Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

venerdì 8 dicembre 2017

Tu sei la nostra patria


II DOM. AVV.


     Consolate, consolate il mio popolo” (Is 40,1), dice Dio attraverso Isaia.

     Cosa significa “consolare”? Stare, affiancare, condividere il percorso con chi è solo – cum solus ­– per sollevare, dare una speranza, una ragione valida per andare avanti.

     Esilio, invece, deriva da ex – fuori e solum – suolo, patria. Essere in esilio, significa stare fuori dalla propria patria, dagli usi e costumi, dai sapori e profumi, dalle relazioni, dagli orizzonti della propria terra. Chi è in esilio non può che desiderare di tornare a casa.

     Il profeta Isaia, è mandato al popolo di Israele, per annunciargli la bella notizia che è terminato il tempo dell’esilio, è giunto il momento di tornare a casa. Quel popolo in esilio a causa delle scelte errate delle sue guide e per il fatto che ha preferito fidarsi della potenza umana, piuttosto che della parola del Signore - “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo” (Ger 17, 5) – finalmente può tornare alle proprie radici.

     Mi direte che siete annoiati dal sentire parlare ancora una volta dell’esilio del popolo d’Israele: è roba vecchia e noi siamo né ebrei né in esilio. Al massimo potrà riguardare gli immigrati che ci stanno raggiungendo e che stanno abbandonando le proprie terre.

     In realtà c’è un esilio fisico, geografico e uno esistenziale. Chiunque è lontano dalla propri meta; da ciò a cui è destinato, dalla propria vocazione è in esilio e non può che sentirsi frustrato, irrealizzato.

     Pensiamo al figlio minore della parabola del Padre misericordioso. Egli si sente prigioniero nella casa di suo padre; gli sembra di non avere possibilità di crescita. Solo andandosene; solo separandosi da suo padre, potrà avere successo nella vita; diventare ciò che vuole; realizzarsi. Di fatto egli si autoesilia e che cosa trova? SOLITUDINE; UNA DIGNITA’ CALPESTATA; FAME.

     Solamente ritornando a casa può riacquistare intatta la dignità perduta – questo significano l’abito più bello, l’anello al dito e i sandali ai piedi -.

     Non siamo un popolo in esilio? Non ci siamo spinti lontani da Dio, convinti di poter fare a meno di Lui, anzi, di dover fare a meno di Lui per poterci sviluppare pienamente? Cosa stiamo trovando? Siamo davvero un popolo libero e felice? Mah!

     Ecco perché è ancora estremamente attuale e necessario il grido del profeta che ci dice: “Nel deserto preparate la via del Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio” (Is 40,3). Dio vuole portarci a casa. Egli non può accettare che ce ne stiamo volontariamente in esilio, ma non può costringerci. Solo noi possiamo innalzare le valli, spianare le montagne  e i colli, trasformare in piano il terreno accidentato; solo noi possiamo scegliere di sgretolare gli ostacoli che ci separano da Dio. Lui ci cammina a fianco, ci aspetta, rallenta con noi e accelera quando scappiamo, ma non può metterci sulle Sue spalle, se non glielo consentiamo.

     La Chiesa presta ancora la voce a Dio e ci invita a fermarci ad andare al Giordano a lasciarci immergere nell’acqua. Il battesimo di Giovanni,  è un semplice segno esteriore di un cambiamento interiore e profondo; della scelta di lasciarsi raggiungere da Dio.

     Non ha senso stare in esilio, quando si potrebbe liberamente tornare a casa. E’ da sciocchi vivere lontani affamati e assetati, quando a casa c’è in abbondanza cibo e bevanda gratuiti.

     Non è tardi, se oggi ci rimettiamo in cammino, “davanti al Signore mille anni sono come un giorno solo e un giorno solo come mille anni” (2Pt 3,8). Il tempo è relativo per Lui quando ci siamo di mezzo noi; quando si tratta di salvare la Sua creatura.

     Grazie Signore, perché ancora vuoi consolarci, nonostante la nostra ostinazione. Fa che il Tuo grido rompa la nostra sordità e si trasformi in passi concreti e veloci, verso casa.

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