Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

venerdì 12 agosto 2011

Il pentimento 3

Il pentimento consiste nel cadere nelle braccia di Dio
C’è in me il desiderio del bene,
ma non la capacità di attuarlo (Rm 7,18).
C’è un terribile ostacolo che ha trattenuto molti dal compiere il passo verso il pentimento. Alle soglie del pentimento si ferma il peccatore che fa appello alla sua volontà ma non trova materiale neanche per iniziare una sola opera buona: allora egli paragona se stesso a quelli che hanno ottenuto misericordia e perdono, perde coraggio e sprofonda in un grande sconforto e rammarico, considerando il pentimento come un dovere troppo faticoso. Questo è un inganno dell’Avversario!
Chi ha detto che il pentimento consiste nel far appello alla volontà, in un atto di coraggio o di forza, nella realizzazione di qualche impresa? Al contrario, il pentimento non è forse cadere nelle braccia di Dio, gettarsi ai suoi piedi senza più volontà propria, con il cuore ferito che sanguina di dispiacere e le membra distrutte dal peccato che non hanno più la forza di rialzarsi se non per la misericordia di Dio? Cristo ha paragonato colui che si pente a un forestiero che è caduto nelle mani dei briganti in un paese straniero. Questi lo spogliano dei suoi abiti, lo derubano, lo umiliano, lo feriscono lasciandolo più morto che vivo.
Chi si pente è come un uomo spogliato dell’abito dell’onore dal demonio: la sua volontà è stata messa a nudo e le sue membra contaminate. Il diavolo lo deruba del suo tesoro, che consiste della sanità di mente, nella luce interiore e nella voce della coscienza: così la sua persona è umiliata, la sua caduta svelata, la sua volontà frantumata. Da ultimo il diavolo lo ferisce in profondità con la bramosia di morire al più presto possibile: ed è così che alla fine gli lascia solo un corpo morto, incapace di vivere. Per questo il buon samaritano non ha possibilità di far domande né il tempo di muovere rimproveri: lo prende immediatamente fra le braccia.
Il buon samaritano della parabola (Lc 10,30-37) è Cristo, e la nostra interpretazione coglie esattamente nel segno: Cristo non rimprovera chi si pente, né gli chiede di compiere qualche azione, ma gli va incontro di persona proprio dov’è caduto, si curva su di lui con affetto, lava e fascia la ferita di quello con la propria ferita, arresta lo spargimento di sangue con lo spargimento del proprio sangue, versa su di lui l’olio della sua compassione e della sua vita, lo porta sulle braccia della sua misericordia, gli offre una cavalcatura fino alla locanda della sua chiesa, chiedendo ai suoi angeli di servirlo e spendendo la sua grazia per lui fino alla guarigione.
Questi è colui che si pente: un miserabile che è caduto lungo la strada dopo essere stato attaccato dall’oppressione dell’uomo e dalla malvagità del demonio, e non è più in grado di fare nulla. Dopo che le forze lo hanno abbandonato, egli trova rifugio nella casa del Compassionevole, trova rifugio nel suo cuore, fra le sue braccia, sulla sua cavalcatura e nel suo regno.
Cristo ha strappato il peccato dalle viscere dell’uomo
I figli sono arrivati sul punto di nascere,
ma manca la forza di partorire (Is 37,3)
Quella qui descritta da Isaia è anche la condizione del peccatore quando sta sulla soglia del pentimento, in una lotta disperata nella speranza della salvezza e di una vita nuova. Quando infatti si volge a guardare il passato che ha rovinato piange, e quando aspira al futuro che lo attende si perde d’animo, perché si rende conto che la mancanza di forza ha invaso tutto il suo essere e che non è più capaci di tirarsi fuori dal fango, vincolato com’è dalla sua debolezza. Il peccato è come la malattia che fa appassire le piante: una vola che ne aggredisce una, non la lascia più finché le tenebre della morte non la circondano da ogni parte. Questa è proprio la natura del peccato, che si diffonde in tutto l’essere dell’uomo per scacciarne lo spirito vitale.
Il peccato non solo ci indebolisce, ma ci uccide. Quando Cristo è venuto sapeva che eravamo “morti per le colpe e i peccati” (Ef 2,1). La persona morta a causa del peccato era già stata concepita nell’iniquità e dopo un certo tempo il travaglio di morte si è abbattuto su di lei. La nascita nel peccato è una condanna e una vera e propria morte che il peccatore avverte dentro di sé. Ma Cristo ha strappato il peccato dalla viscere del peccatore e così ci ha riscattati da una morte inevitabile. Egli è entrato al posto del peccato nelle profondità del nostro essere e ha preso corpo nella nostra più recondita intimità. La creatura che noi siamo è stata rinnovata: dopo che la morte ha dominato su di noi, ora regna in noi la vita, e il travaglio di morte è stato mutato nella gioia della vita e della liberazione. Cristo si è sottoposto alla morte per salvarci da una simile morte e sta ancora continuando la sua opera di salvezza.
È davvero incredibile che un uomo giusto possa morire al posto di un peccatore, ma Dio non è come l’uomo. Tutto quanto è incredibile e impossibile Dio lo compie quando “dimostra il suo amore verso di noi, morendo per noi mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8).
Perciò il peccato del peccatore, la sua estrema ignominia dovuta a quel peccato latente nel suo intimo, l’odore di morte che pervade il suo essere a causa dell’iniquità della sua vita precedente, tutto questo è stato misurato da Dio nel suo profondo amore e ha trovato uno sbocco nella venuta del Figlio di Dio nella carne della Vergine; venuta che ha fatto nascere dal seno di Maria un frutto di vita al posto del frutto di peccato concepito dall’uomo.
Invece della mancanza di forze propria del travaglio di morte, di cui Isaia parla come di qualcosa di inevitabile per l’uomo, Dio ha adombrato il grembo della Vergine con la sua potenza infinita, in modo che venisse alla luce un uomo. Ma che nascita, poiché quest’uomo è nato da Dio!
Al peccatore è chiesto di avere fiducia nell’opera compiuta da Cristo attraverso la nascita e la croce, affrontate a motivo del peccato, dell’assoluta mancanza di forze e della morte di una persona. Al peccatore non è chiesto altro che allungare la mano come l’emorroissa (cf. Lc 8,43) e di toccare il mantello del Salvatore. Allora si renderà conto di come la potenza del Signore gli viene incontro per dimorare in lui. Il flusso di sangue si arresta, la debolezza è mutata in forza e la morte fugge via di fronte alla vita!
Non stenderai anche tu la mano per ricevere una parte di quella forza e cessare di essere debole o morto? Ricordati di questo quando, durante la Settimana santa, esclami con il coro dei fedeli: “Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato” (Es 15,2; Sal 118,14).
Se vuoi sapere come la potenza di Dio può scorrere in te, ricordati di Gerico: le sue mura non crollarono sotto i colpi delle spade o della guerra, ma al grido di vittoria nel nome del Signore. Ricordati anche di come il Giordano si aprì sotto i piedi dei sacerdoti. Questa stessa potenza del Signore è sempre pronta per il debole e l’afflitto, per chi è turbato e oppresso.
Non lo sai forse?
Non lo hai udito?
Dio eterno è il Signore,
creatore di tutta la terra.
Egli non si affatica né si stanca,
la sua intelligenza è inscrutabile.
Egli dà forza allo stanco
e moltiplica il vigore dello spossato.
Anche i giovani faticano e si stancano,
gli adulti inciampano e cadono;
ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,
mettono ali come aquile,
corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi (Is 40,28-31)

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