di Andrea Monda
L'opera di George Bernanos, pubblicata 70 anni fa, è considerata uno dei capolavori letterari del XX secolo Pubblicato 70 anni fa, il capolavoro di George Bernanos è da subito entrato nel novero dei classici cristiani del XX secolo e ancora oggi non ha perso né smalto né vigore, né urticante forza scandalosa. È un classico: un libro, cioè, che non smette mai di dire quello che ha da dire.
Ed è un classico cristiano, perché, ha detto bene padre Castelli, «Bernanos è una tempesta di fede cattolica. Tanto che, senza di essa la sua opera cessa di esistere, riducendosi a un nonsenso, a un futile gioco»; secondo l’illustre gesuita critico letterario «l’opera di Bernanos può dirsi una parafrasi del famoso pensiero pascaliano: “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo”».
Non è quindi un caso che il protagonista di questo romanzo (immortalato con raffinata maestria da Robert Bresson nell’omonimo film del 1953), il “piccolo parroco” di Ambricourt, a un certo punto affermi che: «La verità è che, da sempre, è nel giardino degli Ulivi ch’io mi ritrovo». È un’affermazione che avrebbero potuto fare i personaggi di tutti i romanzi di Bernanos, ma che in questo “Diario” trova il suo habitat più congeniale. «In pochi altri romanzi della letteratura moderna – ha infatti osservato acutamente lo scrittore romano Eraldo Affinati – possiamo cogliere il sentimento così distinto del male che grava come una cappa nera sull’uomo».
Sin dall’incipit si avverte tutto il peso del male, interno e esterno, fisico e metafisico, morale e spirituale, che finirà per schiantare il giovane estensore di questo testo a un tempo struggente e sconvolgente: «La mia parrocchia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte. […] La mia parrocchia è divorata dalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie! La noia le divora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualche giorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un simile cancro. Si può vivere molto a lungo con questo in corpo».
Alla fine del romanzo sarà lo stesso protagonista-narratore a scoprire il cancro dentro di sé e le ultime pagine sono dedicate alla sua agonia (termine che si attaglia perfettamente alla visione cristiana, una visione per l’appunto agonica del mondo, di Bernanos) e le sue ultime parole saranno: «Tutto è grazia». Bernanos è scrittore cattolico, cioè paradossale: attraverso quella «cappa nera» brilla luce della Grazia, anzi, come direbbe un altro autore cattolico, l’americana Flannery O’Connor, solo all’interno di quella cappa nera può brillare la luce. E la luce brilla davvero, al punto che Charles Moeller, nella sua monumentale opera su Letteratura moderna e cristianesimo, definisce Bernanos «il profeta della gioia» ed è un’intuizione forte quanto corretta. «Il contrario d’un popolo cristiano è un popolo triste, un popolo di vecchi» dichiara il curato di Torcy al più giovane e fragile parroco di Ambricourt (al quale aveva anche ricordato che Cristo ha inviato i cristiani nel mondo non per essere il miele, ma «il sale della terra»). Viene in mente un altro grande spirito cristiano del XX secolo, C. S. Lewis, che, dall’altra parte della Manica, scriveva: “Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. «Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite».
È una gioia «virile» quella di Bernanos, una gioia «dura», che trafigge e getta scompiglio nell’esistenza dell’uomo, questo strano animale bipede che si trova a vivere una vita che non è solo quella naturale perché, osserva sempre padre Castelli: «Nella nostra vita il soprannaturale non è una realtà passeggera, ma il terreno su cui camminiamo, la norma. […] La vita spesso ci sembra assurda perché ci ostiniamo a escludere da essa Cristo e il suo Antagonista». Nella sua intensa vita e nella sua ricca opera letteraria, Bernanos ha intrapreso una lotta per Cristo contro le forze del male di cui conosce tutte le tentazioni, tutte le diramazioni, tutti gli effetti, infiniti e “capillari”. Ma del male conosce anche l’antidoto, la religione dell’amore fondata da Cristo: «L’inferno, signora, non è amare più»; è solo una belle tante memorabili battute di un memorabile romanzo, uno dei grandi romanzi della letteratura di ogni tempo.
L'opera di George Bernanos, pubblicata 70 anni fa, è considerata uno dei capolavori letterari del XX secolo Pubblicato 70 anni fa, il capolavoro di George Bernanos è da subito entrato nel novero dei classici cristiani del XX secolo e ancora oggi non ha perso né smalto né vigore, né urticante forza scandalosa. È un classico: un libro, cioè, che non smette mai di dire quello che ha da dire.
Ed è un classico cristiano, perché, ha detto bene padre Castelli, «Bernanos è una tempesta di fede cattolica. Tanto che, senza di essa la sua opera cessa di esistere, riducendosi a un nonsenso, a un futile gioco»; secondo l’illustre gesuita critico letterario «l’opera di Bernanos può dirsi una parafrasi del famoso pensiero pascaliano: “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo”».
Non è quindi un caso che il protagonista di questo romanzo (immortalato con raffinata maestria da Robert Bresson nell’omonimo film del 1953), il “piccolo parroco” di Ambricourt, a un certo punto affermi che: «La verità è che, da sempre, è nel giardino degli Ulivi ch’io mi ritrovo». È un’affermazione che avrebbero potuto fare i personaggi di tutti i romanzi di Bernanos, ma che in questo “Diario” trova il suo habitat più congeniale. «In pochi altri romanzi della letteratura moderna – ha infatti osservato acutamente lo scrittore romano Eraldo Affinati – possiamo cogliere il sentimento così distinto del male che grava come una cappa nera sull’uomo».
Sin dall’incipit si avverte tutto il peso del male, interno e esterno, fisico e metafisico, morale e spirituale, che finirà per schiantare il giovane estensore di questo testo a un tempo struggente e sconvolgente: «La mia parrocchia è una parrocchia come tutte le altre. Si rassomigliano tutte. […] La mia parrocchia è divorata dalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie! La noia le divora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualche giorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un simile cancro. Si può vivere molto a lungo con questo in corpo».
Alla fine del romanzo sarà lo stesso protagonista-narratore a scoprire il cancro dentro di sé e le ultime pagine sono dedicate alla sua agonia (termine che si attaglia perfettamente alla visione cristiana, una visione per l’appunto agonica del mondo, di Bernanos) e le sue ultime parole saranno: «Tutto è grazia». Bernanos è scrittore cattolico, cioè paradossale: attraverso quella «cappa nera» brilla luce della Grazia, anzi, come direbbe un altro autore cattolico, l’americana Flannery O’Connor, solo all’interno di quella cappa nera può brillare la luce. E la luce brilla davvero, al punto che Charles Moeller, nella sua monumentale opera su Letteratura moderna e cristianesimo, definisce Bernanos «il profeta della gioia» ed è un’intuizione forte quanto corretta. «Il contrario d’un popolo cristiano è un popolo triste, un popolo di vecchi» dichiara il curato di Torcy al più giovane e fragile parroco di Ambricourt (al quale aveva anche ricordato che Cristo ha inviato i cristiani nel mondo non per essere il miele, ma «il sale della terra»). Viene in mente un altro grande spirito cristiano del XX secolo, C. S. Lewis, che, dall’altra parte della Manica, scriveva: “Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. «Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite».
È una gioia «virile» quella di Bernanos, una gioia «dura», che trafigge e getta scompiglio nell’esistenza dell’uomo, questo strano animale bipede che si trova a vivere una vita che non è solo quella naturale perché, osserva sempre padre Castelli: «Nella nostra vita il soprannaturale non è una realtà passeggera, ma il terreno su cui camminiamo, la norma. […] La vita spesso ci sembra assurda perché ci ostiniamo a escludere da essa Cristo e il suo Antagonista». Nella sua intensa vita e nella sua ricca opera letteraria, Bernanos ha intrapreso una lotta per Cristo contro le forze del male di cui conosce tutte le tentazioni, tutte le diramazioni, tutti gli effetti, infiniti e “capillari”. Ma del male conosce anche l’antidoto, la religione dell’amore fondata da Cristo: «L’inferno, signora, non è amare più»; è solo una belle tante memorabili battute di un memorabile romanzo, uno dei grandi romanzi della letteratura di ogni tempo.
Nessun commento:
Posta un commento