A prima vista l’Ascensione sembra essere un abbandono: “Mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1,9) e “Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo” (Lc 24,51). La comunità degli apostoli e dei discepoli, di fatto, sembra ritrovarsi nuovamente sola; si era riaccesa la speranza – per quaranta giorni Gesù si è manifestato loro -, ma ora, nuovamente sembra andarsene. Eppure c’è un particolare che ci fa comprendere che i discepoli non vivono questo momento come un abbandono: “Essi … tornarono a Gerusalemme con grande gioia …” (Lc 24,52). Essi intuiscono che il Signore resta con loro in maniera diversa, ma non per questo meno vera. Del resto le ultime parole di Gesù, che l’evangelista Marco ci dona sono: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mc 28,20); evidentemente essi sentono nel profondo la verità di questa promessa. Noi, come i discepoli, non siamo soli e Cristo non deve ritornare, per il semplice fatto che non ci ha mai abbandonati.
L’elevazione alla destra del Padre – il verbo elevare è di origine veterotestamentario ed è riferito all’intronizzazione di un sovrano e, alla destra, non indica un luogo, ma la condivisione della potenza di Dio -, riguarda tutto il Cristo, anche la sua natura umana, anche il suo corpo.
Ci ricorda san Paolo che la Chiesa è il corpo di Cristo e noi siamo sue membra, quindi, l’ascensione ci rivela il doppio destino dell’uomo: essere profondamente incarnato nella storia del mondo, ma, nel contempo, profondamente inserito alla presenza di Dio. Un cristiano non può vivere nel cielo, perché altrimenti sarebbe un angelo, ma non può nemmeno vivere solamente sulla terra, perché altrimenti sarebbe un materialista.
“I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. … Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; ... Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera … Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. (Lettera a Diogneto, V,1ss). In quest’antichissimo testo troviamo delle affermazioni che ci aiutano a comprendere che la patria definitiva per noi non è la terra, ma il regno di Dio. Mentre viviamo qui, amiamo la realtà nella quale stiamo, e la dobbiamo servire, ma ben consapevoli che è passeggera: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3,1s); “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi” (Gv 14,1ss).
Quanto più saremo con Cristo alla presenza del Padre, tanto più saremo capaci di vivere un’esistenza piena e sapremo servire il creato che ci è stato affidato. Non dimentichiamo che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio, cioè siamo i suoi luogotenenti sulla terra; a noi è affidato il compito di “coltivare e custodire” ciò che il Signore ha creato.
La festa dell’Ascensione ci aiuta a scrollarci di dosso la mediocrità, la terribile piaga dell’accontentarsi di una religiosità che ci raggiunge solo all’esterno e che non produce conversione. Oggi il Signore ci mostra che terra e cielo devono essere uniti; non possono essere separati né viaggiare su binari paralleli. L’umanità ha bisogno di fedeli, non di credenti; cioè di persone che sanno fidarsi di quel Signore che cercano – “come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te o Dio” – e con cui vivono e, quindi, che scelgono di seguire, pur nei limiti che ciascuno inevitabilmente ha.
Al mondo servono persone che facciano esperienza della bellezza di Dio, che sperimentano, come Mosé, stando “faccia a faccia col Signore” e che poi la lascino trasparire. E’ stando con Dio che impariamo a vivere e a custodire il mondo. Proprio in questi giorni papa Benedetto ha detto: “Spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?
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