V DOM. T.O.
Giobbe descrive alcuni momenti dell’esistenza, paragonandola servizio
del soldato che, dopo ore faticose e piene di rischi, attende con ansia il cambio della guardia;
all’esperienza
drammatica del cottimista - una sorta di lavoratore a giornata - che, per poco
denaro, accetta qualsiasi tipo di lavoro; infine al lavoro sfiancante dello schiavo
- definito instrumentum genus vocale, “una specie di attrezzo dotato
di parola” - che desidera solo un po’ di riparo dal sole cocente. Tutti costoro
hanno almeno la speranza del cambio della guardia, del salario a fine giornata
e del breve riposo, ma egli si sente l’uomo sofferente che, oltre alla fatica
del giorno, non trova nessun riposo durante la notte, quando si gira e si
rigira nel letto: “quando penso che il
letto mi darà sollievo e che il giaciglio attutirà i lamenti, proprio allora tu
mi terrorizzi con i sogni” (Gb 7,13s).
Giobbe rappresenta l’uomo sofferente di ogni tempo e di ogni luogo; colui che non trova il senso al
proprio dolore che, non ha più speranza e arriva a gridare a Dio: “Quando la finirai di spiarmi e mi lascerai
inghiottire la saliva? Supponiamo che abbia peccato: ebbene cosa ti ho fatto, o
carceriere dell’uomo? Perché mi hai
scelto come bersaglio e in che cosa ti sono di peso” (7,21).
La sofferenza è un mistero, per questo non si possono spendere parole
facili e a buon mercato, perché rischiano di risultare offensive per chi ne è
colpito. Quante volte in questi anni di
ministero mi sono ritrovato senza parole. Ricordo come fosse oggi, il momento
in cui mia madre, pochi giorni di prima di morire, mi chiese: “Andrea, perché il Signore mi ha abbandonato?”.
Ricordo le sue parole, ma anche il mio silenzio, perché anche io non capivo. L’unica
cosa che potei fare, fu abbracciarla.
Certo, chi ha fede, prega con forza, come nel caso della suocera di
Pietro: “Subito gli parlarono di lei”
(Mc 1,30). La preghiera è la roccia a cui ci aggrappiamo quando la sofferenza,
senza bussare, entra prepotentemente in casa nostra. Persino coloro che non
pregano mai, cominciano a rivolgere la loro disperazione al Signore. Quante
volte però rimaniamo delusi nelle nostre attese! Non sempre, infatti, vediamo
noi stessi o i nostri cari guariti o sollevati dal dolore.
Gesù non ha voluto illudere i suoi
contemporanei e, con essi, nemmeno noi. Egli ha guarito molti, ma non
tutti e, quando in tanti lo cercarono per essere liberati, scelse di “andare altrove, nei villaggi vicini, per
predicare” (1,38). Non è insensibilità o indifferenza. Lo so che vorremmo
risposte rassicuranti e soluzioni pronte, ma non ce ne sono. Alla vergine Maria
fu detto: “Anche a te una spada
trafiggerà l’anima” e il Signore Gesù stesso ha sudato sangue, tanta era la
sofferenza che lo attanagliava. Egli può fare sue le parole del salmo: “Con la mia voce grido …, con la mia voce
supplico …; … sfogo il mio lamento, … espongo la mia angoscia” (Salmo 142,
2s).
La sofferenza è inestirpabile
dall’esperienza umana. Potrebbe essere fortemente ridimensionata, se ogni uomo scegliesse
di essere giusto, di volere il bene altrui, se smettesse di inquinare, se fosse
fedele, rispettasse il bene comune, se si smettesse di girarsi dall’altra
parte, ecc …, ma rimarrebbe comunque la dimensione del dolore innocente e inspiegabile.
Andando altrove a predicare, Gesù ci dice chiaramente che il dolore e la
sofferenza fanno parte della vita e che, non necessariamente sono da maledire.
So di dire parole difficili, ma noi abbiamo fede e dobbiamo imparare a guardare
la realtà con occhi diversi. Scrive nel suo diario Chiara Corbella, la giovane
mamma che ha visto nascere e morire due dei suoi figli e, durante la terza
gravidanza si è ammalata pure lei: “Nel
matrimonio il Signore ha voluto donarci dei figli speciali: Maria Grazia
Letizia e Davide Giovanni, ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla
nascita. Ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani
del Padre in una serenità e una gioia sconvolgente. Ora ci ha affidato questo
terzo figlio, Francesco che sta bene e nascerà tra poco, ma ci ha chiesto anche
di continuare a fidarci di Lui nonostante un tumore che ho scoperto poche
settimane fa e che cerca di metterci paura del futuro, ma noi continuiamo a
credere che Dio farà anche questa volta cose grandi” (Chiara Corbella Petrillo,
al Laboratorio della fede, Gennaio 2011).
Dobbiamo imparare a fare nostre le
parole di san Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil
4,13) e “noi sappiamo che
tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio … in tutte queste cose noi
siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti
persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né
avvenire, né potenze, 39né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà
mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,28ss).
Sia chiaro: noi non siamo tenuti ad amare la sofferenza, anzi la
combattiamo con tutti i mezzi a disposizione: preghiamo con Gesù affinché, se è
possibile, sia allontanato da noi questo calice e per avere la forza di
affrontare la sofferenza inevitabile; ci lasciamo provocare dalla sofferenza provocata
dall’uomo e ci impegniamo a fare la nostra parte; ci mettiamo a fianco di chi
soffre, affinché la croce possa diventare un po’ più leggera, ma diciamo anche “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia
fatta”. Noi sappiamo infatti che, sebbene non si veda ancora nulla in
lontananza, anche il deserto, a un certo punto, finisce; a ogni notte della
storia succede un giorno.Soprattutto sappiamo che, quando siamo sulla croce, il Cristo è con noi.
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