Riprendiamo sul nostro sito l’intervento che l’allora
cardinale di Bologna Giacomo Biffi pronunciò durante il Meeting di
Rimini il 29/8/1997. Al testo della relazione abbiamo tolto i passaggi
relativi alla circostanza del Congresso Eucaristico che si sarebbe
tenuto in quell’anno. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione
se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli
aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di
facilitare la lettura on-line.
Io credo che questa sia una occasione
preziosa per accostarsi ad una personalità eccezionale di uomo, di
cristiano, di pastore, che oggi è meno conosciuto di quanto meriterebbe,
e di andare alla scuola di un maestro che ha molte cose interessanti da
dirci. […]
In Ambrogio, nei suoi atti e nelle sue parole, tutti hanno sempre ammirato l’energia, energia che non si affievoliva ma che piuttosto si accresceva nelle difficoltà. Attraverso il suo coraggio di resistere ad ogni prepotenza, di esprimersi con franchezza di fronte all’autorità anche più alta e la sua capacità nelle varie vicissitudini di coniugare fermezza e serenità, sant’Ambrogio appariva davvero un capo e non solo entro i confini dell’organizzazione ecclesiastica. Un episodio rivela questo: quando Ambrogio è in punto di morte, il primo ministro dell’impero, il conte Stilicone, alla notizia di questa malattia dice: “Alla dipartita di un sì grande uomo, la rovina sovrasta l’Italia”, e gli manda a dire di non morire. Ambrogio dà una risposta famosa: “Non vita vixit ut me vivere et pudeat, nec timeo mori quia Dominum bonum habemus”: non ho vissuto così male da aver vergogna di andare avanti a vivere, ma non ho neanche paura di morire perché abbiamo un buon padrone davanti al quale fare il proprio rendiconto.
Eppure, questa virilità si accompagnava ad una dolcezza di temperamento che lo faceva, per esempio, attento e simpatico indagatore dell’animo femminile. Questo è un aspetto che di solito non è molto rilevato. Non per niente Ambrogio, che ha commentato quasi tutti i libri dell’antico testamento, ne ha commentato uno solo del nuovo testamento, il vangelo di Luca, l’evangelista delle donne, il vangelo in cui le donne compaiono con diverse figure. Ambrogio si avventura ad esplorare con congetture affettuose, analitiche, la segreta psicologia di Maria, la fanciulla chiamata a diventare la madre di Dio. Ma ci sono anche alcune connotazioni che sono rare negli antichi Padri. Per esempio sa cogliere con finezza anche le vibrazioni dell’amore coniugale, come quando nel commento al Salmo 118 descrive lo stato d’animo della giovane moglie del navigante che ha l’uomo in mare, “la quale – le parole sono sue – dalla duna sulla riva aspetta l’arrivo dello sposo, e ogni imbarcazione che scorge si illude che a bordo si trovi il consorte, e teme che sia un altro prima di lei ad avere il piacere di vedere l’amato e di non essere lei la prima a dire: ‘Io ti ho visto, io ti ho visto per prima!’”. C’è un episodio del vangelo interessante, ripreso da Ambrogio. La madre di Giacomo e di Giovanni figli di Zebedeo va da Gesù a dirgli: guarda i miei figli come sono bravi, sono i più bravi di tutti. Quindi ti raccomando, quando conquisti il Tuo regno, mettine uno a destra e uno a sinistra. Uno primo ministro, uno vice primo ministro. Questa donna ha suscitato l’indignazione degli altri dieci apostoli prima e di tutti i Padri della Chiesa poi, con la sola eccezione di Ambrogio. Ambrogio dice: cosa vi meravigliate? Se non pensava la madre a cercare di far fare carriera ai figli, chi doveva pensarci? “Anche se sbagliava – dice Ambrogio -, sbagliava per amore, perché le viscere materne non conoscono la pazienza. Anche se esosa nella sua richiesta, è scusabile il suo desiderio. Ella non pensava a sé ma ai figli. Pensate che è madre, considerate che è madre”.
In Ambrogio è presente e forte anche il senso dell’amicizia e del valore dell’amicizia. La raccomanda a tutti, specialmente ai sacerdoti. “Conservate l’amicizia che avete stretta coi vostri fratelli, perché è la più bella fra le cose umane. È un conforto in questa vita avere una persona a cui aprire il proprio cuore, confidare i propri segreti, affidare gli intimi pensieri del proprio animo”. Per capire con quale attenzione lui l’abbia personalmente coltivata, la cosa migliore è ricordare un delizioso biglietto che Ambrogio indirizza al suo amico, il vescovo Felice di Como, dove dice: “Mi hai mandato dei tartufi e per giunta di straordinaria grossezza. Così che le loro proporzioni lasciavano a bocca aperta. Non ho voluto, come suol dirsi, nasconderli in grembo, ma ho preferito farne mostra ad altri, perciò ne ho destinati una parte agli amici e una parte ne ho tenuta per me. È stato un regalo gradito, non però tale da soffocare il mio lamento legittimo perché da tanto tempo non ti decidi a farmi visita, nonostante l’affetto che nutro per te”.
Ambrogio era piccolo di statura e gracile di complessione. Il professor Ballabio, anatomopatologo, attraverso l’esame fatto alle sue ossa ha trovato che era affetto da una certa malformazione delle ossa. Nonostante questa fragilità fisica, sapeva affrontare i potenti con impavida fierezza. Ma era anche facile al pianto: si commuoveva davanti ad ogni tipo di miseria umana. “Fu straordinariamente sollecito verso i poveri e i prigionieri”, scrive il suo biografo e suo segretario Paolino. Quando fu ordinato vescovo offrì alla Chiesa e ai poveri tutto l’oro e l’argento che possedeva. E i poderi, di sua proprietà, li donò alla Chiesa, riservandone l’usufrutto alla sorella e non tenendo per sé nulla che potesse dir suo. Questa disposizione a favore di Marcellina, la sorella, ci dimostra che la sua era una carità che non si metteva mai in contrasto né col buon senso, né con le responsabilità umane che aveva. A questo proposito è utile rileggere le raccomandazioni che fa ai suoi sacerdoti in materia di carità: “specialmente i sacerdoti devono usare criterio, in modo da distribuire, non per esibizione ma con senso di giustizia, perché con nessun altro c’è maggiore avidità nel chiedere. Si presentano uomini robusti, vagabondi di professione, che vogliono carpire i sussidi dei poveri e dare fondo ai mezzi disponibili. Non contenti del poco, esigono sempre maggiori aiuti; cercano di ottenere soddisfazione alle loro richieste ostentando abiti dimessi, e falsando la loro condizione familiare si sforzano di far salire il loro guadagno. Se si presta a loro fede si esauriscono in un batter d’occhio le riserve destinate al mantenimento dei poveri”.
D’altra parte, pur essendo così saggio e prudente, in certe occasioni è stato capace anche di compiere degli atti audaci e insoliti, rischiando anche le incomprensioni che non mancano mai in questi casi, come quando fece infrangere e vendere i vasi sacri per avere di che riscattare i prigionieri. Lui si difende e dice: “Una volta io fui aspramente criticato perché spezzai i vasi sacri per riscattare dei prigionieri. Io ho preferito consegnarvi degli uomini liberi piuttosto che tenere sotto chiave dell’oro. Questa moltitudine di prigionieri liberati, questo schieramento è più bello della bellezza dei calici”.
Il suo buon senso si rivela anche in alcune regole di saggezza pastorale che Agostino anziano ricordava ancora. Ambrogio dava ai vescovi, ai parroci e, fatte le proporzioni, ai sacerdoti, tre consigli fondamentali: il primo di non combinare matrimoni, perché “presto o tardi i coniugi litigano e finiscono per maledire il vescovo che li ha fatti conoscere”. Il secondo è di non fare raccomandazioni alle cariche pubbliche perché qualche comportamento non del tutto lodevole finisce per ricadere sul vescovo. Il terzo è di non accettare inviti a pranzo nella propria città, perché questo crea gelosie, permali e qualche volta fa anche abusare un po’ e uscire da una regola di austerità.
Ambrogio ha composto un trattato di morale modellandolo su quello di Cicerone, il De officiis, e questo gli ha assicurato una fama di moralista, che è confermata anche da tutti i suoi scritti volti sempre a delineare l’ideale del credente, che deve tendere ad esprimere in ogni azione, in ogni situazione esistenziale, la ricchezza e la bellezza della vita nuova che l’ha trasformato. Proprio perché Ambrogio è primariamente pastore, ha come sua attenzione dominante il comportamento dell’uomo che è rinato in Cristo.
Vorrei però sottolineare due cose che non sempre si sanno. Come protagonista di tutte le vicende del suo tempo, egli è indotto a formulare opinioni anche in materia sociale e politica, opinioni che possono anche sorprendere e che, a chi fosse in vena di concordanze superficiali e improbabili, potrebbero essere qualificate di sinistra. Se ad un quiz televisivo ci fosse la domanda: “Chi è un autore nato a Treviri che dice che la proprietà privata della terra è una specie di furto?”, credo che i più informati direbbero Karl Marx, nato a Treviri come sant’Ambrogio. È forse per questa lontana parentela che Ambrogio dice: “La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e i poveri. Perché voi ricchi vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo?”. E ancora: “Il Signore Dio nostro ha voluto che questa terra fosse proprietà comune di tutti gli uomini e che fornisse frutti che fossero di tutti. È stata l’avidità a ripartire i diritti di proprietà”. È chiaro che Ambrogio aveva davanti da una parte il latifondo del patriziato romano e dall’altra la fame di molta gente che non riusciva a mangiare.
Sul piano del diritto costituzionale, ed è la seconda cosa poco nota, è interessante notare che dopo quattro secoli di accentrato potere monarchico la repubblica non c’era più; lui che era stato un alto funzionario dell’impero e che era sempre stato leale verso l’imperatore, non ha dubbi a dire di preferire la forma di governo democratica e repubblicana. È una conclusione alla quale arriva riflettendo – può apparire un po’ strano, ma tutta la realtà per Ambrogio è unitaria, perciò da ogni particolare si può risalire sempre al tutto – sull’abitudine di volo delle gru. Dice: “Una va innanzi alle altre per il tempo ad essa stabilita e, per così dire, fa da esploratrice. Poi si volta e cede a quella che segue l’incarico di guidare lo stormo. Cioè si alternano. Che c’è di più bello del fatto che la fatica e l’onore siano comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi ma passi dall’uno all’altro, senza eccezioni, come per una libera decisione? Questo è l’esercizio di un ufficio caratteristico dell’antica repubblica, quale conviene in un Stato libero. Così da principio gli uomini avevano cominciato ad attuare una organizzazione politica ricevuta dalla natura sull’esempio degli uccelli. In modo cioè che la fatica fosse comune, comune la dignità, ciascuno imparasse a dividersi a turno le responsabilità, venissero ripartire obbedienza e comando. Nessuno fosse escluso dalle cariche. Nessuno esente dalla fatica. In questa situazione politica ideale nessuno insuperbiva per l’esercizio ininterrotto del potere né si abbatteva per il lungo servire, perché da un lato, l’avanzamento, conferito com’era secondo un ordine di funzione e per un periodo limitato, non suscitava invidia, dall’altro sembrava più tollerabile perché comportava un comune compito di sorveglianza”. E va avanti per pagine e pagine a dedurre dal volo delle gru l’ideale del suo ordinamento statale.
Come si vede, gli interessi di questo vescovo di Milano erano molteplici e disparati: forse ho dato l’impressione di una certa frammentarietà, in realtà tutto in lui è unificato dalla passione per Cristo, per la Chiesa e per l’uomo. Di qualunque cosa stia parlando, qualunque libro della sacra scrittura stia commentando, i suoi discorsi riguardano sempre questi tre punti: Cristo, la Chiesa e l’uomo. Una sua frase che ritorna spesso è: Omnia nobis est Christus, “Cristo è tutto per noi”, anzi dice Ambrogio: “Non solo è tutto adesso, ma è il principio di tutto, dall’inizio, anche della creazione”, Semen omnium Christus, “Cristo è il seme di tutte le cose”. Questo è il principio del cristocentrismo.
L’uomo è il capolavoro della creazione: credo che non ci sia nella letteratura cristiana antica una pagina così alta e commossa come quando Ambrogio descrive l’uomo come microcosmo, il vertice della bellezza della creazione. Ma nello stesso tempo l’uomo è anche la creatura più miserevole, proprio per la sventura, per il peccato, per il male che lo sovrasta. Il Signore Gesù si identifica misticamente con il popolo dei credenti, che secondo l’intuizione di san Paolo è la sua sposa e il suo corpo. Ed è sempre il Signore Gesù ad essere amato nell’uomo, sua immagine viva.
È molto interessante notare, ed è una caratteristica che si trova in tutti i Padri della Chiesa antica, che Gesù per Ambrogio non è soltanto un argomento quasi unico delle sue riflessioni, è anche l’interlocutore principale dei suoi discorsi: di qualunque cosa stia scrivendo, ad un certo punto si mette a parlare con Gesù Cristo. Sembra quasi che lo veda davanti al suo tavolo: ogni tanto alza gli occhi, si mette a parlare con lui e poi riprende il discorso. Quasi per una propensione naturale e invisibile ogni sua considerazione spontaneamente diventa un colloquio con il suo Signore. Gesù è l’unico che può salvare; l’uomo è grande e miserabile, e una creatura così miserevole ha bisogno di trovare pietà. D’altronde un essere così grande e prezioso non può andare perduto. Sant’Ambrogio è sicuro che l’uomo deve essere salvato, il suo è un ottimismo teologico che non ignora affatto il peccato e la sua gravità. Ma nel suo ottimismo Ambrogio si spinge più lontano di tutti: secondo lui la stessa nostra miseria nativa fa parte di un progetto di elevazione, sicché c’è, paradossalmente, qualcosa di positivo nella colpa, dal momento che Dio la vede come premessa necessaria alla manifestazione della misericordia, misericordia che per Ambrogio è il senso ultimo e la ragione decisiva di tutta l’azione creatrice. Sarebbero decine i testi da citare, mi limito a quello più stupefacente, il finale dell’Hexaemeron, l’opera in cui egli aveva commentato e descritto tutte le opere create: “Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna e le stelle, e non leggo che si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che, a questo punto, si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati”. Finalmente Dio ha trovato quello che voleva, un uomo da poter perdonare. Da questo non si può dedurre che si può peccare, anzi fare quanti più peccati possibile in modo da essere perdonati: al contrario, si deve dedurre la necessità di pentirsi, di fare tanti pentimenti in modo che la misericordia del Signore possa arrivare a toccarci. Siamo stati creati per mezzo di Cristo e per mezzo di Cristo siamo stati redenti.
Tra questi due interventi, la creazione e la redenzione, c’è correlazione e connessione strettissima. Il secondo, oltrepassando il primo in valore, lo porta a compimento. L’azione di riscatto è in realtà più sublime dell’azione creatrice e merita una gratitudine più intensa. Sia la creazione che la redenzione sono opera di Cristo. Gesù Cristo è costituzionalmente salvatore: si capisce allora come abbia dovuto e voluto essere solo nell’operare la nostra salvezza. Non ci sono altri salvatori, nessuno ha potuto affiancarsi a Lui in questa impresa. “Era solo – scrive Ambrogio – il Signore Gesù quando redense il mondo. Infatti né un ambasciatore, né un messo, ma lo stesso Signore da solo, venne a salvare il suo popolo. Per quanto non sia mai solo Colui nel quale è sempre il Padre”. E ancora: “Perché solo Lui può riscattare? Perché nessuno può essere puro come Lui. Tutti infatti vivono sotto il regno del peccato. Tutti soggiacciono alla caduta di Adamo. Può essere certo come redentore solo colui che non può essere soggetto dell’antico peccato. Non c’è nessun altro salvatore perché qualunque altro sarebbe esso stesso bisognoso di redenzione”. Ed è un salvatore universale. Quando si tratta dell’azione di Cristo, la specificazione che non manca mai è “di tutti”. Salvatore di tutti. Se è unico è anche universale.
Ambrogio era anche un poeta e l’immagine che gli è cara è quella del sole: come il sole, il Figlio di Dio si dona senza riserve. Tutti sono raggiunti dal suo flusso benefico. Tutti tranne quelli che deliberatamente gli chiudono in faccia le finestre dell’anima. Sentiamo cosa dice lui: “Questo nostro sole sorge ogni giorno su tutti, così quel mistico sole di giustizia è sorto su tutti, è venuto per tutti, ha sofferto per tutti ed è risorto per tutti e ha sofferto proprio per togliere il peccato del mondo. Ma se qualcuno non crede in Cristo si priva da sé di un bene offerto a tutti. Allo stesso modo se qualcuno chiude le finestre e non lascia entrare i raggi del sole, ciò non vuol dire che il sole non sia sorto per lui, perché è stato lui a privarsi del suo calore”. E come il sole, Gesù si offre ma non si impone: è discreto. Chiede che gli si apra ma non usa violenza: “Colui che viene e bussa alla porta vuol sempre entrare. Se uno bussa vuol dire che vuole entrare. Ma è colpa nostra se non sempre entra e se non sempre poi resta. Al suo arrivo sia spalancata la tua porta. Apri la tua porta. Allarga il tuo cuore. Vai incontro al sole della luce eterna che illumina ogni uomo, quella vera fonte di luce che risplende sì per tutti, ma chi terrà chiuse le sue finestre si priverà da solo della luce eterna. Anche Cristo quindi viene lasciato fuori se tu chiudi la porta del tuo spirito. Egli avrebbe la possibilità di entrare ma non vuole farvi irruzione come un seccatore (importunus), non vuole imporre la sua presenza a chi non lo gradisce”. In virtù di questa natura salvifica il Signore Gesù non è lontano da nessun uomo, è il più vicino. “Egli – dice Ambrogio – è il prossimo, il prossimo di tutti: lui che a tutti elargì misericordia togliendo il peccato del mondo. Gesù, se possiamo concederci una sgrammaticatura, è il più prossimo. Perciò quando si parla del precetto dell’amore non bisogna mettere in contrasto l’amore per Cristo e l’amore per il prossimo perché in realtà anche l’amore per Cristo è l’amore per il prossimo. Perché Lui è prossimo prima e più di ogni altro. Siccome nessuno è maggiormente prossimo di Colui che guarì le nostre ferite, amiamolo sì come Signore ma amiamolo anche come prossimo. Niente infatti è tanto prossimo quanto il capo alle membra”.
A questo punto io vorrei precisare ulteriormente il nostro problema: è proprio vero che l’unica strada per salvarsi è quella del Cristianesimo, quella della conoscenza di Cristo, dell’accettazione di Cristo? Non si danno altre strade per arrivare alla salvezza? Chi ha letto Ambrogio non ha dubbi. La risposta di Ambrogio è implicita nella visione nitida e appassionata che egli ha del Signore Gesù e della sua singolarità totalizzante e omnicomprensiva. È impensabile che in questo pensiero si diano altre ipotesi. Ma Ambrogio ha avuto anche un’occasione di rendere esplicito il suo pensiero. È un episodio molto interessante, la controversia con Simmaco, prefetto del senato circa il ripristino in senato dell’altare della dea vittoria. L’altare, che era sempre stato nel senato di Roma, era stato rimosso dall’imperatore Graziano, ma, nel 384, morto Graziano e succedutogli Valentiniano II, che era appena un ragazzo e che era sotto l’influenza di Giustina, che era ariana, il prefetto del senato chiede con un esposto all’imperatore che questo altare pagano venga ricollocato. Ambrogio si oppone e invia un controesposto. E noi abbiano la fortuna di poter leggere tutte e due i documenti che ci danno testimonianza di un dibattito illuminante anche per la personalità degli interlocutori.
Ambedue romani autentici, gli ultimi veri romani, formati alla stessa cultura classica e probabilmente anche parenti fra di loro, perché Simmaco era alla lontana cugino di sant’Ambrogio. Anche se può sembrare paradossale, la posizione di Ambrogio in questa discussione è la più laica. “In senato – egli dice – ormai siedono insieme senatori pagani e senatori cristiani. Allora non è giusto che la coscienza di qualcuno sia ferita dai segni esteriori di un culto che non è più accettato da tutti”. Simmaco, per qualche aspetto, sembra invece il più religioso. Egli è convinto che un segno religioso ci debba essere. “Senza una religione manifestata, non ci si difende abbastanza dalla prevaricazione e dall’iniquità. Quindi ci vuole un segno religioso dove si discute e si decide del bene comune”. Dovendo mettere un segno religioso, sembra ovvio mettere il segno che c’è sempre stato e che tra l’altro rappresenta la continuità spirituale della romanità. Continua Simmaco: “È giusto ritenere una sola identica cosa ciò che tutti adorano. Noi contempliamo i medesimi astri. Il cielo ci è comune. Lo stesso mondo ci avvolge. Che importa quale sia la dottrina che ciascuno segue per la ricerca del vero! A un così grande mistero non si può giungere per un’unica strada”. Ambrogio non si lascia incantare dall’abile eloquenza di Simmaco e ribatte: “I pagani parlano sì di divinità in termini nobili e forbiti ma in pratica la loro religione si risolve nell’omaggio a un idolo muto e inerte che è indegno dell’uomo”. È una religione che disonora l’uomo. All’argomento più sottile e più seducente di Simmaco egli oppone che tutte le strade per andare a Dio sarebbero accettabili se Dio stesso non si fosse rivelato, se Dio stesso non ci avesse indicato positivamente l’itinerario da seguire. “Mi insegni il mistero del cielo lo stesso Dio che l’ha creato, non l’uomo che non ha nemmeno conosciuto se stesso. Sul conto di Dio a chi devo credere se non a Dio che si è rivelato? Come posso credere – ragiona Ambrogio – a voi che confessate di non conoscere ciò che adorate?” “A un così grande Mistero – dice Simmaco – non si può giungere che per un’unica strada”. “Ma ciò che voi ignorate – replica Ambrogio – è che la strada unica noi l’abbiamo appreso dalla stessa voce di Dio, e che ciò che voi cercate attraverso ipotesi noi lo conosciamo con certezza, dalla sapienza stessa di Dio e dalla sua verità”. Conoscendo il pensiero generale del vescovo di Milano oseremmo parafrasare così questi testi: l’evento del Figlio di Dio fatto uomo, morto in croce per la nostra salvezza, mette fuori gioco ogni irenico relativismo. Non tocca più all’uomo decidere quale sia il percorso che a lui convenga per arrivare alla divinità, dal momento che la stessa divinità ha fissato in Cristo un percorso obbligatorio per tutti. L’ideologia che ritiene tutte buone, tutte relative, le diverse religioni, va a infrangersi ormai contro il fatto, il fatto unico e imparagonabile della redenzione operata da Cristo.
Bisogna a questo proposito fare una precisazione: questa decisa affermazione dell’unicità della via di salvezza non va intesa affatto come una deroga al convincimento dell’esistenza in Dio di una volontà salvifica universale, va anzi assunta e interpretata alla luce di tale principio. Ambrogio su questo punto è chiarissimo più di ogni altro scrittore antico e le sue pagine non suscitano nessun problema, nessuna perplessità. Il Padre vuol davvero che tutte le sue creature arrivino a Lui. Troverà Lui la strada. Ma la strada è la sua, non quella che decidiamo noi che deve essere. Cristo è dunque salvatore universale proprio nel senso, come già si è visto, che nessuno può perdersi, se non perché con un atto personale suo si sottrae a quella divina misericordia che in Cristo si manifesta e si attua. Misericordia che certamente sa trovare modi a noi imprevedibili di conseguire la sua finalità.
Simmaco non è morto, la sua voce insinuante si fa ancora sentire nella redazione dei giornali, nei pronunciamenti degli opinionisti, nelle infinite chiacchiere del nostro tempo. “Che importa quale sia la dottrina che ciascuno segue per ricercare il vero! A un così grande mistero non si può giungere per un unica strada”. Purtroppo questa voce trova qualche ascolto persino nelle coscienze confuse di molti cristiani. Perciò crediamo che non sia stato inutile aver dato la parola anche al suo grande antagonista. Al pensiero debole dell’antico prefetto di Roma si contrappone ancora efficacemente la ragione forte e la fede dell’antico pastore milanese.
La questione centrale del nostro tempo è quella di Cristo, anche all’interno della cristianità illanguidita. Noi non ci accorgiamo che a furia di aprirci a tutti, finiamo per emarginare Cristo, lo riteniamo superfluo, un optional nel meccanismo della salvezza. Convenzionalmente si ritiene che sia più che altro la Chiesa a essere incompresa e contestata, nel suo magistero, nella sua azione a favore dell’uomo, nella sua provvidenzialità e, in ultima analisi, nella sua natura di corpo di Cristo e quindi nel suo mistero di umanità divinizzata. Tutto questo è certamente vero, ma sarebbe troppo bello se fosse solo così, se fosse solo la Chiesa ad essere incompresa. In realtà troppe volte è incompreso e contestato Cristo: tutti ne parlano bene ma se poi li si interroga su chi sia Cristo per loro, ci si sente rispondere non con il Cristo vero, il Cristo vero che è morto in croce per noi ed è risorto.
Questo non deve stupire. Il Signore Gesù ci ha ripetutamente preannunziato questo fenomeno quando ci ha parlato del mondo; c’è un concetto di mondo nel Nuovo Testamento che è positivo, il mondo che dobbiamo amare, il mondo nel quale il Padre ha inviato il Figlio per la salvezza, ma c’è anche un mondo che è la forza permanente di opposizione al disegno divino di salvezza. Il mondo, secondo questo concetto negativo, ha le sue propaggini un po’ dappertutto, anche nel cuore dei credenti, anche nel comportamento degli uomini di Chiesa, anche nella speculazione dei teologi abilitati. Ciascuno di noi ne porta dentro un po’. Il regno di Dio è il mondo. I confini tra il regno di Dio e il mondo passano per i nostri cuori. Abbiamo bisogno di andare tutti alla riscoperta dell’unico salvatore, alla riscoperta del Signore Gesù e del Suo regno, quel regno che è già mistericamente presente in noi e fra noi. E sant’Ambrogio in questo è una delle guide più ricche di luce, più appassionate, più persuasive.
[...]
Il Centro culturale Gli scritti (8/12/2014)
In Ambrogio, nei suoi atti e nelle sue parole, tutti hanno sempre ammirato l’energia, energia che non si affievoliva ma che piuttosto si accresceva nelle difficoltà. Attraverso il suo coraggio di resistere ad ogni prepotenza, di esprimersi con franchezza di fronte all’autorità anche più alta e la sua capacità nelle varie vicissitudini di coniugare fermezza e serenità, sant’Ambrogio appariva davvero un capo e non solo entro i confini dell’organizzazione ecclesiastica. Un episodio rivela questo: quando Ambrogio è in punto di morte, il primo ministro dell’impero, il conte Stilicone, alla notizia di questa malattia dice: “Alla dipartita di un sì grande uomo, la rovina sovrasta l’Italia”, e gli manda a dire di non morire. Ambrogio dà una risposta famosa: “Non vita vixit ut me vivere et pudeat, nec timeo mori quia Dominum bonum habemus”: non ho vissuto così male da aver vergogna di andare avanti a vivere, ma non ho neanche paura di morire perché abbiamo un buon padrone davanti al quale fare il proprio rendiconto.
Eppure, questa virilità si accompagnava ad una dolcezza di temperamento che lo faceva, per esempio, attento e simpatico indagatore dell’animo femminile. Questo è un aspetto che di solito non è molto rilevato. Non per niente Ambrogio, che ha commentato quasi tutti i libri dell’antico testamento, ne ha commentato uno solo del nuovo testamento, il vangelo di Luca, l’evangelista delle donne, il vangelo in cui le donne compaiono con diverse figure. Ambrogio si avventura ad esplorare con congetture affettuose, analitiche, la segreta psicologia di Maria, la fanciulla chiamata a diventare la madre di Dio. Ma ci sono anche alcune connotazioni che sono rare negli antichi Padri. Per esempio sa cogliere con finezza anche le vibrazioni dell’amore coniugale, come quando nel commento al Salmo 118 descrive lo stato d’animo della giovane moglie del navigante che ha l’uomo in mare, “la quale – le parole sono sue – dalla duna sulla riva aspetta l’arrivo dello sposo, e ogni imbarcazione che scorge si illude che a bordo si trovi il consorte, e teme che sia un altro prima di lei ad avere il piacere di vedere l’amato e di non essere lei la prima a dire: ‘Io ti ho visto, io ti ho visto per prima!’”. C’è un episodio del vangelo interessante, ripreso da Ambrogio. La madre di Giacomo e di Giovanni figli di Zebedeo va da Gesù a dirgli: guarda i miei figli come sono bravi, sono i più bravi di tutti. Quindi ti raccomando, quando conquisti il Tuo regno, mettine uno a destra e uno a sinistra. Uno primo ministro, uno vice primo ministro. Questa donna ha suscitato l’indignazione degli altri dieci apostoli prima e di tutti i Padri della Chiesa poi, con la sola eccezione di Ambrogio. Ambrogio dice: cosa vi meravigliate? Se non pensava la madre a cercare di far fare carriera ai figli, chi doveva pensarci? “Anche se sbagliava – dice Ambrogio -, sbagliava per amore, perché le viscere materne non conoscono la pazienza. Anche se esosa nella sua richiesta, è scusabile il suo desiderio. Ella non pensava a sé ma ai figli. Pensate che è madre, considerate che è madre”.
In Ambrogio è presente e forte anche il senso dell’amicizia e del valore dell’amicizia. La raccomanda a tutti, specialmente ai sacerdoti. “Conservate l’amicizia che avete stretta coi vostri fratelli, perché è la più bella fra le cose umane. È un conforto in questa vita avere una persona a cui aprire il proprio cuore, confidare i propri segreti, affidare gli intimi pensieri del proprio animo”. Per capire con quale attenzione lui l’abbia personalmente coltivata, la cosa migliore è ricordare un delizioso biglietto che Ambrogio indirizza al suo amico, il vescovo Felice di Como, dove dice: “Mi hai mandato dei tartufi e per giunta di straordinaria grossezza. Così che le loro proporzioni lasciavano a bocca aperta. Non ho voluto, come suol dirsi, nasconderli in grembo, ma ho preferito farne mostra ad altri, perciò ne ho destinati una parte agli amici e una parte ne ho tenuta per me. È stato un regalo gradito, non però tale da soffocare il mio lamento legittimo perché da tanto tempo non ti decidi a farmi visita, nonostante l’affetto che nutro per te”.
Ambrogio era piccolo di statura e gracile di complessione. Il professor Ballabio, anatomopatologo, attraverso l’esame fatto alle sue ossa ha trovato che era affetto da una certa malformazione delle ossa. Nonostante questa fragilità fisica, sapeva affrontare i potenti con impavida fierezza. Ma era anche facile al pianto: si commuoveva davanti ad ogni tipo di miseria umana. “Fu straordinariamente sollecito verso i poveri e i prigionieri”, scrive il suo biografo e suo segretario Paolino. Quando fu ordinato vescovo offrì alla Chiesa e ai poveri tutto l’oro e l’argento che possedeva. E i poderi, di sua proprietà, li donò alla Chiesa, riservandone l’usufrutto alla sorella e non tenendo per sé nulla che potesse dir suo. Questa disposizione a favore di Marcellina, la sorella, ci dimostra che la sua era una carità che non si metteva mai in contrasto né col buon senso, né con le responsabilità umane che aveva. A questo proposito è utile rileggere le raccomandazioni che fa ai suoi sacerdoti in materia di carità: “specialmente i sacerdoti devono usare criterio, in modo da distribuire, non per esibizione ma con senso di giustizia, perché con nessun altro c’è maggiore avidità nel chiedere. Si presentano uomini robusti, vagabondi di professione, che vogliono carpire i sussidi dei poveri e dare fondo ai mezzi disponibili. Non contenti del poco, esigono sempre maggiori aiuti; cercano di ottenere soddisfazione alle loro richieste ostentando abiti dimessi, e falsando la loro condizione familiare si sforzano di far salire il loro guadagno. Se si presta a loro fede si esauriscono in un batter d’occhio le riserve destinate al mantenimento dei poveri”.
D’altra parte, pur essendo così saggio e prudente, in certe occasioni è stato capace anche di compiere degli atti audaci e insoliti, rischiando anche le incomprensioni che non mancano mai in questi casi, come quando fece infrangere e vendere i vasi sacri per avere di che riscattare i prigionieri. Lui si difende e dice: “Una volta io fui aspramente criticato perché spezzai i vasi sacri per riscattare dei prigionieri. Io ho preferito consegnarvi degli uomini liberi piuttosto che tenere sotto chiave dell’oro. Questa moltitudine di prigionieri liberati, questo schieramento è più bello della bellezza dei calici”.
Il suo buon senso si rivela anche in alcune regole di saggezza pastorale che Agostino anziano ricordava ancora. Ambrogio dava ai vescovi, ai parroci e, fatte le proporzioni, ai sacerdoti, tre consigli fondamentali: il primo di non combinare matrimoni, perché “presto o tardi i coniugi litigano e finiscono per maledire il vescovo che li ha fatti conoscere”. Il secondo è di non fare raccomandazioni alle cariche pubbliche perché qualche comportamento non del tutto lodevole finisce per ricadere sul vescovo. Il terzo è di non accettare inviti a pranzo nella propria città, perché questo crea gelosie, permali e qualche volta fa anche abusare un po’ e uscire da una regola di austerità.
Ambrogio ha composto un trattato di morale modellandolo su quello di Cicerone, il De officiis, e questo gli ha assicurato una fama di moralista, che è confermata anche da tutti i suoi scritti volti sempre a delineare l’ideale del credente, che deve tendere ad esprimere in ogni azione, in ogni situazione esistenziale, la ricchezza e la bellezza della vita nuova che l’ha trasformato. Proprio perché Ambrogio è primariamente pastore, ha come sua attenzione dominante il comportamento dell’uomo che è rinato in Cristo.
Vorrei però sottolineare due cose che non sempre si sanno. Come protagonista di tutte le vicende del suo tempo, egli è indotto a formulare opinioni anche in materia sociale e politica, opinioni che possono anche sorprendere e che, a chi fosse in vena di concordanze superficiali e improbabili, potrebbero essere qualificate di sinistra. Se ad un quiz televisivo ci fosse la domanda: “Chi è un autore nato a Treviri che dice che la proprietà privata della terra è una specie di furto?”, credo che i più informati direbbero Karl Marx, nato a Treviri come sant’Ambrogio. È forse per questa lontana parentela che Ambrogio dice: “La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e i poveri. Perché voi ricchi vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo?”. E ancora: “Il Signore Dio nostro ha voluto che questa terra fosse proprietà comune di tutti gli uomini e che fornisse frutti che fossero di tutti. È stata l’avidità a ripartire i diritti di proprietà”. È chiaro che Ambrogio aveva davanti da una parte il latifondo del patriziato romano e dall’altra la fame di molta gente che non riusciva a mangiare.
Sul piano del diritto costituzionale, ed è la seconda cosa poco nota, è interessante notare che dopo quattro secoli di accentrato potere monarchico la repubblica non c’era più; lui che era stato un alto funzionario dell’impero e che era sempre stato leale verso l’imperatore, non ha dubbi a dire di preferire la forma di governo democratica e repubblicana. È una conclusione alla quale arriva riflettendo – può apparire un po’ strano, ma tutta la realtà per Ambrogio è unitaria, perciò da ogni particolare si può risalire sempre al tutto – sull’abitudine di volo delle gru. Dice: “Una va innanzi alle altre per il tempo ad essa stabilita e, per così dire, fa da esploratrice. Poi si volta e cede a quella che segue l’incarico di guidare lo stormo. Cioè si alternano. Che c’è di più bello del fatto che la fatica e l’onore siano comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi ma passi dall’uno all’altro, senza eccezioni, come per una libera decisione? Questo è l’esercizio di un ufficio caratteristico dell’antica repubblica, quale conviene in un Stato libero. Così da principio gli uomini avevano cominciato ad attuare una organizzazione politica ricevuta dalla natura sull’esempio degli uccelli. In modo cioè che la fatica fosse comune, comune la dignità, ciascuno imparasse a dividersi a turno le responsabilità, venissero ripartire obbedienza e comando. Nessuno fosse escluso dalle cariche. Nessuno esente dalla fatica. In questa situazione politica ideale nessuno insuperbiva per l’esercizio ininterrotto del potere né si abbatteva per il lungo servire, perché da un lato, l’avanzamento, conferito com’era secondo un ordine di funzione e per un periodo limitato, non suscitava invidia, dall’altro sembrava più tollerabile perché comportava un comune compito di sorveglianza”. E va avanti per pagine e pagine a dedurre dal volo delle gru l’ideale del suo ordinamento statale.
Come si vede, gli interessi di questo vescovo di Milano erano molteplici e disparati: forse ho dato l’impressione di una certa frammentarietà, in realtà tutto in lui è unificato dalla passione per Cristo, per la Chiesa e per l’uomo. Di qualunque cosa stia parlando, qualunque libro della sacra scrittura stia commentando, i suoi discorsi riguardano sempre questi tre punti: Cristo, la Chiesa e l’uomo. Una sua frase che ritorna spesso è: Omnia nobis est Christus, “Cristo è tutto per noi”, anzi dice Ambrogio: “Non solo è tutto adesso, ma è il principio di tutto, dall’inizio, anche della creazione”, Semen omnium Christus, “Cristo è il seme di tutte le cose”. Questo è il principio del cristocentrismo.
L’uomo è il capolavoro della creazione: credo che non ci sia nella letteratura cristiana antica una pagina così alta e commossa come quando Ambrogio descrive l’uomo come microcosmo, il vertice della bellezza della creazione. Ma nello stesso tempo l’uomo è anche la creatura più miserevole, proprio per la sventura, per il peccato, per il male che lo sovrasta. Il Signore Gesù si identifica misticamente con il popolo dei credenti, che secondo l’intuizione di san Paolo è la sua sposa e il suo corpo. Ed è sempre il Signore Gesù ad essere amato nell’uomo, sua immagine viva.
È molto interessante notare, ed è una caratteristica che si trova in tutti i Padri della Chiesa antica, che Gesù per Ambrogio non è soltanto un argomento quasi unico delle sue riflessioni, è anche l’interlocutore principale dei suoi discorsi: di qualunque cosa stia scrivendo, ad un certo punto si mette a parlare con Gesù Cristo. Sembra quasi che lo veda davanti al suo tavolo: ogni tanto alza gli occhi, si mette a parlare con lui e poi riprende il discorso. Quasi per una propensione naturale e invisibile ogni sua considerazione spontaneamente diventa un colloquio con il suo Signore. Gesù è l’unico che può salvare; l’uomo è grande e miserabile, e una creatura così miserevole ha bisogno di trovare pietà. D’altronde un essere così grande e prezioso non può andare perduto. Sant’Ambrogio è sicuro che l’uomo deve essere salvato, il suo è un ottimismo teologico che non ignora affatto il peccato e la sua gravità. Ma nel suo ottimismo Ambrogio si spinge più lontano di tutti: secondo lui la stessa nostra miseria nativa fa parte di un progetto di elevazione, sicché c’è, paradossalmente, qualcosa di positivo nella colpa, dal momento che Dio la vede come premessa necessaria alla manifestazione della misericordia, misericordia che per Ambrogio è il senso ultimo e la ragione decisiva di tutta l’azione creatrice. Sarebbero decine i testi da citare, mi limito a quello più stupefacente, il finale dell’Hexaemeron, l’opera in cui egli aveva commentato e descritto tutte le opere create: “Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna e le stelle, e non leggo che si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che, a questo punto, si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati”. Finalmente Dio ha trovato quello che voleva, un uomo da poter perdonare. Da questo non si può dedurre che si può peccare, anzi fare quanti più peccati possibile in modo da essere perdonati: al contrario, si deve dedurre la necessità di pentirsi, di fare tanti pentimenti in modo che la misericordia del Signore possa arrivare a toccarci. Siamo stati creati per mezzo di Cristo e per mezzo di Cristo siamo stati redenti.
Tra questi due interventi, la creazione e la redenzione, c’è correlazione e connessione strettissima. Il secondo, oltrepassando il primo in valore, lo porta a compimento. L’azione di riscatto è in realtà più sublime dell’azione creatrice e merita una gratitudine più intensa. Sia la creazione che la redenzione sono opera di Cristo. Gesù Cristo è costituzionalmente salvatore: si capisce allora come abbia dovuto e voluto essere solo nell’operare la nostra salvezza. Non ci sono altri salvatori, nessuno ha potuto affiancarsi a Lui in questa impresa. “Era solo – scrive Ambrogio – il Signore Gesù quando redense il mondo. Infatti né un ambasciatore, né un messo, ma lo stesso Signore da solo, venne a salvare il suo popolo. Per quanto non sia mai solo Colui nel quale è sempre il Padre”. E ancora: “Perché solo Lui può riscattare? Perché nessuno può essere puro come Lui. Tutti infatti vivono sotto il regno del peccato. Tutti soggiacciono alla caduta di Adamo. Può essere certo come redentore solo colui che non può essere soggetto dell’antico peccato. Non c’è nessun altro salvatore perché qualunque altro sarebbe esso stesso bisognoso di redenzione”. Ed è un salvatore universale. Quando si tratta dell’azione di Cristo, la specificazione che non manca mai è “di tutti”. Salvatore di tutti. Se è unico è anche universale.
Ambrogio era anche un poeta e l’immagine che gli è cara è quella del sole: come il sole, il Figlio di Dio si dona senza riserve. Tutti sono raggiunti dal suo flusso benefico. Tutti tranne quelli che deliberatamente gli chiudono in faccia le finestre dell’anima. Sentiamo cosa dice lui: “Questo nostro sole sorge ogni giorno su tutti, così quel mistico sole di giustizia è sorto su tutti, è venuto per tutti, ha sofferto per tutti ed è risorto per tutti e ha sofferto proprio per togliere il peccato del mondo. Ma se qualcuno non crede in Cristo si priva da sé di un bene offerto a tutti. Allo stesso modo se qualcuno chiude le finestre e non lascia entrare i raggi del sole, ciò non vuol dire che il sole non sia sorto per lui, perché è stato lui a privarsi del suo calore”. E come il sole, Gesù si offre ma non si impone: è discreto. Chiede che gli si apra ma non usa violenza: “Colui che viene e bussa alla porta vuol sempre entrare. Se uno bussa vuol dire che vuole entrare. Ma è colpa nostra se non sempre entra e se non sempre poi resta. Al suo arrivo sia spalancata la tua porta. Apri la tua porta. Allarga il tuo cuore. Vai incontro al sole della luce eterna che illumina ogni uomo, quella vera fonte di luce che risplende sì per tutti, ma chi terrà chiuse le sue finestre si priverà da solo della luce eterna. Anche Cristo quindi viene lasciato fuori se tu chiudi la porta del tuo spirito. Egli avrebbe la possibilità di entrare ma non vuole farvi irruzione come un seccatore (importunus), non vuole imporre la sua presenza a chi non lo gradisce”. In virtù di questa natura salvifica il Signore Gesù non è lontano da nessun uomo, è il più vicino. “Egli – dice Ambrogio – è il prossimo, il prossimo di tutti: lui che a tutti elargì misericordia togliendo il peccato del mondo. Gesù, se possiamo concederci una sgrammaticatura, è il più prossimo. Perciò quando si parla del precetto dell’amore non bisogna mettere in contrasto l’amore per Cristo e l’amore per il prossimo perché in realtà anche l’amore per Cristo è l’amore per il prossimo. Perché Lui è prossimo prima e più di ogni altro. Siccome nessuno è maggiormente prossimo di Colui che guarì le nostre ferite, amiamolo sì come Signore ma amiamolo anche come prossimo. Niente infatti è tanto prossimo quanto il capo alle membra”.
A questo punto io vorrei precisare ulteriormente il nostro problema: è proprio vero che l’unica strada per salvarsi è quella del Cristianesimo, quella della conoscenza di Cristo, dell’accettazione di Cristo? Non si danno altre strade per arrivare alla salvezza? Chi ha letto Ambrogio non ha dubbi. La risposta di Ambrogio è implicita nella visione nitida e appassionata che egli ha del Signore Gesù e della sua singolarità totalizzante e omnicomprensiva. È impensabile che in questo pensiero si diano altre ipotesi. Ma Ambrogio ha avuto anche un’occasione di rendere esplicito il suo pensiero. È un episodio molto interessante, la controversia con Simmaco, prefetto del senato circa il ripristino in senato dell’altare della dea vittoria. L’altare, che era sempre stato nel senato di Roma, era stato rimosso dall’imperatore Graziano, ma, nel 384, morto Graziano e succedutogli Valentiniano II, che era appena un ragazzo e che era sotto l’influenza di Giustina, che era ariana, il prefetto del senato chiede con un esposto all’imperatore che questo altare pagano venga ricollocato. Ambrogio si oppone e invia un controesposto. E noi abbiano la fortuna di poter leggere tutte e due i documenti che ci danno testimonianza di un dibattito illuminante anche per la personalità degli interlocutori.
Ambedue romani autentici, gli ultimi veri romani, formati alla stessa cultura classica e probabilmente anche parenti fra di loro, perché Simmaco era alla lontana cugino di sant’Ambrogio. Anche se può sembrare paradossale, la posizione di Ambrogio in questa discussione è la più laica. “In senato – egli dice – ormai siedono insieme senatori pagani e senatori cristiani. Allora non è giusto che la coscienza di qualcuno sia ferita dai segni esteriori di un culto che non è più accettato da tutti”. Simmaco, per qualche aspetto, sembra invece il più religioso. Egli è convinto che un segno religioso ci debba essere. “Senza una religione manifestata, non ci si difende abbastanza dalla prevaricazione e dall’iniquità. Quindi ci vuole un segno religioso dove si discute e si decide del bene comune”. Dovendo mettere un segno religioso, sembra ovvio mettere il segno che c’è sempre stato e che tra l’altro rappresenta la continuità spirituale della romanità. Continua Simmaco: “È giusto ritenere una sola identica cosa ciò che tutti adorano. Noi contempliamo i medesimi astri. Il cielo ci è comune. Lo stesso mondo ci avvolge. Che importa quale sia la dottrina che ciascuno segue per la ricerca del vero! A un così grande mistero non si può giungere per un’unica strada”. Ambrogio non si lascia incantare dall’abile eloquenza di Simmaco e ribatte: “I pagani parlano sì di divinità in termini nobili e forbiti ma in pratica la loro religione si risolve nell’omaggio a un idolo muto e inerte che è indegno dell’uomo”. È una religione che disonora l’uomo. All’argomento più sottile e più seducente di Simmaco egli oppone che tutte le strade per andare a Dio sarebbero accettabili se Dio stesso non si fosse rivelato, se Dio stesso non ci avesse indicato positivamente l’itinerario da seguire. “Mi insegni il mistero del cielo lo stesso Dio che l’ha creato, non l’uomo che non ha nemmeno conosciuto se stesso. Sul conto di Dio a chi devo credere se non a Dio che si è rivelato? Come posso credere – ragiona Ambrogio – a voi che confessate di non conoscere ciò che adorate?” “A un così grande Mistero – dice Simmaco – non si può giungere che per un’unica strada”. “Ma ciò che voi ignorate – replica Ambrogio – è che la strada unica noi l’abbiamo appreso dalla stessa voce di Dio, e che ciò che voi cercate attraverso ipotesi noi lo conosciamo con certezza, dalla sapienza stessa di Dio e dalla sua verità”. Conoscendo il pensiero generale del vescovo di Milano oseremmo parafrasare così questi testi: l’evento del Figlio di Dio fatto uomo, morto in croce per la nostra salvezza, mette fuori gioco ogni irenico relativismo. Non tocca più all’uomo decidere quale sia il percorso che a lui convenga per arrivare alla divinità, dal momento che la stessa divinità ha fissato in Cristo un percorso obbligatorio per tutti. L’ideologia che ritiene tutte buone, tutte relative, le diverse religioni, va a infrangersi ormai contro il fatto, il fatto unico e imparagonabile della redenzione operata da Cristo.
Bisogna a questo proposito fare una precisazione: questa decisa affermazione dell’unicità della via di salvezza non va intesa affatto come una deroga al convincimento dell’esistenza in Dio di una volontà salvifica universale, va anzi assunta e interpretata alla luce di tale principio. Ambrogio su questo punto è chiarissimo più di ogni altro scrittore antico e le sue pagine non suscitano nessun problema, nessuna perplessità. Il Padre vuol davvero che tutte le sue creature arrivino a Lui. Troverà Lui la strada. Ma la strada è la sua, non quella che decidiamo noi che deve essere. Cristo è dunque salvatore universale proprio nel senso, come già si è visto, che nessuno può perdersi, se non perché con un atto personale suo si sottrae a quella divina misericordia che in Cristo si manifesta e si attua. Misericordia che certamente sa trovare modi a noi imprevedibili di conseguire la sua finalità.
Simmaco non è morto, la sua voce insinuante si fa ancora sentire nella redazione dei giornali, nei pronunciamenti degli opinionisti, nelle infinite chiacchiere del nostro tempo. “Che importa quale sia la dottrina che ciascuno segue per ricercare il vero! A un così grande mistero non si può giungere per un unica strada”. Purtroppo questa voce trova qualche ascolto persino nelle coscienze confuse di molti cristiani. Perciò crediamo che non sia stato inutile aver dato la parola anche al suo grande antagonista. Al pensiero debole dell’antico prefetto di Roma si contrappone ancora efficacemente la ragione forte e la fede dell’antico pastore milanese.
La questione centrale del nostro tempo è quella di Cristo, anche all’interno della cristianità illanguidita. Noi non ci accorgiamo che a furia di aprirci a tutti, finiamo per emarginare Cristo, lo riteniamo superfluo, un optional nel meccanismo della salvezza. Convenzionalmente si ritiene che sia più che altro la Chiesa a essere incompresa e contestata, nel suo magistero, nella sua azione a favore dell’uomo, nella sua provvidenzialità e, in ultima analisi, nella sua natura di corpo di Cristo e quindi nel suo mistero di umanità divinizzata. Tutto questo è certamente vero, ma sarebbe troppo bello se fosse solo così, se fosse solo la Chiesa ad essere incompresa. In realtà troppe volte è incompreso e contestato Cristo: tutti ne parlano bene ma se poi li si interroga su chi sia Cristo per loro, ci si sente rispondere non con il Cristo vero, il Cristo vero che è morto in croce per noi ed è risorto.
Questo non deve stupire. Il Signore Gesù ci ha ripetutamente preannunziato questo fenomeno quando ci ha parlato del mondo; c’è un concetto di mondo nel Nuovo Testamento che è positivo, il mondo che dobbiamo amare, il mondo nel quale il Padre ha inviato il Figlio per la salvezza, ma c’è anche un mondo che è la forza permanente di opposizione al disegno divino di salvezza. Il mondo, secondo questo concetto negativo, ha le sue propaggini un po’ dappertutto, anche nel cuore dei credenti, anche nel comportamento degli uomini di Chiesa, anche nella speculazione dei teologi abilitati. Ciascuno di noi ne porta dentro un po’. Il regno di Dio è il mondo. I confini tra il regno di Dio e il mondo passano per i nostri cuori. Abbiamo bisogno di andare tutti alla riscoperta dell’unico salvatore, alla riscoperta del Signore Gesù e del Suo regno, quel regno che è già mistericamente presente in noi e fra noi. E sant’Ambrogio in questo è una delle guide più ricche di luce, più appassionate, più persuasive.
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