Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

lunedì 11 settembre 2017

Prestiamo attenzione ...



XXIII DOM. T.O.

          «Prestiamo attenzione gli uni agli altri per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone» (Eb10,24). «Prestare attenzione»: il verbo greco usato è katanoein,
 significa osservare bene, essere attenti, guardare con consapevolezza, accorgersi di una realtà. Lo troviamo nel Vangelo, quando Gesù invita i discepoli a «osservare» gli uccelli del cielo, che pur senza affannarsi sono oggetto della sollecita e premurosa Provvidenza divina (Lc 12,24), e a «rendersi conto» della trave che c’è nel proprio occhio prima di guardare alla pagliuzza nell’occhio del fratello (Lc 6,41). Questa esortazione invita a fissare lo sguardo sull’altro, a non mostrarsi estranei, indifferenti alla sorte dei fratelli. Spesso, invece, prevale l’atteggiamento contrario: l’indifferenza, il disinteresse, mascherato da una parvenza di rispetto per la «sfera privata». Risuona con forza la voce del Signore che chiama ognuno di noi a prendersi cura dell’altro, a essere «custodi» dei nostri fratelli, di instaurare relazioni caratterizzate da premura reciproca, da attenzione al bene dell’altro e a tutto il suo bene.
      Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi” (Mt 7,1s). Scrive san Doroteo di Gaza (505 – 565):Se … non disprezzassimo le cose piccole e che ci sembrano da nulla, non ci troveremmo a cadere in quelle grandi e gravi. …  La mente comincia a smettere di occuparsi dei propri peccati e a chiacchierare del prossimo. … Da ciò proviene il giudizio, la maldicenza, il disprezzo”.[1]Pensiamo alle cose leggere finché sono leggere, perché non diventino pesanti. Sia il successo sia il peccato cominciano dal poco e portano a grandi beni o a grandi mali”.[2]
     Doroteo ci mette in guardia; senza accorgercene, possiamo diventare giudici spietati degli altri e, nel contempo, incapaci di guardare noi stessi. L’apostolo Giacomo scrive: “Uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e mandare in rovina; ma chi sei tu, che giudichi il tuo prossimo?” (Gc 4,12).
     Doroteo poi si chiede: “Ma perché ci capita tutto questo, se non perché non abbiamo amore? Se infatti avessimo amore, insieme a compassione e pena, tralasceremmo di guardare i difetti del prossimo. … Chi odia tanto il peccato quanto i santi? E tuttavia non odiano il peccatore, non lo condannano, non se ne allontanano, ma ne hanno compassione, lo ammoniscono, lo consolano, lo curano come un membro malato: fanno di tutto per salvarlo”.[3]
     Il «prestare attenzione» al fratello comprende anche la premura per il suo bene spirituale. Oggi, in generale, siamo sensibili al discorso della cura e della carità per il bene fisico e materiale degli altri, ma si tace quasi del tutto sulla responsabilità spirituale verso i fratelli. Non così nella Chiesa dei primi tempi e nelle comunità veramente mature nella fede, in cui ci si prende a cuore non solo la salute corporale del fratello, ma anche quella della sua anima per il suo destino ultimo.
      Il giudizio e la correzione, sono una concretizzazione dell’amore o della sua assenza. Gesù è il primo a combattere contro il peccato, perché esso è come una malattia mortale, ma non vuole che la cura uccida l’ammalato. La correzione evangelica, mira a risanare, non a ferire e uccidere, come il giudizio. Correggere deriva dal latino corrigĕre, composto di con- e regĕre «reggere, dirigere», e significa, rendere migliore. 
     Doroteo ci dà la chiave di lettura del Vangelo: chi ama, cura e desidera il meglio per l’altro.
     Correggere, significa avere la consapevolezza che la persona che, pur sta sbagliando, è sana e ha la possibilità di cambiare; è una forma di rispetto e stima. E’ come il massaggio cardiaco che può rimettere in moto il cuore; essa agisce sulla coscienza, risvegliandola e, attraverso di essa, Dio può parlare al cuore di ognuno e riportare la vita.  
     La correzione è un dovere morale: “Io ti ho posto come sentinella … Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. Se io dico al malvagio: “Tu morirai” e tu non parli, perché il malvagio desista dalla sua condotta, egli, … morirà per la sua iniquità, ma della usa morte io domanderò conto a te” (Ez 33,1).  Gesù ci vieta il giudizio, ma ci ricorda la necessità di aiutare gli altri con la correzione.
     Il processo progressivo che Gesù propone, mostra che bisogna tentarle tutte per salvare le persone e, anche quando queste sembrano rimanere indifferenti, vanno considerate come il pagano e il pubblicano; non vanno date per persa, ma cercate con pazienza, come fa il buon pastore con la pecora smarrita.
     Nessuno di noi è solo autore di correzione; tutti abbiamo bisogno di essere corretti. Lo sappiamo bene che la correzione fa male, è fastidiosa - a nessuno piace, almeno nell’immediato, scoprire di avere qualcosa che non va -, eppure è saggio imparare ad accoglierla: «Rimprovera il saggio ed egli ti sarà grato. Dà consigli al saggio e diventerà ancora più saggio; istruisci il giusto ed egli aumenterà il sapere» (Pr 9,8s).



[1] Doroteo di Gaza,  Insegnamenti spirituali, Cittanuova 115s
[2] Ibid. 84
[3]  Ibid. 121s

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