Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

domenica 4 febbraio 2018

Asciuga le nostre lacrime



V DOM. T.O.

     Giobbe descrive alcuni momenti dell’esistenza, paragonandola servizio del soldato che, dopo ore faticose e piene di rischi, attende con ansia il  cambio della guardia;
all’esperienza drammatica del cottimista - una sorta di lavoratore a giornata - che, per poco denaro, accetta qualsiasi tipo di lavoro; infine al lavoro sfiancante dello schiavo - definito instrumentum genus vocale, “una specie di attrezzo dotato di parola” - che desidera solo un po’ di riparo dal sole cocente. Tutti costoro hanno almeno la speranza del cambio della guardia, del salario a fine giornata e del breve riposo, ma egli si sente l’uomo sofferente che, oltre alla fatica del giorno, non trova nessun riposo durante la notte, quando si gira e si rigira nel letto: “quando penso che il letto mi darà sollievo e che il giaciglio attutirà i lamenti, proprio allora tu mi terrorizzi con i sogni” (Gb 7,13s).
     Giobbe rappresenta l’uomo sofferente di ogni tempo e di ogni  luogo; colui che non trova il senso al proprio dolore che, non ha più speranza e arriva a gridare a Dio: “Quando la finirai di spiarmi e mi lascerai inghiottire la saliva? Supponiamo che abbia peccato: ebbene cosa ti ho fatto, o carceriere dell’uomo? Perché  mi hai scelto come bersaglio e in che cosa ti sono di peso” (7,21).

     La sofferenza è un mistero, per questo non si possono spendere parole facili e a buon mercato, perché rischiano di risultare offensive per chi ne è colpito.  Quante volte in questi anni di ministero mi sono ritrovato senza parole. Ricordo come fosse oggi, il momento in cui mia madre, pochi giorni di prima di morire, mi chiese: “Andrea, perché il Signore mi ha abbandonato?”. Ricordo le sue parole, ma anche il mio silenzio, perché anche io non capivo. L’unica cosa che potei fare, fu abbracciarla.
     Certo, chi ha fede, prega con forza, come nel caso della suocera di Pietro: “Subito gli parlarono di lei” (Mc 1,30). La preghiera è la roccia a cui ci aggrappiamo quando la sofferenza, senza bussare, entra prepotentemente in casa nostra. Persino coloro che non pregano mai, cominciano a rivolgere la loro disperazione al Signore. Quante volte però rimaniamo delusi nelle nostre attese! Non sempre, infatti, vediamo noi stessi o i nostri cari guariti o sollevati dal dolore.
     Gesù non ha voluto illudere i suoi  contemporanei e, con essi, nemmeno noi. Egli ha guarito molti, ma non tutti e, quando in tanti lo cercarono per essere liberati, scelse di “andare altrove, nei villaggi vicini, per predicare” (1,38). Non è insensibilità o indifferenza. Lo so che vorremmo risposte rassicuranti e soluzioni pronte, ma non ce ne sono. Alla vergine Maria fu detto: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima” e il Signore Gesù stesso ha sudato sangue, tanta era la sofferenza che lo attanagliava. Egli può fare sue le parole del salmo: “Con la mia voce grido …, con la mia voce supplico …; … sfogo il mio lamento, … espongo la mia angoscia” (Salmo 142, 2s).
     La sofferenza è inestirpabile dall’esperienza umana. Potrebbe essere fortemente ridimensionata, se ogni uomo scegliesse di essere giusto, di volere il bene altrui, se smettesse di inquinare, se fosse fedele, rispettasse il bene comune, se si smettesse di girarsi dall’altra parte, ecc …, ma rimarrebbe comunque la dimensione del dolore innocente e inspiegabile.
     Andando altrove a predicare, Gesù ci dice chiaramente che il dolore e la sofferenza fanno parte della vita e che, non necessariamente sono da maledire. So di dire parole difficili, ma noi abbiamo fede e dobbiamo imparare a guardare la realtà con occhi diversi. Scrive nel suo diario Chiara Corbella, la giovane mamma che ha visto nascere e morire due dei suoi figli e, durante la terza gravidanza si è ammalata pure lei: “Nel matrimonio il Signore ha voluto donarci dei figli speciali: Maria Grazia Letizia e Davide Giovanni, ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla nascita. Ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani del Padre in una serenità e una gioia sconvolgente. Ora ci ha affidato questo terzo figlio, Francesco che sta bene e nascerà tra poco, ma ci ha chiesto anche di continuare a fidarci di Lui nonostante un tumore che ho scoperto poche settimane fa e che cerca di metterci paura del futuro, ma noi continuiamo a credere che Dio farà anche questa volta cose grandi” (Chiara Corbella Petrillo, al Laboratorio della fede, Gennaio 2011).
     Dobbiamo imparare a fare nostre le parole  di san Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà la forza” (Fil 4,13) e “noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio … in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, 39né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,28ss).
     Sia chiaro: noi non siamo tenuti ad amare la sofferenza, anzi la combattiamo con tutti i mezzi a disposizione: preghiamo con Gesù affinché, se è possibile, sia allontanato da noi questo calice  e per avere la forza di affrontare la sofferenza inevitabile; ci lasciamo provocare dalla sofferenza provocata dall’uomo e ci impegniamo a fare la nostra parte; ci mettiamo a fianco di chi soffre, affinché la croce possa diventare un po’ più leggera, ma diciamo anche “Padre, non la mia, ma la tua volontà sia fatta”. Noi sappiamo infatti che, sebbene non si veda ancora nulla  in lontananza, anche il deserto, a un certo punto, finisce; a ogni notte della storia succede un giorno.Soprattutto sappiamo che, quando siamo sulla croce, il Cristo è con noi.

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