II DOM. QUAR.
Quante volte ci sentiamo incompresi, non conosciuti da chi ci sta
davanti.
Ci sono persone alle quali non teniamo particolarmente o ci sono
indifferenti e, allora, non abbiamo particolari problemi, ma che dolore quando ad
agire così è qualcuno di importante.
Quanto pesa il giudizio di alcune persone!
Quanto può aiutarci a vivere o a morire lentamente.
C’è chi pensa di conoscerci solo perché ci guarda in superficie,
dimenticando che, spesso, ciò che si vede non siamo noi, ma la maschera che
abbiamo dovuto o voluto indossare; c’è chi ci
misura a partire dalla propria visione, per cui ci attribuisce pensieri
e atteggiamenti che nemmeno ci passerebbero per la mente (in psicologia questo
atteggiamento si chiama “proiezione”); ci sono quelli poi che, condizionati dal
proprio stato d’animo, pesano ogni nostra parola e gesto ed emettono giudizi
lapidari – chi ha una visione negativa, legge tutto in maniera negativa, anche
le cose più belle -.
La visione che gli altri hanno di noi ha conseguenze pratiche molto
importanti. Alcuni anni fa vidi un giovane che aveva fama di essere un bullo,
mentre, con tanta delicatezza, faceva giocare un bambino sull’altalena, nel
parco giochi che avevamo in convento. Uscii per rimandargli la bellezza di
questa cosa e gli chiesi perché non mostrava questa parte di sé. Gli dissi:
“Rischi di far dire a tutti che sei un bullo” e lui mi rispose: “Tanto lo
pensano già”. Aveva accettato di essere ciò che non era, perché la gente lo
aveva cristallizzato in quella immagine.
Saremo accolti o esclusi a partire da ciò che lo sguardo dell’altro vede
di noi. Ci arrabbiamo, siamo delusi, feriti e, a volte, arriviamo a fare di
tutto per essere accolti. Quanti si snaturano per potere appartenere a
qualcuno!
Noi siamo vittime, ma altrettanto spesso “carnefici”, perché misuriamo
gli altri con il nostro metro inadeguato; guardandoli in superficie e a partire
dai nostri stati d’animo. Quante persone sono state ferite, se non uccise, dal
nostro giudizio errato. Quanti finiscono
nel reparto “scarti” o articoli difettosi – come all’Ikea – a causa nostra.
Dobbiamo permettere all’altro di stupirci con la sua originalità, seppur
ferita; impedire agli schemi mentali di oscurare la bellezza dell’altro. Bisogna
salire sul monte e permettere alle persone di far risplendere quella luce che
gli brilla dentro; dove l’apparenza lascia spazio alla verità.
Gesù è stato vittima dello stesso nostro problema; chiede ai discepoli:
“Le folle chi dicono che io sia?” (Lc
9,18). Ognuno si lancia in una supposizione: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi
profeti che è risorto” (9,19). Per questo Gesù porta sul monte Pietro ,
Giacomo e Giovanni, per svelarsi almeno a loro, per rompere il cortocircuito
del “secondo me”. Gesù vuole e propone un incontro personale, a tu per tu, dove
potersi rivelare nella Sua verità e mostrare la Sua bellezza seducente.
Sul monte Gesù svela la Sua divinità e, nello stesso tempo, la forza del
Suo amore che lo condurrà a Gerusalemme a donare la vita. Da qui diventa evidente che Gesù non vuole che ci fermiamo
inermi sul monte a contemplare il Suo volto, ma che da quella contemplazione, da
quell’incontro scendiamo trasformati da Lui in Lui. Dal monte si scende per
andare lungo le strade a dire a tutti chi è davvero Gesù e a parlare e agire
come Lui.
Porta sul monte anche me, Signore, perché anche io voglio conoscerTi.
Sono stanco di sentire parlare di Te, io voglio vedere Te; voglio sentire la
Tua voce che parla a me. Non mi accontento più di essere credente, io voglio
diventare cristiano. Desidero che chi vede me, veda Te, perché io so che il
mondo ha bisogno di Te e non di quelle maschere di Te che abbiamo contribuito a
diffondere.
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