Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

venerdì 11 giugno 2010

IL SACRAMENTO DELLA RICONCILIAZIONE 1

Il Sacramento della Riconciliazione è manifestazione della misericordia di Dio

Innanzitutto dobbiamo soffermarci un istante sui termini “sacramento” e “riconciliazione” e, quindi misericordia:

- SACRAMENTO: sappiamo bene che i sacramenti sono sette e che essi sono “segni efficaci della grazia”, ossia sono azioni sante nelle quali l’invisibile grazia di Dio viene comunicata al credente in un segno visibile e prendono il posto dei miracoli del tempo dell’incarnazione. Sono i canali attraverso i quali la grazia di Dio raggiunge effettivamente ed efficacemente gli esseri umani. Sono “la via che il Signore ha tracciato per noi, ecco la porta che egli ha aperta … egli ritorna agli uomini passando per questa porta e per questa via” (N. Cabasilas).

Nei sacramenti è Cristo stesso che agisce, attraverso la mediazione del sacerdozio e dei segni.

- RICONCILIAZIONE: Il termine riconciliazione indica che si ha a che fare con una relazione interrotta. Mentre il diavolo è il padre della divisione e della separazione, Dio è il Padre della riconciliazione.

· Cos’è la misericordia?

Si legge che il pastore del Vangelo prese sulle proprie spalle la pecora affaticata, non che la respinse; e Salomone dice: Non essere eccessivamente giusto. La moderazione, infatti, deve mitigare la giustizia. Come si lascerebbe curare da te uno per cui provi antipatia, se pensasse di suscitare nel suo medico disprezzo anziché compassione? Perciò il Signore Gesù ha avuto compassione di noi, così da chiamarci a sé, non da tenerci lontani con il terrore. E’ venuto mite, è venuto umile; così ha detto: Venite a me voi tutti che siete affaticati, e io vi ristorerò. Il Signore Gesù ristora, non esclude, non respinge, e a buon diritto scelse discepoli che, interpretando la volontà divina, raccogliessero il popolo di Dio, non lo respingessero”[1].

Cerchiamo allora di contemplare la misericordia di Dio. Come? Andando dietro alle nostre idee personali, alla nostra fantasia? Si può fare, ma non sarebbe la strada corretta, perché rischieremmo semplicemente di parlare di noi, pensando di parlare di Dio. “Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,9); “lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell'uomo se non lo spirito dell'uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1 Cor 2,10ss).

Per parlare di Dio, quindi non possiamo puntare su noi stessi, cioè usare noi stessi come criterio e come mezzo di conoscenza. Abbiamo bisogno di un elemento esterno, un criterio “oggettivo”, un termine di riferimento, un punto di appoggio diverso da noi. Questo termine di paragone è la Sacra Scrittura. Forse solo un radicamento biblico può fondare una visione equilibrata del rapporto peccato-misericordia, lontano da una sottolineatura ossessiva solo del peccato, che farebbe nascere atteggiamenti disperati e angosciati sensi di colpa, ma anche lontano da una sottolineatura unilaterale ed esclusiva della misericordia, che porterebbe a svilire l’immagine paterna di Dio, in un ritratto edulcorato e deresponsabilizzante: “O disprezzi la ricchezza della sua bontà, della sua clemenza e della sua magnanimità, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione?” (Rm 2,4).

“Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà …. Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi …” (DV I,2). Il nostro camminare sulla strada della misericordia, consisterà nel cercare di contemplare il volto di Dio e il suo agire nella storia, così come ci è stato consegnato dalla Sacra Scrittura.

Nelle nostre versioni della Bibbia, il temine misericordia è impiegato per rendere vari vocaboli, sia ebraici che greci, ciascuno dei quali ha un significato proprio, con sfumature diverse. Proviamo allora a ripercorrere questi termini nelle loro lingue originali, per scoprirne la profonda ricchezza, che l’italiano non riesce a rendere.

1. Il primo termine con cui l’A.T. indica la misericordia è rahamim, che designa le “viscere”, anzi al singolare richiama l’utero materno. Indica dunque lo spazio fatto in sé alla vita dell’altro, spazio di comunione profonda, di con-sentire, di com-patire. Non per niente in senso traslato è usato per esprimere quel sentimento intimo e profondo che lega due persone per ragioni di sangue: “Come un padre ha pietà (rhm) dei suoi figli,così il Signore ha pietà di quanti lo temono” (Sl 103,13). Anche in italiano conosciamo questo significato, infatti parliamo di amore, ma anche di odio viscerale; è qualcosa di estremamente profondo e direi, non gestibile, non dominabile. Quando le circostanze lo richiedono, questo sentimento si trasforma in atti di compassione o di perdono o, nel caso dell’odio, in violenza cieca.

2. Il secondo termine è hesed, spesso utilizzato come sinonimo del termine precedente, ma da cui si distingue perché non nasce da un sentimento spontaneo, quanto da una scelta cosciente. Questo tipo di misericordia riguarda coloro che sono legati da un rapporto superiore-inferiore. Chi ha una qualche autorità (sovrano) sceglie di mettere in atto gesti di bontà, di pietà, di compassione o di perdono.

Il testo greco della LXX e il N.T. usano come termine dominante eleos che traduce hesed. Mt per esempio nella sua versione delle Beatitudini usa il termine greco eleéo: “makarioi oi elehmones oti autoi elehqhsontai”. Lo conosciamo per averlo imparato nella formula dell’invocazione “Kiyrie eléison” che ci accompagna nella celebrazione Eucaristica e significa “dimostra misericordia”.

Questo aggettivo viene usato solo un’altra volta in tutto il N.T in Eb 2,17s, dove si parla di Gesù. L’autore di Eb scrive: “doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele”. Il concetto stesso di sacerdozio, nell’A.T., implicava separazione e diversità. Sappiamo che solo i sacerdoti potevano accedere alle zone più sacre del tempio di Gerusalemme e addirittura, solo il Sommo Sacerdote poteva entrare, una volta all’anno nel Santo dei Santi.

Per poter essere sacerdote, uno doveva essere separato dal resto del popolo. Ebbene, quando si parla di Gesù sacerdote, lo si intende nel senso esattamente opposto; Gesù è un sacerdote misericordioso, perché si è reso simile in tutto agli uomini. Invece di separarsi, ha scelto di condividerne tutta l’esperienza. La misericordia allora si avvicina molto al concetto di compassione, intesa nel senso di capacità di soffrire insieme, di condividere la sofferenza. La misericordia è il sentimento della commozione, che suscita la vista di un qualche male che ha colpito altre persone. Anche in latino il significato è “il cuore che sente pietà".

Trasferendo il linguaggio dell’esperienza umana e applicandolo in maniera antropomorfica a Dio, gli autori sacri sono riusciti, a darci una certa immagine dell’amore di Dio che, a contatto con il male e con il peccato degli uomini, si manifesta come misericordia.

Qui infatti sta il cuore del problema: Dio è misericordioso, perché Dio è amore. La misericordia è una conseguenza dell’amore. Chi non ama, perché non sa o non vuole amare, non può essere misericordioso.




[1] Ambrogio di Milano, La Penitenza, Città Nuova, p 173

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