Un mese fa un terremoto violentissimo ha colpito il Giappone causando circa 27mila morti, un’immane tragedia che tutto il mondo ha vissuto emotivamente ora per ora attraverso i mass media. Un'altra tragedia colpisce la stessa nazione
pur essendo questa una delle più ricche e tecnologiche potenze mondiali: nel 2009 il numero dei suicidi ha superato per il dodicesimo anno consecutivo la soglia dei 30mila, ogni anno ci sono stati più morti di quelli dovuti al terremoto ed allo tsnumani. Tutto però è avvenuto senza dirette TV e senza che il grande pubblico sia stato coinvolto ed informato: la somma di 30mila apocalissi individuali fa molto meno clamore di una apocalisse collettiva.
Proprio in questi giorni la rivista Le Scienze ci informa che “il paradosso dei suicidi nei paesi felici” vale tra le nazioni e anche all’interno della singola nazione. Tale fenomeno è stato rilevato da una ricerca condotta da studiosi dell'Università di Warwick, in Gran Bretagna, dello Hamilton College di New York e dalla Federal Reserve Bank of San Francisco, che lo illustrano in un articolo (Dark Contrasts: The Paradox of High Rates of Suicide in Happy Places) in via di pubblicazione sulla rivista Journal of Economic Behavior & Organization.
Le nazioni e gli stati degli Stati Uniti più "felici" hanno il tasso di suicidi più elevato, intendendo spesso come felicità il benessere. In passato l’osservazione era stata fatta in Danimarca. La nuova ricerca ha potuto rilevare che uno schema analogo si riscontra anche in altre nazioni, fra cui Canada, Stati Uniti, Islanda, Irlanda e Svizzera. Negli USA i dati grezzi indicano che lo Utah, che ha il massimo livello di soddisfazione, è il nono Stato per tasso di suicidi, mentre New York che si colloca al 45° posto per soddisfazione della vita ha il tasso di suicidi più basso del paese. Le Hawaii, al secondo posto per soddisfazione della vita, hanno il quinto più elevato tasso di suicidi, mentre il New Jersey, al 47° posto per soddisfazione della vita, è anche al 47° posto per tasso di suicidi.
A livello mondiale, i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono significativi: ogni anno circa un milione di persone muore per suicidio. Sotto i 15 anni, pur essendo rari e pari a circa il 2% del numero totale, il suicidio è la prima causa di morte in alcuni paesi: Cina, Svezia, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda. Il suicidio è praticamente la prima causa di morte, particolarmente per i maschi, in quasi tutti i paesi al Mondo fra i 25 e 55 anni, il valore assoluto supera il totale dei morti in questa fascia di età per guerre ed omicidi. In generale gli uomini si tolgono la vita più delle donne, i tentati suicidi sono da 10 a 20 volte di più dei suicidi commessi. Ogni suicidio colpisce in modo devastante in media altre sei persone. I più alti tassi di suicidio (dati OMS 2000 ) si riscontrano nell’Europa dell’Est, come in Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Ungheria, Russia, e nei paesi asiatici come Cina e Giappone. Quelli più bassi in America Latina e Paesi Arabi. I paesi africani non forniscono dati sufficienti.
Negli ultimi anni, specie sui mass media, si sta affermando la visione che tende a far apparire ogni singolo suicidio come “scelta di libertà”, viene propinato che il progresso sarebbe dare l’opportunità a ogni singolo individuo di poter scegliere in solitudine se interrompere definitivamente la sofferenza che inevitabilmente, prima o poi, la vita causa. Insomma, quando vedete qualcuno che tenta di suicidarsi lanciandosi da un ponte, dovete sapere che tentare di salvarlo potrebbe essere interpretata da alcuni come un atto di coercizione che limita la libertà altrui. In un mondo dove la libertà non comincia e finisce per tutti dagli stessi limiti, l’indifferenza, se non l’ammirazione, diviene l’atteggiamento "giusto" verso chi decide di farla finita. Illiberale diviene invece chi ritiene la vita un dono e cerca di far sentire sempre amato ed accolto chi decide di mettere fine “all’inconveniente di essere nati”.
Per questi fautori del suicidio come dimostrazione d’indipendenza e “potenza”, i dati dei suicidi a livello mondiale saranno probabilmente corrispettivo di libertà e non di poca attenzione al valore della persona; i paesi con alto tasso saranno i paesi da emulare e non dove la solitudine e la disgregazione hanno preso il sopravvento. I 30mila suicidi annuali giapponesi per alcuni non sono da piangere come i 27mila morti per terremoto, in quanto i primi hanno “scelto” mentre per ai secondi non è stata data la stessa possibilità.
E’ un dovere invece piangere tutti i morti allo stesso modo, sforzarsi affinché tutti le persone si sentano amate e percepiscano che altri hanno bisogno del loro amore. Forse è questo il segreto di molti paesi dove il tasso di suicidi è basso.
In un incontro ad Auronzo di Cadore del 24 luglio 2007 un sacerdote chiese al papa Benedetto XVI: “Santo Padre, i giovani sono il nostro futuro e la nostra speranza: ma alle volte vedono nella vita non un’opportunità, ma una difficoltà; non un dono per sé e per gli altri, ma un qualcosa da consumare subito; non un progetto da costruire, ma un vagare senza meta. La mentalità di oggi impone ai giovani di essere sempre felici e perfetti, con la conseguenza che ogni piccolo fallimento ed ogni minima difficoltà non sono più visti come motivo di crescita, ma come una sconfitta. Tutto questo li porta spesso a gesti irrimediabili come il suicidio, che provocano una lacerazione nel cuore di coloro che li amano e dell’intera società. Cosa può dire a noi educatori che, spesso, ci sentiamo con le mani legate e senza risposte?”
Una parte dell’’illuminante risposta di Papa Benedetto XVI fu:”[…] Siamo pensati e voluti e, quindi, c’è una idea che mi precede, un senso che mi precede e che devo scoprire, seguire e che dà finalmente significato alla mia vita. Mi sembra questo il primo punto: scoprire che realmente il mio essere è ragionevole, è pensato, ha un senso e la mia grande missione è scoprire questo senso, viverlo e dare così un nuovo elemento alla grande armonia cosmica pensata dal Creatore. Se è così, allora anche gli elementi di difficoltà diventano momenti di maturità, di processo e di progresso del mio stesso essere, che ha senso dal suo concepimento fino all’ultimo momento di vita. Possiamo conoscere questa realtà del senso precedente a tutti noi, possiamo anche riscoprire il senso della sofferenza e del dolore; certamente c’è un dolore che dobbiamo evitare e che dobbiamo allontanare dal mondo: tanti dolori inutili provocati dalle dittature, dai sistemi sbagliati, dall’odio e dalla violenza. Ma c’è anche nel dolore un senso profondo e solo se possiamo dare senso al dolore e alla sofferenza può maturare la nostra vita. Direi soprattutto che non è possibile l’amore senza il dolore, perché l’amore implica sempre una rinuncia a me, un lasciare me, un accettare l’altro nella sua alterità, implica un dono di me e, quindi, un uscire da me stesso. Tutto questo è dolore, sofferenza, ma proprio in questa sofferenza del perdermi per l’altro, per l’amato e quindi per Dio, divento grande e la mia vita trova l’amore e nell’amore il suo senso. Anche l’inscindibilità di amore e dolore, di amore e Dio sono elementi che devono entrare nella coscienza moderna per aiutarci a vivere. In questo senso direi che è importante far scoprire ai giovani Dio, far scoprire loro l’amore vero che proprio nella rinuncia diventa grande e così far scoprire loro anche la bontà interiore della sofferenza, che mi rende più libero e più grande.[…]”.
Prima di pensare alle risorse naturali, il modo più importante di pensare alle future generazioni è proprio quello educarli a cercare il significato della vita.
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