III
L’UOMO IN FUGA
“Birba d’un figliolo! Non sei ancora finito
di fare, e già cominci a mancare di rispetto a tuo padre. Male ragazzo mio,
male! Quando le gambe gli si furono
sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché,
infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare” p. 13.
Il burattino, chiamato sorprendentemente a essere figlio, fugge dal
padre e proprio la fuga è vista come la fonte di tutte le sventure; così come
il ritorno al padre è l'ideale che sorregge Pinocchio in tutti i suoi guai.
“Poi il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è
diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora
egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e
viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché
lavorasse il suolo da cui era stato tratto” (Gen 3,22ss).
Questo è il risultato della disobbedienza umana; l’essere umano finisce fuori da ciò a cui era stato destinato.
L’uomo se vuole essere e vivere come tale, non può che camminare per
ritornare da dove è venuto. Il giardino di Eden è a Oriente. Non è un caso
che in tutte le chiese nell’antichità l’altare fosse rivolto verso Oriente. La
chiesa era come una nave (da qui la navata),
che veleggiava, spinta dal soffio dello Spirito Santo, verso il Suo Signore.
Scrive Benedetto XVI: "Seguendo san Paolo abbiamo visto …
due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso
della libertà creata, che intende emanciparsi dalla volontà divina. E
così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di
conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni
fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la
terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde
sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è
ora visibile dappertutto. …
La seconda
è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia
e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da
Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non
sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull'amore e sulla verità" (Catechesi 03.12.2008).
Noi parliamo di un peccato originale, “Ma come uomini di oggi dobbiamo
domandarci: che cosa è questo peccato originale? … Il dato empirico è che
esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve
fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente
anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo,
della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così
contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. … "C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo;
infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio"
(7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria.
Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi
la prevalenza di questa seconda volontà. …
Come conseguenza di questo potere del male
nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena
la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha
parlato di una "seconda natura" che si sovrappone alla nostra natura
originaria, buona. Questa seconda natura fa apparire il male come normale per
l'uomo. Così anche l'espressione solita: "questo è umano, ha un duplice
significato. "Questo è umano" può voler dire: quest'uomo è buono,
realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma "questo è umano" può
anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere
divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della
nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione.
E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà
creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: ….
La questione è: come si spiega questo
male? …
… la fede ci dice che non ci sono due
principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e
questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche
l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è
bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una
fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un
uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il
male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il
male viene da una libertà creata, da una libertà abusata.
Come è stato possibile, come è successo?
Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici,
sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini,
come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del
serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non
può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare;
neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una
realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito
un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce
è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo,
è sanabile. … E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato
di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia.
Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo
crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di
luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi
ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che
viene da Cristo è presente, è forte” (Benedetto XVI, Catechesi del mercoledì).
***
«Il Figliol prodigo
nella vita moderna»
1. La partenza
Jacques Joseph Tissot nasce a Nantes - città
portuale - nel 1836. L’ambiente geografico e familiare lo segna profondamente.
Si spiegano così il fascino per il mondo nautico, ricorrente scenario delle sue
opere, e la cura estrema e raffinata dell’abbigliamento dei suoi personaggi (il
padre dell’artista è un commerciante di stoffe, la madre una modista
disegnatrice di cappelli). Anche l’attenzione per i soggetti biblici - che si
manifesterà, in modo particolare e crescente, a partire dal 1862 - è
espressione dell’educazione religiosa ricevuta: il padre di Jaques è un
cattolico devoto, e farà studiare il figlio un collegio di Gesuiti. Seppure la
fede di Tissot sarà per molti anni “burrascosa” (con scelte di vita in netta
contrapposizione al suo credo), le sue radici non verranno mai meno, ed essa
diverrà, infine, determinante non solo a livello personale, ma anche
professionale, specie nell’ultima fase della sua carriera.
A Londra oltre a consolidare il suo successo
artistico, incontra quella che sarà per lui musa ispiratrice e grande amore
della sua vita: Kathleen Newton, giovane donna irlandese dal passato piuttosto
tumultuoso. La scelta di avviare con lei una relazione - scandalosa secondo i
canoni dell’Inghilterra vittoriana - determina un cambiamento nella vita sociale
e mondana del pittore, sebbene non ne faccia totalmente un “isolato”. Nel 1882,
Kathleen, malata di tisi, muore suicida.
Il colpo segna profondamente Tissot, che fa ritorno a Parigi. Qui avviene un’ulteriore svolta decisiva nella sua produzione artistica, ma anche - e soprattutto - sul piano interiore. Il pittore vive un periodo di crisi, si riavvicina alla fede cattolica e, a seguito di una forte esperienza, che lui definisce “mistica”, si converte definitivamente al cattolicesimo, tanto da decidere di dedicarsi ai soggetti religiosi (dipingendo prima una serie di quadri sulla vita di Gesù, e una serie di opere sull’Antico Testamento, poi) e di effettuare un viaggio in Palestina. Proprio a cavallo tra il 1880 e il 1882 (anno della svolta) Tissot torna a realizzare un tema già trattato, quello del Figlio prodigo, parabola anche della sua stessa esperienza di artista rientrato nella sua Patria, e di credente che riabbraccia la fede.
Tissot Muore a Chenecey-Buillon, nel 1902.
Il colpo segna profondamente Tissot, che fa ritorno a Parigi. Qui avviene un’ulteriore svolta decisiva nella sua produzione artistica, ma anche - e soprattutto - sul piano interiore. Il pittore vive un periodo di crisi, si riavvicina alla fede cattolica e, a seguito di una forte esperienza, che lui definisce “mistica”, si converte definitivamente al cattolicesimo, tanto da decidere di dedicarsi ai soggetti religiosi (dipingendo prima una serie di quadri sulla vita di Gesù, e una serie di opere sull’Antico Testamento, poi) e di effettuare un viaggio in Palestina. Proprio a cavallo tra il 1880 e il 1882 (anno della svolta) Tissot torna a realizzare un tema già trattato, quello del Figlio prodigo, parabola anche della sua stessa esperienza di artista rientrato nella sua Patria, e di credente che riabbraccia la fede.
Tissot Muore a Chenecey-Buillon, nel 1902.
IL CICLO DEL FIGLIO PRODIGO
Tissot dipinge il ciclo de «Il Figlio Prodigo
nella vita moderna» («The Prodigal Son in Modern Life») nel 1880, riprendendo
un tema ricorrente da ben vent’anni nella sua produzione pittorica. La
diversità sta però nella chiave di lettura, con cui egli presenta, questa
volta, il racconto evangelico. L’artista opta per un ciclo di quattro grandi
tele [2], che “scansionano” - emozione dopo emozione, colpo di scena dopo
colpo di scena - l’universo interiore dei protagonisti della parabola biblica
attraverso le principali tappe della loro storia. La narrazione viene
ambientata nell’Inghilterra dell’800 [3] e «mette al centro della scena l’eroe,
un giovane inglese che, stanco delle comodità della casa paterna, va in giro
per il mondo alla ricerca di distrazioni meno borghesi. Dopo mille disavventure
(tra cui l’incontro con le danzatrici giapponesi ricordato Nel Paese
straniero [4]) è costretto a fare ritorno» [5].
Il ciclo dei quattro dipinti a olio viene
affiancato da una serie di acquerelli e di acqueforti. Queste ultime sono
precedute da un’ulteriore immagine, un «Frontespizio» in cui l'artista
rappresenta una Bibbia aperta sulla pagina iniziale della parabola del Figlio
Prodigo, narrata nel Vangelo di Luca.
Il tema della ricerca
L’idea di Tissot è quella di fornire «un sommario
per le acqueforti che seguono» [8]. Tuttavia, questo sommario diventa un
tassello importante anche per la lettura del ciclo a olio.
Si tratta di una semplice introduzione? O non è,
piuttosto, un “indice ragionato”, lo strumento di “decifrazione” delle scene
successive? L’artista pone lo spettatore davanti a una serie di “indizi” per
una “caccia al tesoro”? Fornisce una “mappa” spirituale per l’uomo in cammino?
Il libro viene presentato come se stesse offrendo dei suggerimenti «a un devoto
lettore alla ricerca di risposte nelle Scritture» [9]. Questa idea è
visivamente indicata dall’angolino - piegato - della pagina sinistra (quella
d’inizio capitolo), dai segnapagine disseminati sui fogli che precedono la
Parabola, dal laccetto appoggiato - in basso a destra - sulle uniche parole
pronunciate dal padre in tutta la storia e, ancora, dall’idea generale di un
volume già utilizzato, “vissuto” dal lettore [10]. Le pagine successive al
capitolo 15 di Luca, non presentano, tuttavia, “promemoria”. È dunque tra le
righe di quella parabola, che il lettore deve trovare un responso ai suoi
quesiti?
Tissot sembra voler indicare questa soluzione. E lo fa in modo del tutto originale, attraverso la collocazione della vicenda del Prodigo in un contesto sociale e storico contemporaneo. La parabola che offre al credente il ritratto del Padre misericordioso, fornisce risposte confacenti anche al lettore-osservatore “moderno”. L’opzione ambientativa di Tissot diviene quasi una parabola nella parabola. Sbalzando la narrazione dai tempi di Gesù a duemila anni dopo, il pittore sembra voler invitare l’uomo di ogni epoca a specchiarsi nella tormentata - ma a lieto fine - vicenda del Prodigo, che attraverso le ribellioni e le autosufficienze, i successi apparenti e i fallimenti reali, i facili entusiasmi e le brucianti delusioni, l’orgoglio irrazionale e giovanile, le ammissioni di colpa e della propria miseria, comprende in cosa consista la vera ricchezza, e decide di fare ritorno nella sua vera “casa”. Ma il quadro pone anche una serie di interrogativi ulteriori, e si offre come un invito all’introspezione, attraverso la psicologia del figlio maggiore e della donna - unica “libertà pittorica” che l’artista si concede - e quella dell’anziano padre, tratteggiate attraverso gesti, sguardi, silenzi.
Oggi come ieri, in sintesi, il ciclo di Tissot si presenta - oltre che come opera d’arte di pregevole valore - anche come l’espediente per un’articolata riflessione sulla misericordia umana e divina, sulla capacità dell’uomo di cambiare o meno (evidenziata dai diversi atteggiamenti dei due fratelli) e sull’immutabilità dell’amore vero, che si mantiene fedele nonostante i tradimenti, le incomprensioni, e le attese.
Tissot sembra voler indicare questa soluzione. E lo fa in modo del tutto originale, attraverso la collocazione della vicenda del Prodigo in un contesto sociale e storico contemporaneo. La parabola che offre al credente il ritratto del Padre misericordioso, fornisce risposte confacenti anche al lettore-osservatore “moderno”. L’opzione ambientativa di Tissot diviene quasi una parabola nella parabola. Sbalzando la narrazione dai tempi di Gesù a duemila anni dopo, il pittore sembra voler invitare l’uomo di ogni epoca a specchiarsi nella tormentata - ma a lieto fine - vicenda del Prodigo, che attraverso le ribellioni e le autosufficienze, i successi apparenti e i fallimenti reali, i facili entusiasmi e le brucianti delusioni, l’orgoglio irrazionale e giovanile, le ammissioni di colpa e della propria miseria, comprende in cosa consista la vera ricchezza, e decide di fare ritorno nella sua vera “casa”. Ma il quadro pone anche una serie di interrogativi ulteriori, e si offre come un invito all’introspezione, attraverso la psicologia del figlio maggiore e della donna - unica “libertà pittorica” che l’artista si concede - e quella dell’anziano padre, tratteggiate attraverso gesti, sguardi, silenzi.
Oggi come ieri, in sintesi, il ciclo di Tissot si presenta - oltre che come opera d’arte di pregevole valore - anche come l’espediente per un’articolata riflessione sulla misericordia umana e divina, sulla capacità dell’uomo di cambiare o meno (evidenziata dai diversi atteggiamenti dei due fratelli) e sull’immutabilità dell’amore vero, che si mantiene fedele nonostante i tradimenti, le incomprensioni, e le attese.
1. LA PARTENZA
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei
due disse al padre: “Padre,
dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze» (Lc
15, 11-12)
«La partenza» immortala, più che il momento della
dipartita del figlio minore, l’atto simbolico di ciò che rappresenta la decisione
del giovane: la sua proclamazione di indipendenza e autosufficienza che segna
già il suo essere “fuori di casa”;l’incomunicabilità tra i personaggi, al di là
del linguaggio verbale e del gioco di sguardi; il dolore di un padre; la
chiusura interiore del figlio maggiore; un dramma familiare, che si consuma
dentro gli animi, più che tra le mura di una casa, ma anche il senso della vera
paternità: la capacità di lasciare liberi.
Un dramma di incomunicabilità
Dove, quando: la scena si svolge all’interno
del «salotto di un commerciante marittimo: una scrivania zeppa di libri
contabili e fatture. Conchiglie e una barca a vela modello decorano i suoi
ripiani superiori. Sul tavolo il vaso, i fiori e le vettovaglie, ma al di sotto
di esso, nella rappresentazione dei gattini neri. La presenza dei gatti neri,
potrebbe rappresentare un piccolo enigma, o diventare, all'interno del dipinto,
un elemento dal doppio significato. Se, infatti, nella pittura religiosa questo
animale è normalmente associato «all'immagine del diavolo e dell'oscurità, in
realtà al gatto sono state attribuite anche simbologie positive. Secondo
alcuni, in quanto abile cacciatore, può essere paragonato a Gesù cacciatore di
anime». Inoltre, a differenza di quanto accade in altri Paesi, in Inghilterra
il gatto nero non è considerato come simbolo di sventura, ma viene ritenuto un
portafortuna. In tal modo, la comparsa dei due micetti neri che giocano sotto
al tavolo, potrebbe diventare tanto la metafora del peccato che il prodigo sta
commettendo - ma di cui si renderà conto solo quando ritornerà in sé - così
come pure del lieto fine della storia, quando il giovane ritroverà l'armonia
con il Padre celeste e con quello terreno.
La casa si affaccia sulle rive del Tamigi e,
probabilmente, l’episodio narrato ha luogo verso l’ora del tea, come si evince
da tazze, bollitore e altri oggetti, disposti su un vassoio all’estrema
sinistra del tavolo, e dalla fioca luce che ammanta il paesaggio all’esterno e
la sala stessa. Sulla sedia all'estrema destra spicca, nella penombra, un
bagaglio già pronto. Nessuno sembra aver voglia di bere. La scena
lascerebbe presupporre che il figlio minore abbia comunicato la propria
decisione quasi come un fulmine a ciel sereno, interrompendo, proprio sul
nascere, un momento ordinario della vita di tutti i giorni: del vapore
fuoriesce dal bollitore, che probabilmente contiene ancora la bevanda calda, e
si è fatto appena in tempo a disporre sul tavolo solo una tazzina, prima che le
parole del giovane raggelassero l’atmosfera. Tissot riesce a calare
completamente la scena nel contesto vittoriano, in quanto la scelta del giovane
«è motivata dalle usanze inglesi: la legge della primogenitura lasciava spesso
i figli più giovani abbandonati alle loro sole forze, e l’opzione più
frequente», in questi casi, era che essi s’imbarcassero per l’India. Viene così
perfettamente trasposta la vicenda della parabola, in cui, nell'ambiente
ebraico originale, «il tipo di famiglia prospettato è quello patriarcale. Il
padre rappresenta l'autorità assoluta; poi viene il figlio maggiore che un
giorno si porterà via i due terzi dei beni liquidi (Dt 21,17) e probabilmente
l'intero patrimonio immobiliare. Che possibilità avrà il figlio più giovane di
essere indipendente, di crearsi una vita tutta sua, quando il padre morirà e a
lui toccherà soltanto un terzo dei beni e rimarrà senza proprietà? Meglio
pensarci subito, romperla con il proprio ambiente e andarsene lontano».
Gli spazi della solitudine interiore
La tensione emotiva che permea la scena viene
resa visibilmente palpabile attraverso una serie di elementi, in modo
particolare da quelli prospettici. In primo luogo, la ripartizione degli spazi
e la posizione dei personaggi. Le finestre formano una serie di angoli convessi
e concavi che danno l’idea di due grandi blocchi spaziali: quello in cui si
collocano il figlio maggiore e la donna accanto a lui (che ha le fattezze della
compagna di Tissot e che taluni, nel quadro, identificano come la moglie del
figlio maggiore) e quello in cui viene inserito il figlio minore.
Il padre si pone quasi integralmente al di fuori
di questi blocchi spaziali, come se fosse il personaggio più
equilibrato della storia. Tuttavia, le sue mani tese verso il
figlio minore simboleggiano la sua “paternità” che si mette in gioco, e il suo
entrare, senza invaderlo, negli spazi dei figli. È un padre che lascia libertà,
e che ama, nonostante il dramma di non essere compreso e, dunque, riamato. Il
gioco di angoli spigolosi delle finestre sembra trascrivere le spigolosità interiori
e caratteriali dei due fratelli, la cui distanza l’uno dall’altro è anche
sottolineata dalla loro posizione all’interno del dipinto. Il figlio minore
volge le spalle al fratello e alla donna. Non è interessato a dare loro alcuna
comunicazione. Si rivolge (apparentemente) solo al padre. La lontananza tra i
due fratelli è spaziale e interiore. L’uno si porta nell’angolo estremo della
stanza, l’altro lascia (o non ha mai occupato) la sua sedia, per sedersi sul
tavolo. La scena è permeata da una luce soffusa, ma calda. È come un riflesso
del calore paterno, contrapposto all'indifferenza e alle tortuosità
psicologiche ed emotive dei figli. Forse proprio questo calore farà riemergere
nel giovane la nostalgia di casa, quando si troverà «Nel Paese straniero» e
«nel bisogno» (Lc 15,14).
L’occhio, specchio dell’anima
Nessuno dei due fratelli guarda nella stessa
direzione, ma entrambi portano lo sguardo “oltre”, fuori dalla casa, ossia là
dove si “sentono” di essere o di voler andare. Il figlio maggiore sembra non
curarsi di quanto sta accadendo, e osserva, sporto alla finestra aperta, quanto
avviene in lontananza, sul fiume. In realtà, il suo volto esprime sentimenti di
insoddisfazione, malinconia e una punta di irritazione per quel padre che
asseconda il capriccio del figlio minore, ma non le sue richieste. È un
anticipo di quell’indignazione che manifesterà espressamente alla fine del
racconto lucano (Lc 15, 28). Tissot ha una visione d’insieme della parabola, e
traccia un quadro netto della caratterialità di questo figlio più grande che si
dimostra “immutabile” (in senso negativo) nel corso di tutta la storia, animato
(e dominato) da un senso di indifferenza emotiva verso gli altri, preso da un
senso del “dovere” che diviene per lui costrittivo e oppressivo, e che lo rende
incapace di comprendere tanto il fratello, quanto suo padre. Questo elemento
tornerà anche nei dipinti successivi del ciclo. La finestra aperta e lo sguardo
sul mare, sembrano sottolineare con forza il suo desiderio di evasione che,
tuttavia, non riesce a comunicare, a differenza di quanto sta facendo suo
fratello.
Il figlio minore, in posizione “predominante” -
in alto, sul tavolo - ha idealmente preso il posto di comando. Quello della sua
vita, ma, in un certo senso - almeno secondo l’idea originale della parabola -
anche quello all’interno delle regole familiari. Crede di avere un potere
superiore a quello di tutti gli altri personaggi, di poter dettare lui le
"condizioni". È colto in un atteggiamento difensivo e arrogante: mentre
tiene saldamente il portafogli nella mano destra, arretra leggermente il
braccio, rimanendo con lo sguardo fisso sul suo capitale, sulla “parte che gli
spetta”, quasi per impedire al padre di riprendere quel denaro e di
trattenerlo in casa. Il giovane non comprende che il gesto dell’anziano
genitore non è espressione di avidità o di possesso egoistico. I due figli -
ciascuno a modo suo - si sentono intrappolati, e i loro occhi riflettono ciò su
cui fissano desideri, rinfacci e rivendicazioni.
Il padre, al contrario, porta lo sguardo sul figlio: non gli interessano i soldi, ma la persona. Anche i suoi gesti lo dimostrano: con la mano sinistra, infatti, sembra quasi accarezzare la mano del figlio in fuga, mentre con la destra, pare quasi tracciare una benedizione, accompagnandola con il suo sguardo mite. Con una mano vorrebbe invitare alla riflessione quel ragazzo irruento e irresponsabile, con l’altra lo lascia libero. Il suo cuore sta vivendo il dramma del vero amore che concede libertà.
Il padre, al contrario, porta lo sguardo sul figlio: non gli interessano i soldi, ma la persona. Anche i suoi gesti lo dimostrano: con la mano sinistra, infatti, sembra quasi accarezzare la mano del figlio in fuga, mentre con la destra, pare quasi tracciare una benedizione, accompagnandola con il suo sguardo mite. Con una mano vorrebbe invitare alla riflessione quel ragazzo irruento e irresponsabile, con l’altra lo lascia libero. Il suo cuore sta vivendo il dramma del vero amore che concede libertà.
Un uomo aveva due figli
«La parabola inizia con il ricordo di un uomo che
aveva due figli. Il numero due indica il principio della diversità, perché in
due non si è più da soli. Ma nel caso specifico del racconto di Gesù i due
figli hanno un elemento comune che li unisce, almeno dovrebbe, nella loro
diversità: il padre. Nel sentirsi suoi figli si dovrebbero riconoscere fratelli
tra di loro. Per cui quel rapporto di diversità dovrebbe diventare, nell’unione
col padre, una relazione di armonia nel riconoscersi fratelli. Così la parabola
mette subito in chiaro quali siano i termini di riferimento, gli elementi
essenziali: prima di tutto riconoscere Dio come padre, fondamento che determina
il nostro rapporto di fratellanza. Infatti, ci si scopre fratelli gli uni degli
altri quando si ha la capacità di riscoprirsi figli e, se non riconosciamo in
Dio l’unico padre, difficilmente riusciremo a vedere nell’altro un nostro
fratello» [18].
Un padre che vede
«Dio è
Occhio, Dio è Vista» - scriveva J. Ratzinger. «Qui si cela anche una sensazione originaria dell’uomo, quella del
sentirsi conosciuto. Egli sa che una segretezza assoluta non esiste, che la sua
vita è sempre esposta allo sguardo di Qualcuno, che il suo vivere è un
esser-visto. Questa sensazione di esser-visti può suscitare nell’uomo due
reazioni opposte. Questo essere-esposto può turbarlo, farlo sentire in
pericolo, un essere limitato nel suo stesso ambito vitale. Sensazione che può
tramutarsi in irritazione e intensificarsi fino al punto da ingaggiare una
lotta appassionata contro il testimone invidioso della sua libertà, della
capacità illimitata del suo volere e agire».[1]
La storia del Prodigo - e dunque anche il quadro - pone la sottile domanda, a
ogni osservatore: “Ti lasci guardare da Dio Padre, o fuggi, per scappare da
lui?”.
Dinanzi alla misericordia
La
scena iniziale del ciclo del Prodigo interpella il fruitore anche da un altro
punto di vista. Venendo “immesso” nella scena, è come se lo si invitasse a
scegliere con che occhio guardare il “dramma della misericordia” che si sta
svolgendo dinanzi a lui.
Si prova pietà per il padre? Dispiacere per quel figlio minore scapestrato che vuole fare di testa sua? Irritazione per la “debolezza” dell’anziano? Compassione per il maggiore o per il minore? Disinteresse totale? La partenza del Prodigo è la scena metaforica di ogni dramma in cui si “scontrano” libertà dell’uomo e amore di Dio; la metafora di ogni luogo e tempo in cui la rottura del peccato innesca quel percorso che può portare alla redenzione o alla caduta definitiva; la parabola di ogni situazione in cui l’amore viene confuso con la debolezza, e l’arroganza con la libertà. Il quadro diventa un invito all’introspezione per chi lo guarda. La scelta di questo padre anziano, che decide di accondiscendere alla richiesta del figlio, è già in sé un atto di misericordia, di un amore che non vuole trattenere con la forza.
Con chi si identifica lo spettatore? Con il figlio maggiore, simbolo di chi si sente figlio di Dio solo per uno strano senso del dovere, per il rispetto delle “regole”, per il timore di perdere quello che ha (seppure gli sembri poco)? Con il minore, che si sente figlio al solo scopo di ottenere l’eredità, ma non per dare e ricevere amore? Con la donna - l’unico elemento estraneo alla parabola lucana - che sembra incarnare l’etichetta, la coscienza sociale, le regole mondane, l’opinione critica “del pubblico”? O con il padre, il solo capace di un gesto di vera libertà del cuore? O, ancora, si identifica in quella figura a cui Gesù punta, intessendo la storia del prodigo, ossia il figlio - fratello tra fratelli - di un unico Padre?
Si prova pietà per il padre? Dispiacere per quel figlio minore scapestrato che vuole fare di testa sua? Irritazione per la “debolezza” dell’anziano? Compassione per il maggiore o per il minore? Disinteresse totale? La partenza del Prodigo è la scena metaforica di ogni dramma in cui si “scontrano” libertà dell’uomo e amore di Dio; la metafora di ogni luogo e tempo in cui la rottura del peccato innesca quel percorso che può portare alla redenzione o alla caduta definitiva; la parabola di ogni situazione in cui l’amore viene confuso con la debolezza, e l’arroganza con la libertà. Il quadro diventa un invito all’introspezione per chi lo guarda. La scelta di questo padre anziano, che decide di accondiscendere alla richiesta del figlio, è già in sé un atto di misericordia, di un amore che non vuole trattenere con la forza.
Con chi si identifica lo spettatore? Con il figlio maggiore, simbolo di chi si sente figlio di Dio solo per uno strano senso del dovere, per il rispetto delle “regole”, per il timore di perdere quello che ha (seppure gli sembri poco)? Con il minore, che si sente figlio al solo scopo di ottenere l’eredità, ma non per dare e ricevere amore? Con la donna - l’unico elemento estraneo alla parabola lucana - che sembra incarnare l’etichetta, la coscienza sociale, le regole mondane, l’opinione critica “del pubblico”? O con il padre, il solo capace di un gesto di vera libertà del cuore? O, ancora, si identifica in quella figura a cui Gesù punta, intessendo la storia del prodigo, ossia il figlio - fratello tra fratelli - di un unico Padre?
2. NEL PAESE STRANIERO
«Il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose,
partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio, vivendo in modo dissoluto» (Lc 15, 13).
«Nel paese straniero» è la seconda tappa pittorica nella storia del Figlio prodigo. Il minore viene colto nel momento apparentemente più felice della sua nuova vita. Pienamente libero e totalmente indipendente, il giovane raggiunge (o sta per farlo) l’apice illusorio della "sua" parabola, quel tratto “ascendente” di chi pensa di potersi realizzare allontanandosi da casa.
I colori della solitudine
Dove, quando: Tissot identifica il «paese lontano» (Lc 15,13 )
della parabola con il Giappone. La scelta non è casuale, e neppure
semplicemente dettata dall’ampia distanza tra Inghilterra (“set” della prima
scena) e il Paese del Sol Levante. Il quadro si fa portavoce della passione per
l’arte giapponese che scoppia in Europa nella seconda metà del XIX secolo e che
si manifesterà in varie correnti pittoriche (una su tutte l’Impressionismo),
letterarie e musicali. Ecco allora che il giovane inglese protagonista della
parabola «nella vita moderna», «invece che nell’India britannica, finisce in un
ambiente, decadente, ciondolando e bevendo del sake stando seduto sul
tappeto, in compagnia di un bohemien, in quello che sembra
il quartiere d’intrattenimento di Yokohama».
L'ambiente "acquatico" - dato comune a tutto
il ciclo - è presente anche in questa tela, e spiccano tutti i tipici elementi
della moda del “Giapponismo” in voga all’epoca vittoriana: all’interno di una
sala da thè, «geishe danzanti in kimono, lanterne rosse, set da
thè, lampade esotiche, tavoli e padiglioni».
La luce naturale è ancora più fioca rispetto a quella
del quadro precedente, mentre quella artificiale si fa più accesa, come più
divampante è divenuta, per il Prodigo, la passione per i fatui piaceri mondani.
Si è al tramonto del sole o al suo sorgere, dopo una nottata passata tra i
divertimenti? La scelta luministica si rivela ideale per creare un sapiente
gioco di chiaroscuri, attraverso i tipici colori del Paese del Sol Levante, che
fanno risaltare maggiormente l’ambiente straniero in cui la scena viene ambientata,
ma anche la solitudine interiore dei personaggi, a dispetto dell’apparente
atmosfera festosa.
Gli spazi della solitudine interiore
Lo sfarzo del rosso delle lampade, il candore argenteo
dei kimono impreziositi da decori floreali e il biancore dei ventagli
sembrano stridere con il “grigiore” dell’abbigliamento tipicamente occidentale
del protagonista e del suo amico. Se lo spettatore ha l’impressione di
osservare una sorta di arazzo variopinto - che affascina lo sguardo per il suo
incanto cromatico - è pur più evidente, proprio per questi sapienti contrasti
creati a tavolino dal pittore, l’essere “straniero”, quasi “fuori posto” del
giovane che ha abbandonato la sua casa.
La tela,
nell'offrire l'idea di un ambiente festoso, sembra concorrere a esaltare la
bellezza femminile, ma in realtà mira a sottolineare sempre più lo stato di
decadenza in cui il giovane protagonista sta sprofondando.
L’occhio è lo specchio dell’anima
Nel calare
la scena in un ambiente giapponese, Tissot - oltre che dall’interesse per il
mondo nipponico - è mosso anche da un
intento dissacratorio (già presente in altre sue opere) nei
confronti del «puritanesimo vittoriano». Nella tela si fa strada la
"denuncia" della morbosità con cui la figura femminile viene
osservata dalla società contemporanea, in particolare dal mondo maschile [9].
In tal modo, l'artista riesce a rendere l’idea del degrado morale (oltre che
dello sperpero economico) cui va incontro il giovane della parabola, tanto più
che la figura della geisha, nel mondo occidentale era - ed è - spesso
erroneamente scambiata per una donna di facili costumi.
Nei volti dei personaggi non si palesa neppure un guizzo di felicità. Il giovane protagonista è colto nell’atto di brindare - forse per l’ennesima volta - ma i suoi occhi sono spenti e insoddisfatti. La sua solitudine interiore (probabilmente ancora soltanto inconscia) è ulteriormente sottolineata dal dettaglio della giovanissima geisha - quasi una bambina - che, pur stando al suo fianco, viene ritratta con gli occhi socchiusi e lo sguardo stanco, colta da noia o stanchezza. La tanto agognata indipendenza economica e decisionale, così fortemente desiderata dal ragazzo, si sta trasformando in un consumismo senza sentimenti, in un investimento senza interessi, in un ingabbiamento interiore che rischia di decretare la fine di ogni libertà.
Nei volti dei personaggi non si palesa neppure un guizzo di felicità. Il giovane protagonista è colto nell’atto di brindare - forse per l’ennesima volta - ma i suoi occhi sono spenti e insoddisfatti. La sua solitudine interiore (probabilmente ancora soltanto inconscia) è ulteriormente sottolineata dal dettaglio della giovanissima geisha - quasi una bambina - che, pur stando al suo fianco, viene ritratta con gli occhi socchiusi e lo sguardo stanco, colta da noia o stanchezza. La tanto agognata indipendenza economica e decisionale, così fortemente desiderata dal ragazzo, si sta trasformando in un consumismo senza sentimenti, in un investimento senza interessi, in un ingabbiamento interiore che rischia di decretare la fine di ogni libertà.
3. IL RITORNO
«Ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane
in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e davanti
a te; non sono più degno di essere
chiamato tuo figlio. Trattami
come uno dei tuoi salariati. Si
alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro,
gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15, 17-19)
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro,
gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15, 17-19)
«Il ritorno» rappresenta il momento clou della parabola.
Tutto viene descritto in un abbraccio. Intenso, drammatico, mozzafiato. È più
che un semplice rientro tra le mura di un edificio. Il Prodigo ha finalmente
compreso che la vera casa dell’uomo non è fatta di mattoni, denaro,
divertimenti, ma dello sicurezza dello "stare a casa"; che la dignità
della persona non si “costruisce” né si mantiene nella solitudine, ma nella
relazione; che la realizzazione personale non sta nello spendere, ma nel
condividere; che la solidità non consiste nell’ergere muri, ma nell’abbatterli.
Superare la solitudine
Dove e quando: la scena si svolge, ancora una volta, sulle rive del
fiume, nella luce delicata dell’alba o, più probabilmente, della sera. Lo
spettatore viene calato nel concitato clima di uno sbarco. È appena approdata una
nave, carica di bovini e maiali. In fondo al pontile, un uomo con un bastone
cerca, con fare minaccioso, di guidare gli animali, mentre un altro li spinge.
Proprio alle spalle del Prodigo, si consuma una scena similare. Così come nella
tela precedente, anche in questa lo spettatore è immerso in un contrasto
significativo: da un lato grida, grugniti di maiali, vociare d'altri
passeggeri, dall’altro l’abbraccio, nel silenzio, tra padre e figlio. Da un
lato la forza bruta della violenza, dall'altro la mite - ma non per questo
debole - potenza dell'amore.
Gli spazi della solitudine interiore
Il prodigo ha viaggiato in compagnia delle bestie
stivate nella nave, quasi animale tra loro nel degrado economico e morale
sperimentato nel suo tentativo di emancipazione. Tissot ricorre a questo
espediente per realizzare, all’interno di una sola scena, un riassunto di ciò
che accade tra «Nel paese straniero» e «Il ritorno». È come un sommario degli
eventi - ben conosciuti dal lettore della parabola - che hanno spinto il
giovane a prendere la sua decisione di ritornare da suo padre:
il suo trovarsi «nel bisogno» (Lc 15,14) e il suo ultimo tentativo di
autonomia, sottolineato, nel Vangelo, dalla pericope «andò a mettersi al
servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a
pascolare i suoi porci» (Lc 15,15). Il ragazzo aveva finito - forse ancora
inconsapevolmente - con il marcare la sua totale perdita di dignità
nell’equipararsi, in un certo senso, a quegli animali impuri per gli ebrei:
«avrebbe voluto saziarsi con le carrube dei porci» (Lc 15,16).
Ma la "discesa" del giovane non era finita qui. Altri esseri umani - altri uomini come lui - lo avevano spinto ancora più in basso, con la loro indifferenza e mancanza di solidarietà: «ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16). È qui che il Prodigo aveva vissuto il suo ultimo e definitivo “spazio” della solitudine. In terra straniera-pagana e in mezzo a gente straniera-pagana, considerato finanche meno di un animale. Il suo isolamento umano e spirituale si era fatto totale. Toccando il fondo della completa privazione di dignità, egli aveva fatto ritorno in se stesso, scoprendosi uomo, figlio, creatura amata e ancora una volta affamata, non soltanto più di cibo, ma anche e principalmente di amore. Tale presa di coscienza lo aveva portato a “rivendicare” ciò che egli “era" da sempre. Da qui il suo desiderio di ritornare da colui che lo aveva già “conosciuto”, amato. In questa prospettiva, il suo viaggio di ritorno, pur se compiuto in mezzo ai porci, non era più un permanere o un vagare in uno spazio di solitudine, bensì di comunione: ritrovata con se stesso, sperata con il padre. Il taglio prospettico del quadro è simile a quello utilizzato da Tissot in «Nel paese straniero». Il punto di fuga corre verso l’estrema sinistra, fuori dalla scena dipinta. Tuttavia, qui il pavimento appare leggermente irto, come a rendere simbolicamente visibile il percorso di “risalita” del Prodigo e l’apparente “abbassarsi” del padre per riabbracciare, riaccogliere suo figlio. La luce che inonda solo una parte del pontile sembra evidenziare il tragitto che il giovane ha compiuto verso suo padre, ed è quasi come un faro che conduce l’occhio verso i piedi del ragazzo e verso le sue gambe piegate (metafora di umiltà, ammissione di colpa, richiesta di perdono e, dunque, di amore?).
Sull’estrema destra del quadro, in un angolo angusto, compaiono il figlio maggiore e sua moglie. Si tratta di un interessante espediente narrativo adottato dal pittore. Nella parabola, infatti, il fratello maggiore non assiste al rientro del minore, venendone al corrente soltanto al momento del banchetto organizzato da suo padre per festeggiare l'evento. Collocando già ne «Il ritorno» il più grande dei due, Tissot ne tratteggia in maniera più evidente la psicologia, accentuando inoltre la drammaticità della scena. Avvolti nei loro cappotti neri, quasi bardati a lutto, il maggiore e la donna accanto a lui osservano la scena con disprezzo.
Ma la "discesa" del giovane non era finita qui. Altri esseri umani - altri uomini come lui - lo avevano spinto ancora più in basso, con la loro indifferenza e mancanza di solidarietà: «ma nessuno gli dava nulla» (Lc 15,16). È qui che il Prodigo aveva vissuto il suo ultimo e definitivo “spazio” della solitudine. In terra straniera-pagana e in mezzo a gente straniera-pagana, considerato finanche meno di un animale. Il suo isolamento umano e spirituale si era fatto totale. Toccando il fondo della completa privazione di dignità, egli aveva fatto ritorno in se stesso, scoprendosi uomo, figlio, creatura amata e ancora una volta affamata, non soltanto più di cibo, ma anche e principalmente di amore. Tale presa di coscienza lo aveva portato a “rivendicare” ciò che egli “era" da sempre. Da qui il suo desiderio di ritornare da colui che lo aveva già “conosciuto”, amato. In questa prospettiva, il suo viaggio di ritorno, pur se compiuto in mezzo ai porci, non era più un permanere o un vagare in uno spazio di solitudine, bensì di comunione: ritrovata con se stesso, sperata con il padre. Il taglio prospettico del quadro è simile a quello utilizzato da Tissot in «Nel paese straniero». Il punto di fuga corre verso l’estrema sinistra, fuori dalla scena dipinta. Tuttavia, qui il pavimento appare leggermente irto, come a rendere simbolicamente visibile il percorso di “risalita” del Prodigo e l’apparente “abbassarsi” del padre per riabbracciare, riaccogliere suo figlio. La luce che inonda solo una parte del pontile sembra evidenziare il tragitto che il giovane ha compiuto verso suo padre, ed è quasi come un faro che conduce l’occhio verso i piedi del ragazzo e verso le sue gambe piegate (metafora di umiltà, ammissione di colpa, richiesta di perdono e, dunque, di amore?).
Sull’estrema destra del quadro, in un angolo angusto, compaiono il figlio maggiore e sua moglie. Si tratta di un interessante espediente narrativo adottato dal pittore. Nella parabola, infatti, il fratello maggiore non assiste al rientro del minore, venendone al corrente soltanto al momento del banchetto organizzato da suo padre per festeggiare l'evento. Collocando già ne «Il ritorno» il più grande dei due, Tissot ne tratteggia in maniera più evidente la psicologia, accentuando inoltre la drammaticità della scena. Avvolti nei loro cappotti neri, quasi bardati a lutto, il maggiore e la donna accanto a lui osservano la scena con disprezzo.
L’occhio è lo specchio dell’anima
- Il figlio maggiore e sua moglie
Il figlio maggiore, a testa alta e con le mani in
tasca, serra in bocca uno stuzzicadenti (quelli di epoca vittoriana avevano una
foggia particolare ed erano inseriti in un supporto metallico); la donna al suo
fianco porta le mani al viso, in un impeto di stupore che la travolge. Si
tratta di meraviglia per il sorprendente gesto dell’uomo anziano, che la fa
prorompere in un singulto, lasciandola letteralmente “a bocca aperta”, oppure
la scuote e la disgusta la condizione di estrema indigenza in cui si è presentato
il figlio minore? La tracotanza del maggiore rimarca che quanto accade proprio
ora, sotto i suoi occhi, è fuori dalla sua comprensione, dai suoi schemi, dalla
sua idea di giustizia e di etichetta: suo fratello ha meritato di cadere così
in basso, perché ha violato le "regole del gioco".
In realtà, l’espressione glaciale e di distaccata
superiorità dell'uomo e quella stupita della donna al suo fianco sembrano
essere le due facce di una stessa medaglia. Entrambi esprimono fin d’ora quello
che si evincerà pienamente alla fine della parabola: «all’atteggiamento
misericordioso del padre, simbolo della misericordia divina, si contrappone nel
figlio maggiore l’atteggiamento dei farisei e degli scribi che si lusingano di
essere “giusti” perché non trasgrediscono alcun comandamento della legge». La
loro idea di amore è lontana anni luce da quella del "padre
misericordioso".
- Il padre e il figlio minore
Padre e
figlio sono come immersi in un’altra dimensione. Spiccano in primo piano, in
una sorta di tridimensionalità che - a differenza della resa piatta dei due
personaggi in abiti neri - sembra voler farli
balzare fuori dalla tela.
La corsa del padre - un padre che non aveva smesso di attendere quel figlio in arrivo (e che Luca descrive in 15,20: «quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò») - viene resa da Tissot attraverso il dettaglio del cappello caduto in terra e che sembra ancora in volo, prima di toccare il pavimento di assi; per mezzo della posa delle gambe ancora piegate, come quella di chi si arresta improvvisamente dopo una corsa; tramite le falde del cappotto che si incollano addosso all'anziano, per effetto del contraccolpo.
Il figlio minore si è letteralmente gettato ai piedi di suo padre. Nel ritrarlo inginocchiato dinanzi a lui, Tissot rende il senso del “peso” interiore che ha gravato sul suo cuore nel corso della travagliata "fuga" da casa, ma anche quello della liberazione per essersi disfatto di quella zavorra che gli impediva di essere uomo, figlio, fratello, amato. Il ragazzo, per quanto rivestito esteriormente di abiti lerci e poco alla moda, è ammantato di una compostezza e di una dignità interiore che ne trasfigura tutta la persona.
La corsa del padre - un padre che non aveva smesso di attendere quel figlio in arrivo (e che Luca descrive in 15,20: «quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò») - viene resa da Tissot attraverso il dettaglio del cappello caduto in terra e che sembra ancora in volo, prima di toccare il pavimento di assi; per mezzo della posa delle gambe ancora piegate, come quella di chi si arresta improvvisamente dopo una corsa; tramite le falde del cappotto che si incollano addosso all'anziano, per effetto del contraccolpo.
Il figlio minore si è letteralmente gettato ai piedi di suo padre. Nel ritrarlo inginocchiato dinanzi a lui, Tissot rende il senso del “peso” interiore che ha gravato sul suo cuore nel corso della travagliata "fuga" da casa, ma anche quello della liberazione per essersi disfatto di quella zavorra che gli impediva di essere uomo, figlio, fratello, amato. Il ragazzo, per quanto rivestito esteriormente di abiti lerci e poco alla moda, è ammantato di una compostezza e di una dignità interiore che ne trasfigura tutta la persona.
Il suo volto quasi scompare tra le braccia
dell’anziano genitore. A occhi chiusi si lascia inondare dal flusso dell’amore
paterno. Ha trovato la sua sicurezza. Non ha bisogno di posare lo sguardo su
nulla. Può fidarsi “ciecamente” di colui che l’ha accolto. Può sentirne il
calore senza bisogno di parlare. Non è necessario proclamare il suo discorso,
preparato nel momento della prova. Il padre ha già capito. Il figlio ha già
dimostrato. Nelle resa pittorica delle mani del giovane, Tissot sembra citare
le mani del padre del Prodigo della famosa opera di Rembrandt. Questa volta è
il figlio a esprimere la potenza del suo vissuto e dei suoi sentimenti
attraverso le mani: con una sembra carezzare il padre, con l'altra si stringe
vigorosamente a lui. In quelle mani c’è tutto il percorso di un giovane uomo
che ha imparato - a sue spese - a maturare, e che ha metabolizzato,
contemporaneamente, la forza necessaria per rialzarsi e la tenerezza per
chiedere perdono, per amare e per lasciarsi amare. Il padre accompagna la sua
accoglienza - possente e delicata - a una "carezza dello sguardo" su
quel figlio ritornato. In realtà, non ha mai smesso di osservarlo, di
"inseguirlo", di attenderlo.
I
[1] Benedetto XVI – J. Ratzinger, Il Dio di Gesù
Cristo, Queriniana, 2011, pp.11-12.
[3] J. Ratzinger - Benedetto XVI, Progetto di Dio.
Meditazioni sulla creazione e la Chiesa, Marcianum Press, 2012, pp.
116-118.
[4] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Guardare Cristo.
Esercizi di fede, speranza e carità, Jaca Book, 2009, p. 53
[5] Ibid. 57
[6] Ibid. 58
[7] Ibid. 61
[8] Ibid. 61
[9] Ibid. 75-77
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