famiglia, del ruolo della donna, del rapporto tra religione e
politica. Il tema è stato ben argomentato a suo tempo dal compianto Card.
Giacomo Biffi e molti sono i richiami in tal senso provenienti in questi anni
dai Vescovi che in Medio Oriente vivono quotidianamente queste difficoltà,
come ad esempio, il Vescovo egiziano copto di Alessandria, Mons. Anba Ermia.
Queste difficoltà sono ben note anche in alcuni Paesi europei, come la
Francia, dove l’integrazione è ancora di là da venire, come ci dimostrano le
tristi cronache di questi anni. Tuttavia mi preme precisare, come anche Papa
Francesco ha affermato più volte, che i fatti gravi di tipo sovversivo e
terroristico non sono fondamentalmente espressione di una guerra di
religione, essendo più variegate e complesse le motivazioni. Grandi passi sono
stati fatti sul piano del dialogo interreligioso. Per tornare al nostro tema,
le difficoltà di integrazione le vediamo anche nelle realtà più piccole dei
nostri centri, dove assistiamo alla creazione di veri e propri “quartieri
islamici”, che, con gravi tensioni tentano di impiantare le loro regole e le
loro tradizioni.
Anche Papa Francesco ha
sempre riconosciuto che la politica dell’accoglienza deve coniugarsi con la
difficile opera dell’integrazione “che non lasci ai margini chi arriva sul
nostro territorio” e proprio pochi giorni fa ha precisato che l’accoglienza
va fatta compatibilmente con la possibilità di integrare. L’esperienza di
questi anni ci ha dimostrato che gli immigrati spesso restano ai margini
delle nostre società, in veri e propri ghetti, in cui parlano la loro lingua
e introducono i loro costumi, come in comunità parallele, talvolta in
contesti di degrado. Per non tacere del grave fenomeno degli immigrati che
finiscono in mano alla malavita o agli sfruttatori del piacere sessuale.
In terzo luogo, i migranti,
già vittime di ingiustizie nei loro Paesi d’origine, costretti a subire
sfruttamento e gravi difficoltà nei Paesi di arrivo, soprattutto quando
scoprono che non ci sono le condizioni di fortuna sperate, sono vittime
insieme alle popolazioni occidentali di “piani orchestrati e preparati da
lungo tempo da parte dei poteri internazionali per cambiare radicalmente
l’identità cristiana e nazionale dei popoli europei”, come recentemente ha
ricordato Mons. A. Schneider. Senza ossessioni di complotti, ma anche senza
irresponsabili ingenuità, non possiamo nascondere che siano in atto tanti
progetti e tentativi volti ad annullare le identità dei popoli, perché
ciascun uomo sia più solo e debole, sganciato dai riferimenti culturali di
una comunità in cui possa identificarsi fino in fondo: lo possiamo costatare
dalla produzione legislativa europea sempre più lontana e avversa alle radici
della nostra civiltà. Se da una parte possiamo concordare che oggi non vi sia
una vera e propria guerra tra le religioni, dobbiamo però riconoscere che è
in atto una “guerra” contro le religioni, ogni religione, e contro il
riferimento a Dio nella vita dell’uomo. Spesso, giunti in Europa, i migranti
sentono anche il peso e la fatica di una visione di vita e di uno stile non
appartenenti alla loro storia e identità, siano essi cristiani, islamici o di
altra fede religiosa.
Come Vescovo, sento forte la
responsabilità di custodire il gregge che mi è stato affidato e di custodire
la continuità dell’opera della Chiesa nel nostro problematico contesto
sociale, presidio e baluardo di autentica promozione umana. Personalmente,
sono convinto che il futuro dell’Europa non possa e non debba rischiare verso
una sostituzione etnica, involontaria o meno che sia.
Tutte queste ragioni, che in
breve ho cercato di enucleare, danno ragione di quanto è affermato nel
Catechismo della Chiesa Cattolica, che al n. 2241, compendia la saggezza, la
prudenza e la lungimiranza della Chiesa:
“Le nazioni più ricche sono
tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca
della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile
trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga
rispettato il diritto naturale, che pone l’ospite sotto la protezione di
coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di
cui sono responsabili, possono subordinare l’esercizio del diritto di
immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare al rispetto dei
doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L’immigrato è
tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del
paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi
oneri.”
A questi principi di buon
senso e sapienza cristiana suggerisco di conformare l’agire sociale,
illuminati dal Magistero della Chiesa, del Papa e dei vostri Vescovi.
Consegno questo messaggio
con la più ampia libertà del cuore, non avendo da difendere posizioni di
privilegio, strutture o posizioni politiche, ma guardando alla complessità
del fenomeno in gioco, e alla varietà degli elementi di cui occorre tener
conto affinché in questa impegnativa congiuntura, come sempre, il Vangelo di Gesù
Cristo sia la bussola che orienta il cammino della Chiesa e degli uomini di
buona volontà per il bene integrale del singolo e dell’umanità intera.
+ Antonio Suetta
Vescovo di Ventimiglia – San
Remo
|
“Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”. Gilbert K. Chesterton
sabato 21 luglio 2018
Il Vescovo di Ventimiglia risponde alla lettera sull’immigrazione
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