Diventare cattolici non significa smettere di pensare, ma imparare a farlo”.
Gilbert K. Chesterton

sabato 26 febbraio 2011

Il dialogo secondo Gianfranco Ravasi

«Mi manca la fede e, quindi, non potrò mai essere un uomo felice,
 perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa (…) Non ho ereditato il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto caro al razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso, allora, gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui dubito». Aveva soltanto 31 anni ed era già al culmine del successo; eppure il 4 novembre 1954 si era tolto la vita, e forse la chiave di questa resa fallimentare era da cercare proprio nelle righe che abbiamo citato dalla sua opera Il nostro bisogno di consolazione. Stiamo parlando di uno scrittore svedese di «culto», Stig Dagerman, che illumina in modo esplicito il senso di un dialogo tra atei e credenti.

Interrogarsi sul significato ultimo dell’esistere non coinvolge, certo, lo scettico sardonico e sarcastico che ambisce solo a ridicolizzare asserti religiosi. Tra l’altro, uno che di ateismo s’intendeva come il filosofo Nietzsche non esitava a scrivere nel Crepuscolo degli dei (1888) che «solo se un uomo ha una fede robusta, può indulgere al lusso dello scetticismo». Neppure il razionalista, avvolto nel manto glorioso della sua autosufficienza conoscitiva, vuole correre il rischio di inoltrarsi sui sentieri d’altura della sapienza mistica, secondo una grammatica nuova che partecipa del linguaggio dell’amore, che è ben diverso dalla spada di ghiaccio della pur importante ragione pura. Né è interessato a questo dialogo l’ateo confessante che, sulla scia dello zelo ardente del marchese de Sade della Nouvelle Justine (1797), presenta il suo petto solo al duello: «Quando l’ateismo vorrà dei martiri, lo dica: il mio sangue è pronto!».

L’incontro tra credenti e non credenti avviene quando si lasciano alle spalle apologetiche feroci e dissacrazioni devastanti e si toglie via la coltre grigia della superficialità e dell’indifferenza, che seppellisce l’anelito profondo alla ricerca, e si rivelano, invece, le ragioni profonde della speranza del credente e dell’attesa dell’agnostico. Ecco perché si è voluto pensare a un «Cortile dei Gentili» che si inaugurerà a Bologna, nella sua antica università e a Parigi alla Sorbona, all’Unesco e all’Académie Française. Lasciamo da parte la denominazione storica che ha solo una funzione simbolica, evocando l’atrio che nel tempio di Gerusalemme era riservato ai «gentili», i non ebrei in visita alla città santa e al suo santuario. Fermiamoci, invece, sul suo aspetto tematico, così come lo fa balenare Dagerman. Uno degli intellettuali ebrei più aperti del primo secolo, Filone di Alessandria d’Egitto, artefice di un dialogo tra ebraismo ed ellenismo — quindi secondo i canoni di allora, tra fedeli jahvisti e pagani idolatrici — definiva il sapiente con l’aggettivo methòrios, ossia colui che sta sulla frontiera. Egli ha i piedi piantati nella sua regione, ma il suo sguardo si protende oltre il confine e il suo orecchio ascolta le ragioni dell’altro.

Per attuare questo incontro ci si deve armare non di spade dialettiche, come nel duello tra il gesuita e il giansenista del film La via Lattea (1968) di Buñuel, ma di coerenza e rispetto: coerenza con la propria visione dell’essere e dell’esistere, senza slabbramenti sincretistici o sconfinamenti fondamentalistici o approssimazioni propagandistiche; rispetto per la visione altrui alla quale si riservano attenzione e verifica. Si è, invece, incapaci di ritrovarsi su quel confine tra i due cortili simbolici del tempio di Sion, l’atrio dei gentili e quello degli israeliti, quando ci si arrocca solo in difesa dei propri idoli. Nell’Adolescente (1875) Dostoevskij, sia pure con la passione del credente, li identificava con chiarezza. Da un lato, infatti, affermava che «l’uomo non può esistere senza inchinarsi (…) Si inchinerà, allora, a un idolo di legno o d’oro, o del pensiero… o di dèi senza Dio». D’altro lato, però, riconosceva che vi sono «alcuni che sono davvero senza Dio, solamente fanno più paura degli altri, perché vengono col nome di Dio sulle labbra». Ecco la tipologia comune a coloro che non si fermeranno a dialogare su quella frontiera: chi è convinto di aver già in sé tutte le risposte e di doverle solo imporre.

Questo, però, non significa che ci si presenta soltanto come mendicanti, privi di qualsiasi verità o concezione della vita. Ponendomi per congruenza sul territorio del credere a cui appartengo, vorrei solo evocare la ricchezza che questa regione rivela nei suoi vari panorami ideali. Pensiamo al raffinato statuto epistemologico della teologia come disciplina dotata di una sua coerenza, alla visione antropologica cristiana elaborata nei secoli, all’investigazione sui temi ultimi della vita, della morte e dell’oltrevita, della trascendenza e della storia, della morale e della verità, del male e del dolore, della persona, dell’amore e della libertà; pensiamo anche al contributo decisivo offerto dalla fede alle arti, alla cultura e allo stesso ethos dell’Occidente. Questo enorme bagaglio di sapere e di storia, di fede e di vita, di speranza e di esperienza, di bellezza e di cultura è posto sul tavolo di fronte al «gentile» che potrà, a sua volta, imbandire la mensa della sua ricerca e dei suoi risultati per un confronto.

Da un simile incontro non si esce mai indenni, ma reciprocamente arricchiti e stimolati. Sarà un po’ paradossale, ma potrebbe essere vero quello che Gesualdo Bufalino scriveva nel suo Malpensante (1987): «Solo negli atei sopravvive oggigiorno la passione per il divino». Una lezione, quindi, e un monito per lo stesso fedele abitudinario, affidato a formule dogmatiche, senza lo scavo del comprendere intelligente e vitale. Sull’altro versante si potrebbe immaginare l’epigrafe di una delle tombe dell’Antologia di Spoon River (1915): «Io che qui giaccio ero l’ateo del villaggio, loquace, litigioso, versato negli argomenti dei miscredenti. Ma in una lunga malattia lessi le Upanishad e il Vangelo di Gesù. Ed essi accesero una fiaccola di speranza e di intuizione e di desiderio che l’Ombra, guidandomi tra le caverne del buio, non poté estinguere. Ascoltatemi, voi che vivete nei sensi e pensate solo attraverso i sensi: l’immortalità non è un dono ma un compimento. E solo coloro che si sforzano molto potranno ottenerla».

Si deve, allora, affermare — sempre in questa linea e sulla scia della metafora della frontiera — che il confine, quando si dialoga, non è una cortina di ferro invalicabile. Non solo perché esiste una realtà che è quella della «conversione» e qui assumiamo il termine nel suo significato etimologico generale e non nell’accezione religiosa tradizionale. Ma anche per un altro motivo. Credenti e non credenti si trovano spesso sull’altro terreno rispetto a quello proprio di partenza: ci sono, infatti, come si suol dire, credenti che credono di credere, ma in realtà sono increduli e, viceversa, non credenti che credono di non credere, ma il loro è un percorso che si svolge in quel momento sotto il cielo di Dio. A questo proposito vorremmo solo suggerire un paio di esempi paralleli, anche se distribuiti sui due campi. Partiamo dal credente e dalla componente di oscurità che la fede comporta, soprattutto quando si allarga il sudario del silenzio di Dio.

Facile è pensare ad Abramo e ai tre giorni di marcia sull’erta del monte Moria, stringendo la mano del figlio Isacco e custodendo nel cuore lo sconcertante imperativo divino del sacrificio (Genesi, 22); oppure possiamo ricorrere alla lacerante e fluviale interrogazione di Giobbe; o ancora al grido dello stesso Cristo in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». O tanto per scegliere un emblema moderno, tra i tanti possibili, alla «notte oscura» di un mistico altissimo come san Giovanni della Croce e, per venire a noi, al dramma del pastore Ericsson in crisi di fede, nel film Luci d’inverno (1962) di Ingmar Bergman. Scriveva giustamente un teologo francese, Claude Geffré: «Su un piano oggettivo è evidentemente impossibile parlare di una non credenza nella fede. Ma sul piano esistenziale si può arrivare a discernere una simultaneità di fede e di non credenza. Ciò non fa che sottolineare la natura stessa della fede come dono gratuito di Dio e come esperienza comunitaria: il vero soggetto della fede è una comunità e non un individuo isolato».

Spostiamoci ora sull’altro versante, quello dell’ateo e delle sue oscillazioni. Il suo stesso anelito, testimoniato per esempio dal citato Dagerman, è già un percorso che s’inoltra nel mistero, a tal punto da configurarsi in preghiera, come è testimoniato da questa invocazione di Aleksandr Zinov’ev, l’autore di Cime abissali (1976): «Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco, apri i tuoi occhi, ti supplico! Non avrai da fare altro che questo, seguire ciò che succede: è ben poco! Ma, o Signore, sforzati di vedere, te ne prego! Vivere senza testimoni, quale inferno! Per questo, forzando la mia voce io grido, io urlo: Padre mio, ti supplico e piango: Esisti!». È la stessa supplica di uno dei nostri poeti contemporanei più originali, Giorgio Caproni (1912-1990): «Dio di volontà, Dio onnipotente, cerca, / (Sforzati!), a furia di insistere, / — almeno — di esistere». È significativo che il concilio Vaticano II abbia riconosciuto che, obbedendo alle ingiunzioni della sua coscienza, anche il non credente può partecipare della risurrezione in Cristo che «vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore invisibilmente lavora la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti (…) Perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes, 22).

In ultima analisi l’ostacolo che si leva per questo dialogo-incontro è forse uno solo, quello della superficialità che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’ateismo a una negazione banale o sarcastica. Per molti, ai nostri giorni, il «Padre nostro» si trasforma nella caricatura che ne ha fatto Jacques Prévert: «Padre nostro che sei nei cieli, restaci!». O ancora nella ripresa beffarda che il poeta francese ha escogitato della Genesi: «Dio, sorprendendo Adamo ed Eva, / disse: Continuate, ve ne prego, / non disturbatevi di me, / fate come se io non esistessi!». Far come se Dio non esistesse, etsi Deus non daretur, è un po’ il motto della società del nostro tempo: chiuso come egli è nel cielo dorato della sua trascendenza, Dio — o la sua idea — non deve disturbare le nostre coscienze, non deve interferire nei nostri affari, non deve rovinare piaceri e successi.

È questo il grande rischio che mette in difficoltà una ricerca reciproca, lasciando il credente avvolto in una lieve aura di religiosità, di devozione, di ritualismo tradizionale, e il non credente immerso nel realismo pesante delle cose, dell’immediato, dell’interesse. Come annunciava già il profeta Isaia, ci si ritrova in uno stato di atonia: «Guardai, ma non c’era nessuno; tra costoro nessuno era capace di consigliare, nessuno c’era da interrogare per avere una risposta» (41, 28). Il dialogo è proprio per far crescere lo stelo delle domande, ma anche per far sbocciare la corolla delle risposte. Almeno di alcune risposte autentiche e profonde.







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