XXIII DOM. T.O.
«Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella
carità e nelle opere buone» (Eb10,24). «Prestare attenzione»: il verbo
greco usato è katanoein,
significa osservare bene, essere attenti,
guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo,
quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur
senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (Lc
12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di
guardare alla pagliuzza nell’occhio del fratello (Lc 6,41). Questa esortazione
invita a fissare lo sguardo sull’altro, a non mostrarsi estranei, indifferenti
alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario:
l’indifferenza, il disinteresse, mascherato da una parvenza di rispetto per la
«sfera privata». Risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi
a prendersi cura dell’altro, a essere «custodi» dei nostri fratelli, di
instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene
dell’altro e a tutto il suo bene.
“Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il
quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà
misurato a voi” (Mt 7,1s). Scrive
san Doroteo di Gaza (505 – 565): “Se … non disprezzassimo le cose piccole e che ci sembrano da nulla, non
ci troveremmo a cadere in quelle grandi e gravi. … La mente comincia a smettere di occuparsi dei
propri peccati e a chiacchierare del prossimo. … Da ciò proviene il giudizio,
la maldicenza, il disprezzo”.[1]
“Pensiamo alle cose leggere finché sono
leggere, perché non diventino pesanti. Sia il successo sia il peccato
cominciano dal poco e portano a grandi beni o a grandi mali”.[2]
Doroteo ci mette in guardia; senza accorgercene, possiamo diventare
giudici spietati degli altri e, nel contempo, incapaci di guardare noi stessi. L’apostolo
Giacomo scrive: “Uno solo è legislatore e
giudice, Colui che può salvare e mandare in rovina; ma chi sei tu, che giudichi
il tuo prossimo?” (Gc 4,12).
Doroteo poi si chiede: “Ma perché
ci capita tutto questo, se non perché non abbiamo amore? Se infatti avessimo
amore, insieme a compassione e pena, tralasceremmo di guardare i difetti del
prossimo. … Chi odia tanto il peccato quanto i santi? E tuttavia non odiano il
peccatore, non lo condannano, non se ne allontanano, ma ne hanno compassione,
lo ammoniscono, lo consolano, lo curano come un membro malato: fanno di tutto
per salvarlo”.[3]
Il «prestare attenzione» al fratello comprende anche la premura per il
suo bene spirituale. Oggi, in generale, siamo sensibili al discorso della cura
e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del
tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa
dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si
prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della
sua anima per il suo destino ultimo.
Il giudizio e la correzione, sono una
concretizzazione dell’amore o della sua assenza. Gesù è il primo a combattere
contro il peccato, perché esso è come una malattia mortale, ma non vuole che la
cura uccida l’ammalato. La correzione evangelica, mira a risanare, non a ferire
e uccidere, come il giudizio. Correggere deriva
dal latino corrigĕre, composto di con- e regĕre «reggere, dirigere», e significa, rendere migliore.
Doroteo ci dà la chiave di lettura del Vangelo: chi ama, cura e desidera
il meglio per l’altro.
Correggere, significa avere la consapevolezza che la persona che, pur
sta sbagliando, è sana e ha la possibilità di cambiare; è una forma di rispetto
e stima. E’ come il massaggio cardiaco che può rimettere in moto il cuore; essa
agisce sulla coscienza, risvegliandola e, attraverso di essa, Dio può parlare
al cuore di ognuno e riportare la vita.
La correzione è un dovere morale: “Io
ti ho posto come sentinella … Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu
dovrai avvertirli da parte mia. Se io dico al malvagio: “Tu morirai” e tu non
parli, perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, … morirà per la sua
iniquità, ma della usa morte io domanderò conto a te” (Ez 33,1). Gesù ci vieta il giudizio, ma ci ricorda la
necessità di aiutare gli altri con la correzione.
Il processo progressivo che Gesù propone, mostra che bisogna tentarle
tutte per salvare le persone e, anche quando queste sembrano rimanere
indifferenti, vanno considerate come il pagano e il pubblicano; non vanno date
per persa, ma cercate con pazienza, come fa il buon pastore con la pecora
smarrita.
Nessuno di noi è solo autore di correzione; tutti abbiamo bisogno di
essere corretti. Lo sappiamo bene che la correzione fa male, è fastidiosa - a
nessuno piace, almeno nell’immediato, scoprire di avere qualcosa che non va -,
eppure è saggio imparare ad accoglierla: «Rimprovera
il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più
saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s).
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