Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

martedì 15 ottobre 2019

Per non accontentarsi

Da un articolo del 2014 di Alberto Brambilla de "Il Foglio"

  Molti sgranano gli occhi nell’apprendere da un recente rapporto dell’agenzia di rating Moody’s che il costante e sempre crescente invecchiamento della popolazione graverà sul pil globale negli anni a venire.
Nel 2020 il 20 per cento della popolazione avrà più di 65 anni in tredici paesi del mondo,
non più solo in Italia, Germania o Giappone, com’è noto. E anche i paesi emergenti, finora demograficamente tonici, come Thailandia, Russia, Cile, Cina, Brasile avranno più “capelli bianchi” di oggi. Ergo, dice Moody’s, la crescita globale rallenterà dello 0,4 per cento nei prossimi cinque anni e dello 0,9 tra il 2020 e il 2025. In termini pratici lo smottamento del pil deriva dalla riduzione della popolazione attiva, dell’attività economica, del risparmio e degli investimenti. Questo, specularmente, si tradurrà in un aumento della spesa previdenziale, del debito pubblico, della relativa spesa per interessi. I governi non troveranno rimedio migliore che aumentare le tasse. Ma non è lo stesso corso della crisi economica in atto? La “transizione demografica” lavora l’economia ai fianchi da vent’anni come un pugile implacabile. E allora perché stupirsi ora visto che è stata il terreno di coltura della crisi peggiore dagli anni Trenta?
  Ettore Gotti Tedeschi, banchiere ed economista che ha indagato gli effetti del crollo demografico su vari aspetti della società e dell’economia, sostiene da tempo che la crisi del 2008 si trascinava da quindici anni, ma che la sua genesi risale alla fine degli anni Settanta quando è cominciato il crollo delle nascite. “Se domandi a un consesso di economisti cosa l’ha causata, risponderanno il debito, i derivati, il boom della finanza. Sbagliato. Sono state tutte conseguenze e soluzioni errate per correggere un errore precedente: il crollo del pil determinato dal crollo della popolazione che è stato poi compensato dal consumismo”, dice in una conversazione col Foglio. “La vera domanda da fare al mondo quando si mette in discussione la natalità è: come fa a crescere il prodotto interno lordo se la popolazione non cresce? Gli illusi dicono che basterebbe fare investimenti in tecnologia e produttività, ma non li abbiamo fatti. Dicono che si possono aumentare le esportazioni, ma noi importiamo perché abbiamo deindustrializzato il mondo occidentale, il 60 per cento delle produzioni è andato in oriente. La risposta è stata una sola: si aumentano i consumi individuali, ergo non si risparmia più spendendo tutto progressivamente – in Italia negli anni Settanta il tasso di risparmio prodotto dalle famiglie era del 25 per cento oggi siamo sotto il 5, abbiamo trasferito il risparmio in consumi. Se viene a mancare il risparmio viene quindi a mancare la base monetaria del sistema bancario, le banche non hanno più quel flusso di capitale per finanziare gli investimenti e quindi s’inventano i derivati.
Ovviamente sacrificare il risparmio non basta, le famiglie si indebitano ed è questo che ha mantenuto in piedi la crescita economica negli ultimi quindici anni”. “L’effetto più importante che ha fatto scoppiare la crisi – sottolinea – è il conseguente invecchiamento della popolazione. Anche se resta uguale come numero cambia come struttura: se negli anni Settanta la percentuale di anziani che andavano in pensione, e dovevano essere sostenuti dal punto di vista sociale e sanitario, era circa il 12 per cento, oggi sono il 25-30 per cento, dipende dai paesi. Significa che abbiamo raddoppiato i costi fissi sociali, i costi della vecchiaia, e questo cos’ha provocato? Tasse. Per assorbire i costi si aumenta la pressione fiscale, che tra tra il 1975 e il 1980 in Italia era al 25 per cento e oggi è il doppio. Raddoppiando le imposte abbiamo ucciso i consumi e gli investimenti”.
“Se non capiamo che questa è la diagnosi, non possiamo studiare la prognosi”, dice Gotti Tedeschi, le cui tesi sono state spesso osteggiate in varie sedi. Il banchiere cattolico pregusta un’altra rivincita – di recente sono cadute le accuse infamanti, giudiziarie e personali, nei suoi confronti risalenti a quando amministrò l’Istituto per le opere religiose, la banca del Vaticano, dal 2009 al 2012 – dopo anni di studi e conferenze sull’ineluttabilità di un ritorno delle nascite come chiave per arrestare il declino economico e demografico. “Chi avanzava ipotesi simili veniva tacitato, ora ci anticipano dicendo che la soluzione non può essere quella di fare figli. Non stiamo più parlando di teoria ma di pratica. Questo non è un problema di carattere morale, il solito terreno sul quale viene spento il discorso anche da una certa ‘sinistra cattolica’. Per non parlare dei filosofi delle teorie neomalthusiane, intrinsecamente nichiliste, che hanno il terrore di sentirsi dire che dobbiamo tornare a fare figli”, dice Gotti Tedeschi (che ne ha cinque). Le teorie derivanti dagli studi del demografo inglese dell’Ottocento, Thomas Malthus, secondo il quale il mondo sarebbe stato talmente sovrappopolato da non potere più soddisfare i fabbisogni dei suoi troppi abitanti sono state riscoperte negli anni Settanta. Hanno influenzato un’intera generazione, quella delle battaglie abortiste e divorziste, e si sono propagate sotto forma di ricerche e studi di blasonati atenei americani, come Stanford e il Massachusetts Institute of Technology. A livello pratico i risvolti furono altrettanto significativi. Nel 1970 il governo indiano ordinò sterilizzazioni di massa. Nel 1980 la Cina adottò la “politica del figlio unico” (comincerà ad abbandonarla gradualmente entro i prossimi due anni).
  Nel 1974 le Nazioni Unite organizzarono la prima World Population Conference per discutere del controllo della popolazione. Fortunatamente il dibattito era talmente sterile che simili assise in pompa magna, programmate a cadenza decennale, non si sono più ripetute dopo l’ultima edizione del 1994 al Cairo. La “bomba demografica” tanto discussa e temuta non è mai scoppiata, anzi: dal 1975 la popolazione globale è passata da 4 a 6 miliardi, il problema è che nel mondo occidentale è rimasta stabile a 2 miliardi, il progresso è stato altrove. Nella capitale egiziana il prossimo mese si terrà un’altra conferenza delle Nazioni Unite per discutere anche del contrasto al cambiamento climatico globale. Una nuova “religione laica panteistica” (copyright Gotti Tedeschi), quella dell’ambientalismo, non meno insidiosa visti gli intrecci con la demografia. L’edizione globale del New York Times del 7 luglio, prendendo a pretesto la ricorrenza delle due conferenze cairote, proponeva ricerche a iosa sui benefici che un rallentamento (ulteriore?) della popolazione mondiale avrà sull’effetto serra. L’auspicio è che anche nella pur feconda Africa subsahriana il tasso di natalità s’arresti al 2,1 per cento (il tasso di sostituzione, cioè due figli per coppia) quanto basta per mantenere la popolazione costante: “Così sfamare gli abitanti della regione sarà più facile, la deforestazione non sarà più un problema e si ridurrà sensibilmente il tasso di anidride carbonica nell’atmosfera”.
Gioiscono per la recessione demografica anche altri “esperti” che invece hanno avuto eco sulla stampa di casa nostra. Michael Teitelbaum di Harvard e Jay Winter di Yale hanno trovato ospitalità sulle colonne di Repubblica con la loro ultima ricerca sulla “diffusione globale della infertilità” esposta nell’articolo intitolato “Bye-Bye Baby” del 28 aprile. Svolgimento: evviva! La diminuzione delle nascite non fa più distinzioni tra nord o sud, est o ovest del mondo: la “denatalità spazia” dal Brasile all’Iran, dal Bhutan al Salvador, dall’Armenia al Qatar, ed è una svolta epocale tutta positiva perché associata ai maggiori diritti femminili, e contribuirà a uno sviluppo sostenibile. Poco importa se i “soliti pessimisti” come l’Economist o Jonathan Last (autore di “What to Expect When No One’s Expecting: America’s Coming Demographic Disaster”), oppongono la drammatica evidenza dei fatti. D’altronde il sillogismo “meno culle, meno crescita” è lì da sempre. Emergeva già dalle cronache dello storico Polibio nel 150 a. C., quando a causa di una generale diminuzione della popolazione e del tasso di natalità in Grecia, le città s’erano trasformate in deserti e le campagne avevano smesso di dare raccolti. Nel 1938 fu l’economista americano Alvin Hansen, studioso della teoria keynesiana, a sostenere che il crollo della popolazione attiva in un sistema capitalistico a trazione industriale, come quello americano, avrebbe disincentivato le imprese a investire perpetuando così lo stato semicomatoso dell’economia.
  Lo stato dell’economia, o la percezione che se ne ha, influenza a sua volta le scelte di vita. Adam Smith individuò nell’incertezza economica uno dei fattori del calo della fecondità. La correlazione tra l’aumento della disoccupazione e la diminuzione di matrimoni e convivenze è invece dimostrata dalla demografa francese France Priux. Il che spiega come mai in America la risposta istintiva alla recessione del 2009 è stata quella di posticipare progetti di vita in coppia per il 20 per cento dei giovani (18-24 anni) interpellati dal Pew Research Center. Va da sé che quando l’economia rifiata, la natalità tende a recuperare.

Tuttavia i condizionamenti, le ideologie e gli auto-convincimenti scoraggianti sono parecchi, sociali, economici e culturali: “Ci viene insomma detto che fare figli non conviene, è indecente, danneggia l’ambiente: fare figli in sostanza non serve”, è la brutale sintesi di Gotti Tedeschi. Il riscatto, o la speranza di esso,  può dunque essere ricercato a cominciare da una riforma dell’uomo, dalla riscoperta intima del senso di una vita che merita di essere vissuta appieno. “La risposta in questo caso – dice Gotti Tedeschi da cattolico – viene dall’enciclica di Benedetto XVI ‘Caritas in Veritate’, dove la crisi economica è spiegata magistralmente, e dalla successiva ‘Lumen Fidei’, vergata da Papa Francesco, che rappresenta il capitolo successivo: bisogna rifare l’uomo, l’emergenza è soprattutto educativa. Abbiamo dentro di noi la visione della creazione, cioè che la vita ha un senso.
 Il positivismo relativista invece nega la vita. L’uomo nichilista ha ormai confuso fini e mezzi ma come può prescindere da dei valori solidi in un momento di così forte globalizzazione?”, aggiunge il banchiere. Il risultato è che spesso si antepongono delle supposte esigenze materiali alla prosecuzione naturale della vita come frutto del rapporto di coppia, oppure ci si riduce a trasferire l’amore paterno e materno su dei surrogati. Papa Francesco in un’omelìa a Santa Marta lo scorso giugno ha così esternato il problema con un ammonimento: “I matrimoni sterili per scelta, che non vogliono i figli, che vogliono rimanere senza fecondità non piacciono a Gesù”. “Questa cultura del benessere di dieci anni fa, che ci ha convinto che è meglio non avere i figli, così tu puoi andare a conoscere il mondo, in vacanza, puoi avere una villa in campagna. Così tu stai tranquillo… Forse è più comodo avere un cagnolino, due gatti – ha aggiunto – e l’amore va ai gatti e al cagnolino” ma “alla fine, questo matrimonio arriva alla vecchiaia in solitudine, con l’amarezza della cattiva solitudine. Non è un matrimonio fecondo”.
  Il Vicario di Cristo ha parlato dall’epicentro di una crisi demografica globale: l’Europa, dove la crescita economica langue e il rifiuto della vita assume i connotati di un’estinzione autoindotta che pare assurda agli occhi di chi ci guarda (“davvero il sesso è diventato solo un gioco per voi? Probabile, ma in questo modo mi pare stiate percorrendo una via pericolosa che porta all’estinzione”, si domandava ad esempio l’economista americano Arthur Laffer, parlando col Foglio). Ora l’economia leader dell’Eurozona, quella tedesca, ha una crescita incostante e soffre una demografia deprimente, guida le classifiche per invecchiamento della popolazione e per bassa natalità. Un problema che la cancelleria di Berlino non ha affrontato. Non a caso ieri Moody’s, stante il giudizio positivo per un’economia altamente competitiva – soprattutto grazie alle riforme del mercato del lavoro dei primi anni Duemila – se vorrà essere l’unico paese dell’area euro a conservare la tripla A dovrà guardarsi dal “calo della forza lavoro e una popolazione sempre più in là con gli anni che potrebbero avere effetti negativi sul tasso potenziale di crescita e sulla sostenibilità dei sistemi di welfare”.
  La Germania è scossa da un “baby choc”: negli ultimi dieci anni ha “perso” due milioni di bambini non nati e vede soltanto otto nuovi neonati ogni mille abitanti, tasso che si ridurrà del venti per cento nelle prossime due generazioni.  Sull’incubo “estinzione dei tedeschi” s’interrogava anche la Bild ed è uno spauracchio che contagia anche la Grecia, agli antipodi della crisi dell’eurodebito. Nel 2011, per la prima volta, il numero di residenti in Grecia è sceso e i decessi hanno superato le nascite. Se la “carestia” europea proseguirà di questo passo, con tassi di fecondità che non sono mai scesi così in basso, così rapidamente e ovunque, nemmeno all’epoca della peste,  gli stati europei “dovranno dichiarare fallimento”, dice con una certa enfasi il sociologo americano Ben J. Wattenberg.
Anche in Italia i decessi superano le nascite, di 86 mila unità, una tendenza che si è affermata già nei primi anni 90 e che recentemente si è accentuata pesantemente: il gap si sta allargando. L’anno scorso il numero di nati (514 mila) ha toccato il minimo storico dal 1861, anno dell’Unità d’Italia, e quest’anno molto probabilmente resterà sotto tale soglia a giudicare dalla contrazione delle nascite dei primi due mesi dell’anno (meno 4 per cento).  La “piramide dell’età” si sta rovesciando: la popolazione invecchia costantemente con una quota di 65enni che rappresenta il 22 per cento della popolazione. Quota simile in Germania (23,1) e in Giappone (26,4). Tra cinquant’anni nel nostro paese ci saranno 1,2 milioni di ultra 95enni, con un costo di circa 7 miliardi l’anno ove ricevessero un ipotetico assegno d’accompagnamento da 500 euro al mese. L’idea che l’immigrazione possa rappresentare una soluzione duratura, come spesso si dice, è discutibile e soprattutto non aggredisce il problema. Come dice al Foglio il demografo Gian Carlo Blangiardo dell’Università Bicocca di Milano, “oggi arrivano immigrati che saranno presto anziani e anche loro avranno bisogno di cure. Se di fatto acquistiamo persone in gran parte istruite, e quindi risparmiamo sui costi di formazione, è ben altro bilancio quello che si prospetta sul welfare.
  Dobbiamo dunque ripetere – dice Blangiardo – che l’unico efficace antidoto all’invecchiamento demografico va cercato non all’esterno ma dentro a una società che sia in grado di riconoscere e valorizzare, come un investimento, il contributo che ogni neonato, a prescindere dal passaporto, è in grado di offrire”. Blangiardo, tra gli altri, sostiene che sia necessario prendere provvedimenti collegiali e d’impatto (a proposito vengono spesso citate le politiche abitative, il social housing sul quale è attiva la Cassa depositi e prestiti) capaci di scoraggiare il rinvio della scelta genitoriale, meglio se da giovani (le maggiore parte delle donne diventa madre tra i 34 e i  39 anni). I ragazzi lasciano il “nido” sempre più tardi.  La percentuale di giovani, tra i 18 e i 34 anni, a casa coi loro genitori è aumentata dal 60 al 64 per cento negli ultimi quattro anni, dice Eurostat. E a volte chi si trova in difficoltà economiche, anche in più in là con l’età, è costretto a ritornare dai genitori che magari dispongono di una discreta pensione. Convivenza tra i figli del “baby boom” e gli artefici, incolpevoli, del “baby crash” odierno. Finora governi politici o tecnici non hanno inciso. Il governo Berlusconi aveva elaborato, nell’ambito dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia, un Piano nazionale di politiche per la famiglia che da anni è fermo alla presidenza del Consiglio. Ultimamente s’è avanzato un non meglio precisato Piano per la fecondità. Molti osservatori ormai ritengono sia ora, anche qui, di affrontare il calo demografico come un’emergenza economica grave.

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