In Francia è stato fatto nascere un bambino con un corredo genetico selezionato ad hoc, attraverso la fecondazione assistita, perché possa aiutare i fratelli maggiori a guarire da una malattia rara. E’ venuto alla luce nell’ospedale Antoine-Be’cle’re (Clamart) il 26 gennaio scorso, dopo aver scartato moltissimi altri embrioni malati e sani. Si è arrivati quindi a generare esseri umani per guarirne altri, uomini usati come farmaci.
La faccenda è tanto grave che perfino Alessandra Kustermann, storica ginecologa abortista
e primario di ostetricia e ginecologia della Mangiagalli di Milano, donna di sinistra, 30 anni di lotte per la difesa della legge sull´aborto ha dichiarato a Tempi: «solo la disperazione e la solitudine porta a fare cose del genere. Sicuramente qualcuno avrà consigliato quella donna, promettendogli mari e monti per quei figli malati». Oggi esistono importanti cure che permettono ai soggetti colpiti da beta-talassemia una vita regolare fino ai cinquant’anni e la ricerca è in continua evoluzione. Continua la Kustermann: «I dottori hanno il dovere di parlare delle alternative. Però la scienza può cadere nella logica della mamme disperata che vuole a tutti i costi salvare i figli anche a discapito di altri esseri umani. La scienza non è onnipotente, non sconfiggerà la morte. Mai. Perciò credo che il punto sia un altro: bisogna tornare ad accettare la morte. Ossia la vita per quella che è». Si immedesima in quelle mamme: «Queste persone sono così in preda al dolore che sono disposte a fare di tutto senza interrogarsi troppo. Se mi chiede: “Si sarebbe sottoposta alla fecondazione assistita? Avrebbe fatto un figlio per salvarne un altro? Sarebbe stata disponibile a selezionare e scartare embrioni sani o malati?”, risponderei che non lo avrei mai fatto. Ma chi può dire se in quella condizione, disperata e mal consigliata, non mi sarei illusa anch’io, come quella madre, che tutto ciò che è possibile è anche lecito? Credo che Dio non la giudichi». Sarebbe «terribile, da madre, sopprimere la vita di un figlio, anche se questo fosse malato. Sono cresciuta nella cultura cattolica che mi ha trasmesso il valore della Vita». Da questo momento inizia una riflessione molto interessante che la ginecologa fa sul suo lavoro di medico. La giornalista le fa presente infatti che lei però pratica aborti. Sopprimere una vita non è terribile anche per le altre donne? «È terribile, sì, per questo faccio di tutto per dissuaderle, per aiutarle ad avere speranza e fiducia nel futuro. Cerco di appoggiarmi al Centro di aiuto alla vita dell’ospedale. Parlo loro degli aiuti economici. Se sono sole dico loro che noi donne siamo in grado di allevare i nostri figli anche senza un uomo accanto. Ma se alla fine in loro vince la paura, io non riesco a giudicarle». Non giudicarle è un conto, farsi complice è un altro. «Lo so. In quel momento so benissimo che sto sopprimendo una vita. E non un feto, bensì un futuro bambino. Ogni volta provo un rammarico e un disagio indicibili. Sento che avremmo tutti potuto fare di più». La ginecologa ripete che le manca qualcosa, che invidia chi riesce a giudicare: «So che a me manca la fede per farlo, così quando sono lì penso che la vita della madre, che soffre davanti ai miei occhi, valga più di quella di suo figlio che non vedo ancora».
C’è stato un periodo della vita, però, in cui Alessandra Kustermann ha smesso di «sopprimere vite». Un momento segnato da una serenità e una pace che la dottoressa non sentiva più da quando aveva incominciato a praticare aborti. «Fu nei due mesi successivi alla morte di mio padre. Lui era cattolico per fede, diversamente da me che lo ero solo per tradizione. Non approvò mai quello che facevo, anche se mi voleva bene. Per questo, quando mori, smisi. Lo feci per lui. Stavo benissimo», ricorda la Kustermann con voce rotta e nostalgica. Allora perché ha ricominciato? «Perché poi ho pensato che avrei scaricato il peso sui miei colleghi. Non è che non facendone io, avrei fermato la pratica. E poi l’idea di un ritorno dell’aborto clandestino mi fa rabbrividire».
Non sarebbe più utile smettere per fare solo prevenzione? «Non cambio certo il mondo io, ma posso fare il possibile per rispondere a chi mi chiede aiuto, senza sottrarmi per quieto vivere». Ma se una “paladina” della legge 194 si ravvedesse, farebbe riflettere molti, specialmente i colleghi. «Non so. Non penso che il problema dell’aborto si risolva diminuendo il numero dei ginecologi non obiettori di coscienza. Gli aiuti di cui hanno bisogno queste donne sono innumerevoli e su diversi piani sociali, economici, affettivi. Amo il mio lavoro, quando non è concentrato sugli aborti, ma so che quando andrò in pensione mi potrò permettere di pensare di nuovo a Dio. Quando finirò di lavorare, spero solo di trovare un confessore misericordioso». Non ha la fede ma cerca perdono. Sa che l’aborto è sbagliato ma lo pratica. Perché non risolve la sua contraddizione smettendo di fare aborti? «Perché amo le donne e pensare che vivano da sole questo dramma mi angoscerebbe comunque. Ripeto: faccio di tutto prima che scelgano, credo di aver salvato più bambini di alcuni obiettori che si limitano a non fare nulla. Certo, loro non hanno fatto aborti come me, ma non basta se si vuole arginare la piaga. So di vivere un conflitto che chi ha la fede non prova. Ne ho incontrati di medici qui alla Mangiagalli, gente tutta d’un pezzo con cui ora mi alleo nella ricerca di soluzioni e con cui prima non riuscivo a trovare punti di incontro. Penso per esempio a Leandro Aletti, un pro-life con cui ho litigato aspramente per anni, ma che ora stimo e rispetto. Anzi, che invidio. Perché ha quella fede e quelle certezze che mi consentirebbero di smettere senza sensi di colpa»
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